Se mi chiedessero di scegliere una sola parola per descrivere questa terra, sceglierei Tezeta, che in amarico, la lingua dei miei nonni, significa nostalgia.
Qui le do forma, suono, odore e sapore.
Perché attraversando l’Etiopia, dalla capitale ai villaggi, dal centro dell’Acrocoro alle varie regioni intorno, la nostalgia è preventiva. Un sentimento cioè che si fa largo nel presente, mentre mangi, ascolti la musica, prendi confidenza con la luce degli altipiani: sei qui, ma questa terra ti manca già. Ci vuole un talento particolare per far nascere questa sensazione. Ci vogliono ingredienti dosati da migliaia di anni. Ingredienti che ogni visitatore impara presto a conoscere.
IL COLORE BIANCO
È inutile negarlo, ad Addis Abeba, la capitale, in tutte le cose cerco i miei nonni e li cerco ancor prima di andarli a trovare nella Chiesa in cui sono sepolti. Il padre di mia madre era un uomo alto ed elegante. Aveva il viso lungo, gli zigomi sporgenti, il naso dritto come la sua schiena, fiera. Per le vie di Addis incontro uomini anziani dalla fisionomia e dal portamento simile, sembrano principi, e nei loro volti trovo i tratti di Worku Aftemariam, colui che da piccola mi teneva stretta fra sé ed il bastone di legno che negli ultimi anni della sua vita lo sorreggeva meglio della sua schiena nelle lunghe passeggiate sotto gli eucalipti. A dargli ancora di più un aspetto regale era sulle spalle il tradizionale gabi bianco di cotone d’Etiopia che lo fasciava come un mantello. Il gabi è sicuramente un tessuto naturale che compie la magia di trattenere il caldo d’inverno ed il fresco d’estate. Mia nonna, come facevano le donne qui un tempo, con il fuso filava a mano il cotone grezzo, torcendo la fibra per farne lunghi fili che finivano nel telaio a formare il panno bianchissimo. Ancora oggi donne e uomini si avvolgono di questo tessuto che sa d’antico, un bozzolo mistico che ricorda il sudario di Cristo. Il candore dei riti, delle funzioni religiose, della dimora povera e ricchissima di un Dio copto ortodosso venerato da millenni. Il gabi trattiene la luce nelle sue maglie che glassano di bianco il Paese devoto, tra le sue trame si ferma l’odore antico dell’altipiano, e ancora fuori dai confini d’Etiopia, una volta qui in Italia, respirarci attraverso significa sentire il profumo di quella terra dell’origine: Hagerè come si dice qui.
IL SUONO
Se quel colore avesse un suono, sarebbe quello struggente del Masinko: una sola corda tormentata dal crine dell’archetto è in grado di rendere manifesta e tangibile la Storia con la musica degli Azmari, che un tempo avevano un ruolo fondamentale: tramandare tradizioni e diffondere notizie con racconti orali. Suono che come un tessuto agile teneva insieme l’intero popolo etiope. Si trovano ancora sporadicamente alcuni degli Azmari-bet, i luoghi cioè dove si esibiscono con strabilianti improvvisazioni i coraggiosi cantastorie che diffondevano la resistenza ai tempi dell’invasione coloniale italiana. Furono sterminati. Ma il masinko e i loro canti si sono tramandati, e, quando si ha la fortuna di ascoltarli, legano l’Etiopia a un patrimonio di altissima caratura.
La musica d’impianto tradizionale, sofisticato prodotto della cultura che vive di una naturalezza istintiva, è costante: diffusa dalle chiese che celebrano le funzioni ortodosse e sparata dalle casse potenti dei negozi sulle strade. Musica nei bar, nei taxi, nelle radioline, nei numerosi club in cui imperversano le band che suonano ogni sera dal vivo. I brani tradizionali per resistere si vestono di suoni anche moderni, di sintetizzatori dal sapore sintetico. Tuttavia in filigrana le scale pentatoniche abitano lo spazio con la loro matrice ostinata e antica, che fanno risuonare il Paese tutto di un’identità peculiare, estremamente riconoscibile. Una musica molto diversa da quella che si respira nel resto dell’Africa.
GLI ODORI
Rivedo mia nonna Abebech ancora viva, seduta su di uno sgabello basso a mescolare il Berberè, la salsa speziata e piccante, che con le sue note acute invade dalla profondità della storia ogni tessuto, ogni ambiente, ogni angolo della capitale come delle terre intorno.
La nonna dal mercato si è procurata la paprika piccante, il pepe, il coriandolo ed il cardamomo. Macina questi odori e aggiunge alle polveri la noce moscata, i chiodi di garofano e la trigonella in semi, l’aglio, la cipolla, il sale, l’aceto e un po’ d’acqua. Scalda il tutto in un pentolino e dal composto tiepido ricava una poltiglia rossa come la terra della Valle dell’Omo e piccante come un incendio. Questa è la salsa che accompagna quasi tutti i piatti d’Etiopia, ne è l’anima. Un profumo denso e stratificato, complesso di note di terra e d’aria, che riconosceresti in ogni angolo del pianeta.
L’ALTIPIANO e LA LUCE
Acrocoro Etiopico, tetto d’Africa. Si atterra praticamente in montagna, senza ascesa. È la magia dell’altipiano, che inganna: “scendi in alto”. Non sali, non la vedi la montagna che cresce. Ti trovi improvvisamente a Tremila metri sopra il livello del mare: sei in un’Africa insospettabile, alla sommità di montagne decapitate, dove si celebra, come in molte culture, il cosiddetto matrimonio mistico tra cielo e terra. Le ombre sono nere e i colori saturi, la luce degli altipiani d’Etiopia non prevede sfumature. È luogo molto fisico e allo stesso tempo spirituale per eccellenza. I testi sacri sono pieni di montagne dove si consuma il rapporto tra umano e divino. Gli Etiopi che sono nati a quelle mistiche altitudini, con il loro portamento, con la loro dignità, il loro aspetto, beh, sembrano incarnare con una certa consapevolezza la loro vicinanza all’assoluto. Forse è questo l’elemento inafferrabile che inchioda ogni visitatore alla sensazione disarmante e commovente di essere al centro del mondo, dentro ad un processo d’ascensione, di ritorno al principio. l’Etiopia, terra antica, di faglie geologiche e ritrovamenti fossili, di devozione antichissima e di luce trascendente è anche questo: simbolo dell’origine.
Questi e i tanti altri ingredienti che formano l’anima dell’Etiopia sono assediati dal nuovo corso, il progresso che a grandi passi arriva dall’Oriente, con il cemento, i vetri, i cantieri che si aprono ovunque come crateri che inghiottono la tradizione.
Tuttavia ancora resistono il sacro e il mistero, la sensualità degli odori e lo schiaffo della luce.
Eccola, Tezeta, la nostalgia che si vive nella terra dei miei nonni: una complessa miscela di emozioni a ricordare d’esser orfani di una stessa grande origine.
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