La prima cosa, quando mi alzo ogni mattina, è accendere la radio, da sempre sintonizzata sul terzo canale, per le notizie dal mondo e dal paese. Mi è necessaria, forse trasmessa geneticamente da chi, in tempi di Ventennio e Resistenza, ascoltava con grave rischio personale Radio Londra per sapere cosa stava succedendo e quindi, cosa temere, sperare, anche cosa fare. O forse per l’abitudine, non solo mia, durante il Sessantotto e anche prima, ad una sorta di ‘all’erta’ per colpi di stato (nient’affatto infrequenti anche in Italia, non solo all’estero), stragi, assassinii politici, uccisi in manifestazioni, ed eventi così. Però, adesso, c’è qualcosa di diverso in fondo al cervello: se là c’era la tensione a poi-reagire, organizzarsi per fare, credere di potere fare qualcosa di utile, adesso invece mi si chiude giù per la gola e lo stomaco un ‘magone’, con tinte già da disperazione, e un senso generale di fine, di sconfitta, di delusione, di annientamento. Dalla fede illuminista nella ragione, ai valori dell’umanesimo, dalla convinzione (positivistica?, industrial-capitalistica?) del progresso nella storia, alla fratellanza cristiana, ma anche alla sorellanza femminista. Perché non solo la guerra è la costante notizia, peraltro sempre più diffusa, in continua espansione di territori e di capacità distruttiva, ma è diventata silenziosamente (ma ormai non solo, si tornano infatti a sentire ‘ragionamenti’ sulla fatalità della guerra che era dai tempi del nazifascismo che non circolavano più in attenzione tollerante) inevitabile, quotidianamente giustificata da pensatoi storici e politici, naturale. Esattamente come la catastrofe ambientale. Le due cose vanno davvero in parallelo, se l’Apocalisse coi suoi cavalieri qualcosa ci ha anticipato. La cosa che più mi strattona nel profondo sono i numeri. Oggettivi, portatori del valore quantitativo (che in tempi di neoliberismo è uno dei principali), ma soprattutto facilmente assimilabili da tutte le fazioni, in quanto sottoponibili ai teoremi più astratti e formali per dedurne corollari – sottesi o enunciati – come: ‘se sono riferiti alla parte ‘nemica’, i numeri valgono meno della loro quasi totalità, perché la parte ‘nemica’ è a priori nel torto e si fa strumentalizzare dai suoi capi’; ‘la quantità va svalutata perché si tratta di danni ‘collaterali’, errori, sviste, sba(di)gli inevitabili’; ‘anche se minoritario nel confronto numerico, il quantitativo riferito ai ‘buoni’ (miei o tuoi) vale di più e diventa maggioritario’; ‘il quantitativo di missili e droni – neutralizzati o non intercettati – è diventato quasi una gara da fuochi artificiali’; ‘case, palazzi, fabbriche, ospedali, scuole distrutti, in macerie sono noiosamente uguali, indistinguibili, e tutt’al più numericamente appetibili come guadagni di future ricostruzioni’; ‘le prospettive di durata temporale sono solo gestibili dalle armi, se maggiori o minori per quantità e capacità distruttiva’; ‘”pace” è un concetto astratto, non numerabile e non percorribile’.
Soprattutto, ai numeri ci si abitua: non hanno faccia, storia, non sanguinano, non urlano, anche quando qualcuno di ‘buona volontà’ aggiunge: di cui ‘tot’ bambini. Io sono una che detesta le pubblicità umanitarie che per raccogliere fondi fanno vedere visi e corpi di bimbi – quasi sempre neri e stranieri, perché i minori italiani li si nebulizza per pudore – martoriati da malattie tremende, ma anche questa ‘giunta’ qui (“di cui ‘tot’ bambini”), senza facce e corpi, mi fa drizzare i capelli, perché chi la fa è convinto di avere già dato la giusta denuncia, di avere già commosso i cuori sensibili. Oh!, sono creature anche i vecchi con le facce arate dalle rughe, gli esseri di mezza età con capelli tinti o pancetta, le donne col fazzoletto in testa e il grembiule in pancia (ma devo ammettere, che a volte la precisazione del ‘tot’ bambini si estende anche al ‘tot’ donne).
Mi sembra, a me – ma forse sono io a essere fuori – che in questi ‘tot’ si dia per scontato che la guerra è da condannare soprattutto per la violenza verso inermi innocenti vittime, da sempre destinate, come bambini e donne. Ma no. La guerra ammazza non solo anche i giovani e gli esseri in piena forma che fanno i soldati (e devono farlo, spesso controvoglia, o malconvinti, o minacciati, o violentati nella testa da ideologie fasulle, e così magari trasmutati da innocui viventi a violentissimi assassini), ma ammazza prima di tutto il senso comune della storia, quello così faticosamente messo insieme nei millenni per costruire comunità, per puntare al meglio contro gli oggettivi pericoli del sopravvivere naturale, per creare il bello, per imparare a cercare il nuovo e il diverso, per sentirsi inanellati gli uni agli altri – di ieri, oggi, domani –, per sentirsi connessi senza gradualità a tutte le cose esistenti. La guerra annienta l’idea stessa di futuro: si sa che la violenza contamina più veloce e più ampia del peggiore dei virus, alleva odio e vendetta, perpetua le divisioni senza possibilità di incontro. E i numeri ‘neutri’ la relegano lontano dalla percezione innata dell’orrore che in noi – io lo credo – farebbe scudo ad essa.
Quale alternativa? Be’, a partire dalla compianta storica Anna Bravo (quella de La conta dei salvati) che, contro le preponderanti e generalizzanti narrazioni belliche, proponeva anche minuscoli, anche assolutamente minoritari episodi di microstoria in cui il rifiuto, la resistenza, la scelta diversa, facevano intravedere una non-unanimità nell’azione, nell’ideologia, nella partecipazione della violenza (come quel Natale tra trincee opposte nella Grande Guerra); a partire dal suo esempio, dicevo, perché non dar voce pubblica, diffusione, conoscenza anche a chi non pensa e non vuole guerra e addirittura fa piccole cose per possibilità differenti; magari tra la gente qualunque, senza potere di audience, se è troppo difficile e raro trovarne tra i politici, i potenti, o gli intellettuali, gli artisti… E ben vengano i giornalisti e i fotografi di guerra, gli scrittori, i testimoni, che, oltre ai numeri, raccontano di esseri viventi reali, con famiglie, storie, dolori, speranze, disperazioni: veri, che i nostri neuroni a specchio riconoscono subito, così da farci capire/sentire davvero la tragedia. Senza retorica o compassione guidata. Per poi farci alzare su dalle poltrone, magari per inventare nuovi modi di dire ‘pace’, in piazza o in digitale o in sala d’attesa dal dottore.
Devo credere che sia del tutto estinta la razza delle donne in nero delle due parti avverse che in passato, contro i maschi dettami dei loro capipopolo, si incontravano e cercavano intrecci possibili ed esprimevano a voce alta la voglia e il bisogno della convivenza pacifica? La razza di quelle altre che si stendevano sui binari per non fare partire figli padri mariti per le trincee della Grande guerra? Quelle che, pur di non far continuare la guerra ai figli, affiancarono la Resistenza, si fecero staffette, scelsero contro Salò per istinto vitale materno. Ma, per non apparire troppo parziale, penso anche ai non pochi ragazzi renitenti alla leva per rifiuto delle armi e della guerra, che in tempi non troppo lontani si facevano anni di carcere militare pur di non imbracciare un fucile. Penso ai tanti figli dei fiori con in bocca il mantra “make love not war”. Tutto finito nel giro di una generazione e mezzo? Si ama De André perché lo fanno tutti, senza far caso a come cantava contro la guerra, la prepotenza, i pregiudizi, la violenza? Dove sono finiti gli intellettuali, gli uomini del sapere, gli artisti alla Pasolini, alla Dolci, alla Don Milani, alla Rodari… spostiamoci più in là, alla Gandhi, all’Angela Davis, all’Adorno, alla Mandela… ? E’ stata solo una stagione, ormai tramontata?
Al cinema ho visto Campo di battaglia di Gianni Amelio. Che molti che conosco hanno pure visto – non certo spinti dal silenzio assordante che l’ha distinto nel rumoroso battage veneziano – e ne sono rimasti segnati.
Perché è un film così contro la guerra e contro la prepotenza di chi ad essa condanna tanti inermi, ignari, innocenti esseri umani, in nome di astrazioni che nascondono gli interessi di potere di pochi e la cecità dei molti succubi, da superare d’un balzo il tempo storico del 1918 per dirci di oggi, di come la guerra sia ugualissima alla pestilenza della spagnola allora e del covid l’altroieri. Un film senza trincee, senza troppo sangue sotto le bende, ma capace di ridarti il disperato bisogno di vita di tanti poveri ignoranti contadini, spersi nell’atrocità, istintivamente capaci di autolesioni pur di sottrarsi alla mattanza, lesioni fisiche e mentali tanto ingenue quanto evidenti ed esposte alle più dure repressioni: fucilazione o immediato rientro nel massacro. Il film avrà forse qualche limite estetico, ma santocielo!, quanto sa dire e fare capire senza retorica e senza agire sulla compassione. Se ne esce, giustamente ferocemente, arrabbiati.
Per le meravigliose casualità del vivere, è un film in parallelo con l’opera in versi – La casa degli scemi – di una poeta assolutamente di pace, Anna Maria Farabbi. Qui si traccia la figura davvero bellissima di un anarchico Bruno che va in guerra – la Prima mondiale – come barelliere e perde quasi la ragione per le atrocità di cui è testimone, e le ferite. Ricoverato nella casa degli scemi, dove rimettevano in piedi alla bell’e meglio gli impazziti per rispedirli prima possibile al fronte, subisce e denuncia la violenza sulle menti e sui corpi di cui è vittima e testimone. Non dico come si conclude, ma dico che, come il film, è uno dei testi poetici più forti contro la guerra. Se ne esce per sempre innamorati di Bruno. Poco conosciuto, poco ri-conosciuto, oggi fuori catalogo, speriamo in una ristampa. Ma le due ‘cose’, film e poesia, ci mostrano il possibile e potente ruolo dell’arte che sceglie l’impegno. Adesso, soprattutto contro la guerra.
E se al telegiornale inframezzassero i numeri dei morti con qualche poesia che condanna la guerra… che so, l’addio di Ettore (poco bellicista, nonostante Omero) alla moglie e al figlio sulle mura di Troia, qualche verso di trincea di Ungaretti… oppure qualche fotogramma del postatomica di Hiroshima… oppure, di colpo, un viso, un nome e cognome, una storia qualunque di un qualunque essere umano derubato della vita da un bombardamento o da una mina o da… Ve l’immaginate?
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