Kaled al-Asaad fu ucciso da un gruppo Jihadista il 18 agosto del 2015, a Palmira. Era lo studioso, per quarant’anni e con straordinaria competenza, custode del sito archeologico della città siriana.
La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile – arrivò sino all’Egitto – era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, si abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne. (C. Brandi, 1954)
Palmira è come il fiore dell’agave che fiorisce dopo lunghissima maturazione: quanti secoli di passaggi carovanieri ci vollero perché presso le sorgenti sulfuree nella desolazione nascesse un santuario e un villaggio e poi un centro, e poi improvvisamente nel primo secolo avanti Cristo, con favoloso sviluppo, una città capitale d’uno stato che servì di cuscinetto e di tramite di scambi tra i Parti e i Romani, dove confluivano i prodotti di Roma e le mercanzie della Partia, della Cina e dell’India, come sete, gioielli, perle e profumi: l’odorant cinnamome et le nard de Palmyre… les bijoux perdus de l’antique Palmyre? (Baudelaire, Les Fleurs du Mal, 1857 n.d.r.). Palmira divenne la capitale finanziaria dell’Oriente, e infine, profittando della debolezza e dell’anarchia di Roma, un impero che nel terzo secolo dell’era volgare, sotto Zenobia, si estese dal Nilo all’Eufrate. E ora dove sarebbe il grido di questo grande impero sbocciato per breve tempo nel deserto, come il fiore dell’agave acceso quasi da una miccia, e poi presto spento, chi ragionerebbe più di Palmira, se la solitudine dei luoghi, l’aria asciutta, la lontananza da ogni altro centro abitato, la primitiva selvatichezza dei beduini, non avessero preservato in una certa misura da fatiscenza e dilapidazioni questi solenni filari di colonne che menano ad un alto tempio dove non officia più nessun sacerdote, ma dove, come su un quasi intatto scenario, potrebbe da un momento all’altro apparire un variopinto coro come nell’Aida? Non doveva essere ai suoi bei tempi uno scenario raffinato, quello di Palmira, coi suoi ordini corinzi carichi d’ornamenti, le sue mensole innumerevoli innestate sul fusto delle colonne a sostenere le statue dei facoltosi mercanti, molti dei quali aggiunsero nomi gentilizi romani ai loro nomi semitici, e furono ammessi nei ranghi della romana aristocrazia; ma uno scenario pieno di colore, di clangore, di scintillio. (M. Praz, 1956)
Così le descrivevano, a metà del secolo scorso, due illustri studiosi. Ma l’effetto del profilo di Palmira che appare sulla lunga strada che la collega a Damasco e passa per Deir Mar Musa al-Habashi, dove potevi salire e fermarti a fare due parole con padre Dall’Oglio, creava forti emozioni anche in una viaggiatrice senza studi specialistici, ma curiosa e affascinata per la pluralità delle pratiche religiose, la varietà delle ‘emergenze’ storiche, la linea verticale delle Civiltà che l’hanno abitata, dalle più antiche, fino a Roma, Bisanzio, l’Islam; città straordinaria, simbolo di un cosmopolitismo religioso e culturale che la rende ostaggio degli interessi geopolitici nel Medio Oriente.
Oggi les bijoux perdus de l’antique Palmyre sono le circa tremila iscrizioni documentate e pubblicate, suggerisce Eleonora Cussini, professoressa di Filologia Semitica all’Università Cà Foscari di Venezia, nel suo libro Tadmorena, uscito per Paideia nel 2022. Restano le iscrizioni e quello che è stato possibile mettere in salvo, perché insieme alla morte di Kaled al-Asaad, Palmira è stata distrutta da cariche esplosive: templi e tombe, l’arco monumentale, il teatro, il colonnato. Nonostante l’opera di recupero di molti reperti e il loro trasferimento in luoghi sicuri, anche il saccheggio e la spoliazione delle tombe, la rimozione dei rilievi ad opera di vandali o di truffatori gravano sulle macerie.
Di Tadmor, così è detta Palmira in alcune tavolette assire del II millennio, non si persero mai le tracce. Ma il deserto era un ostacolo più grande della memoria, finché nel 1751 due intrepidi, l’irlandese Robert Wood e l’inglese James Dawkins, si spinsero nell’Oasi e vi restarono per qualche giorno. The ruins of Palmyra, otherwise Tedmor, in the desert – pubblicazione apparsa a Londra nel 1753 e corredata dalle magnifiche incisioni dell’architetto e topografo torinese Giovanni Battista Borra, che li accompagnava – sorprese l’Europa. Le incisioni e le copie delle iscrizioni contribuirono a decifrare la lingua palmirena. Da allora, viaggiatori e artisti si recarono a Palmira per assaporarne l’incanto; molti ne riportarono disegni, trascrizioni, resoconti e fotografie. Le prime esplorazioni scientifiche, tuttavia, vennero incoraggiate dall’imperatore Guglielmo II, giunto in Siria nel 1898: Theodor Wiegand e Daniel Krencker svelarono la bellezza dalla sabbia, eseguendo il rilievo del sito archeologico e la mappatura delle tombe. Negli anni ’20 del XX secolo, sotto il mandato francese, fu la volta dei cantieri diretti da Henri Seyrig e Daniel Schlumberger, di una prima raccolta di iscrizioni, relativa a tre missioni epigrafiche, e di una monografia dedicata alla varietà aramaica locale, ancora oggi grammatica di riferimento per la lingua palmirena.
Il 1945 segnò l’indipendenza della Siria e l’apertura alle missioni archeologiche straniere. Prima che i miliziani di Daesh conquistassero Palmira, se ne contavano numerose (svizzera, polacca, tedesca, giapponese, danese, italiana…).
Impossibilitati a proseguire il lavoro sul terreno, al momento gli esperti valutano i danni e discutono sull’opportunità di ricostruzione dei polverizzati templi di Bêl e Baalshamin. La città di Zenobia – che non di un regno ma di un sogno universale era regina – ha il volto sfigurato dalla violenza di esplosioni e saccheggi, ridotta a campo di battaglia con tanti caduti, uomini, donne, bambini e pietre.
No Temple in Palmyra! È il titolo di una pubblicazione del 2019 di Andreas Schmidt-Colinet, uno dei più accreditati studiosi dell’area, che si oppone all’idea di una ricostruzione delle zone distrutte. Le sue ragioni sono legate al pericolo di ‘finzione’ che si origina dal voler ridare volto e forma alla polvere che è a terra. Le architetture plasmate dal tempo che incantavano i viaggiatori al primo comparire all’orizzonte del profilo di Palmira non ci sono più; le macerie non ridiventano storia, soprattutto se a spingere la ricostruzione sono ancora i signori della guerra, il presidente siriano Bashar al Assad e la Russia. La fretta di ricostruire alimenta il sospetto che l’intento di fondo sia richiamare il turismo, riportare business, senza tener conto dei possibili scavi che le rovine hanno in qualche modo aperto, consentendo ricerca e nuove scoperte.
Il mondo scientifico è attivo nel mondo: lo testimoniano l’Istituto Archeologico giapponese e la Missione archeologica polacca che si occupano della formazione di giovani restauratori siriani, per fornire contributi alla storia futura di Palmira.
L’attenzione ai modi con cui guardare a questo futuro non perde di vista la realtà di un territorio che è stato profondamente lacerato, che ha perso mezzo milione di vite umane identificate e un numero imprecisato di vite non identificate, che ha bambini che hanno conosciuto solo la guerra e soffrono la fame. A questi si aggiungono undici milioni di profughi e le tragedie naturali come il terremoto del 5/6 febbraio scorso che ha provocato, oltre ai cinquantamila morti della Turchia, anche più di settemila morti nelle regioni settentrionali della Siria.
A fronte di una tragedia umanitaria così imponente, sembra marginale o stupido occuparsi di siti archeologici, ma proprio dentro quelle pietre si cela la storia dei popoli, si motivano le loro culture e le loro strutture sociali e riprendere a vivere significa anche riappropriarsene, trovare motivazioni nelle radici per riprendere il cammino.
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