Famiglia Cervi. Wikipedia

La storiografia che ha analizzato il fenomeno della Resistenza italiana, ha cercato di mettere in luce occasioni e motivi profondi di una scelta antifascista così larga da poterla definire popolare e per molti versi spontanea – nonché di massa, possiamo aggiungere senza esagerare, non solo per i tanti giovani che scelsero spontaneamente di rifiutare la chiamata alle armi della nazifascista Repubblica di Salò e di darsi a una clandestinità che li metteva a rischio di immediata fucilazione, ma anche per la diffusa rete di sostegno che la gente scelse di allestire a loro difesa, pure quando, con  differenti modalità, più o meno improvvisate, quei giovani cominciarono a unirsi in gruppi di azione contro gli occupanti nazisti e i loro subalterni fascisti repubblichini: e furono i Banditen, i ribelli traditori, i partigiani. Il caos dell’8 settembre 1943, la delusione verso un regime che mostrava infine la sua miseria istitutiva ed etica, l’acuirsi delle violenze e delle sopraffazioni sulla gente più povera e indifesa, come i contadini, come gli ebrei, sono state individuate tra le situazioni che maggiormente spinsero alla Resistenza. Ma, soprattutto, fu che la gente voleva smettere con la guerra. Già le disastrose campagne d’Africa e di Russia avevano smascherato le roboanti ideologizzazioni belliche fasciste, già l’8 settembre aveva mostrato come l’alleato tedesco affermava con le stragi e le deportazioni la sua volontà di collaborazione: i giovani abbandonati sui vari fronti a se stessi, sbandati, braccati, avrebbero potuto credere davvero alla novella Repubblica gestita dai nazisti che li chiamava, ancora, alla guerra? Le madri, le mogli, le sorelle, le famiglie non volevano più sacrificare alla patria i propri ragazzi. E non esitarono a diventare complici dei nascondigli dei renitenti alla leva, loro aiutanti nelle azioni di resistenza, staffette che a rischio della vita portavano messaggi e armi e cibo.
Detta così, con frasi che per forza tentano un quadro generale, non solo si profila in sottofondo un’inevitabile eco di retorica, ma sembra che, a conti fatti, la gente rifiutò, sì, la guerra, ma per sostenere un’altra guerra, profondamente diversa nelle motivazioni, negli obiettivi, nella scelta di partecipazione, ma comunque una guerra. E, per quanto non mi piaccia usare una connotazione che in genere tende a sminuire il valore della Resistenza, mi occorre dirlo: guerra contro l’occupante nazista, ma anche guerra contro una parte di italiani che la Repubblica di Salò avevano scelto di sostenere. Non la chiamerò, però, fratricida, come è consuetudine di chi la vuole relegare a un ambito di brutalità reciproca che non distingue motivazioni di valore etico differenti. Nemmeno, però, la chiamerò ‘fratricida’ perché i repubblichini furono troppo spesso trucidi ‘fratelli’, impegnati in violenze terribili, inaudite, contro i ‘fratelli ribelli’; ma perché in ogni guerra, anche tra fronti del tutto estranei, che mai si sono conosciuti, che mai hanno avuto qualcosa in comune, sono dei fratelli che si affrontano nella violenza. Esseri umani, della specie sapiens sapiens, contro esseri umani. Ogni guerra è fratricida.
Sono peraltro consapevole, per chi è convinto della necessità di abolire la violenza nei rapporti umani e nei rapporti tra umani e creature –tutte – del mondo, della difficoltà anche solo nel respirare un pensiero inerente una lotta – per forza violenta – di difesa: persona, gruppo, nazione che sia. Ė un nodo difficilissimo da affrontare e non sempre si può, si riesce, si prova la maniera di Gandhi. Mio padre è stato partigiano e io l’ho amato anche per questo.
Mi interessa qui, però, uscire dai grandi quadri generali e andare a guardare come certe scelte furono maturate in singoli uomini, dentro la loro formazione sociale e ideale, nell’intreccio dei legami famigliari, affettivi, umani. Come fu per i sette fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore, nati nel ventennio tra il 1901 e il 1921 – e per il loro padre Alcide, ma pure per la loro madre Genoeffa, e anche per le sorelle Diomira e Rina e per le mogli, compagne Iolanda, Margherita, Irnes, Verina. È appena uscito un bel saggio, a tre voci – Toni Rovatti, Alessandro Santagata, Giorgio Vecchio – che, appunto, cerca, oltre il mito dei Cervi – così come si innervò dalle memorie di papà Cervi e dalle ‘ricostruzioni politiche’ della loro storia – di rintracciare le effettive componenti sociali, culturali, personali della loro formazione e della loro scelta[i]. Ma non meno importanti a ricombinare i movimenti sulla scacchiera sono e sono state le memorie personali che, non subito, ma col tempo, poco per volta, alcuni dei sopravvissuti della famiglia hanno avuto la forza di testimoniare. Certo, memorie offerte alla memoria anche per non finire, i rimasti, inghiottiti dal mito. Dice Adelmo, figlio di Aldo: “’sto mito è ora di smetterla di coltivarlo, che del monumento e dei monumenti sono anche un po’ stufo. Non eravamo mica dei santi”[ii]. Luigi, il secondo figlio di Antenore, ha ammesso in un’intervista del 2016: “Più il tempo passa, più la storia diventa pesante”[iii]. E Maria, la prima figlia di Antenore, che ha speso tutta la sua vita per “tenere il segno di quello che era accaduto”[iv], nella casa dei Campi rossi, porta Laura Artioli a chiedersi: “Avrà mai temuto che non ci fosse per lei un posto nel mondo? Ma per quali strade Maria sia arrivata alla coscienza di sé, che cosa le sia costato distinguersi e intanto ricomprendere il vissuto intero della famiglia Cervi accettando l’imperativo morale che ne derivava (…)”[v]. Poche volte Maria ha lasciato trasparire qualcosa di assolutamente suo che non la inquadrasse come l’erede tenutaria della memoria, come quando, ricordando Lucia Sarzi, l’attrice ambulante a cui si affiancò Aldo nel lavoro clandestino per il Partito Comunista, ammette di averne ammirato la libertà: “Perché io ero abituata ad una vita molto più inquadrata: i contadini quando è mezzogiorno si mangia, quando è sera si va a letto, ed erano cose che a me stavano anche un po’ strette”, mai però tanto da “provocare in me insofferenza per l’ambiente, ribellione… no.”[vi] Significativa, infine, la frase di Luciana, prima figlia di Agostino, molto reticente a comparire, a parlare: “loro erano loro e noi siamo noi”[vii].
Ma le loro memorie o i loro silenzi, le ricerche e gli approfondimenti degli storici non hanno come esito una sottrazione al mito dei Cervi. Come per tutti i miti, invece, il continuare a percorrerli, l’indagare sulle loro radici e sui contesti e sulle metamorfosi, il riprenderli in diverse angolature, il nuovo interpretarli è necessario per ridare loro sangue e fiato, per sottrarli alla muratura della codificazione e rimetterli dentro il grande flusso della specie che, se li ha fatti sorgere, è naturale che li faccia concrescere in sé, vitali. Nei miti la specie deposita la sua esperienza, la sua coscienza.
E quanto ci dice Adelmo, è questo che innerva nel mito: una vitalità autentica, attuale, che davvero attua quella compresenza dei vivi e dei morti di cui ci parla Capitini. “Voglio raccontare la campagna, l’odore del fieno e del letame, e poi i sorrisi dei prigionieri russi e i ghigni brutti dei repubblichini con la camicia nera e quei pantaloni larghi che mi sono sempre sembrati ridicoli. (…) Per questo dopo tanti anni ho pensato di tornare sui miei passi, di tornare qui da dove non sono mai andato via veramente, neanche quando sono andato lontano. Per parlare di te [il padre Aldo, n.d.r.]. Per parlare con te. (…) È una storia di cui c’è un gran bisogno.”[viii]. Maria, a chi le chiede da dove ha preso la forza di andare oltre la tragedia, risponde: “da come la famiglia era sempre stata”[ix] e com’era, la famiglia, ce lo dice Alcide: “e se qualche parola che fu dei miei figli sembra diventata mia è perché non ricordo chi la disse, ma era come se l’avessimo detta tutti e sette e io con loro. Perché anche nella vita eravamo così: otto erano uno e uno era tutti e otto”[x].  E in questo numero, anche se non nominate, ci sono dentro pure le sorelle Cervi, e le mogli, e mamma Genoeffa, perché in casa Cervi le donne avevano valore, potevano dire la loro opinione ed erano ascoltate. C’è una frase significativa nelle memorie di Alcide, a proposito di un problema famigliare: “riunisco la famiglia, e facciamo consiglio, si decide”[xi]. Un verbo in prima persona singolare, che passa a un verbo in prima persona plurale, per arrivare ad un impersonale onnicomprensivo. Va detto, infatti che, nel numero famigliare ci sono anche gli altri: “tu padre di famiglia che hai perduto tuo il figlio in guerra, e tu madre che hai avuto il figlio ucciso dai fascisti, sentilo tuo questo libro, sentilo storia anche dei figli tuoi. Solo così mi sentirò meno superbioso.”[xii] E tutti quegli sbandati in fuga, stranieri o italiani, che in casa Cervi erano sicuri di trovare rifugio e aiuto; e tutti quelli che, ad esempio per scansare la leva, andavano dai Cervi – donne e uomini – per un consiglio, una dritta. Anche se forse la memoria ha modificato qualche particolare, credo emblematico quanto Margherita racconta della pasta asciutta offerta dai Cervi a tutto il paese – con grave peso di debiti – per festeggiare la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943. Qualcuno dice a Gelindo che c’è anche un fascista a mangiare. Al che, dopo avere lui ribattuto che evidentemente aveva fame, gli si avvicina e gli dice che almeno avrebbe potuto togliersi la camicia nera. Quello ribatte che non ne aveva un’altra. E quel Gelindo che già si era fatto della galera nel ’39 per avere detto ad una donna in miseria che era colpa di Mussolini, non lo manda via, ma si limita a fargli notare a che punto l’ha ridotto il fascismo. E non importa se poi li guardavano con un po’ di reticenza, i selvatici Rubàn[xiii],  perché un po’ fuori della norma, un po’ zingari, con quelle scelte strane: come diventare fittavoli pieni di debiti, invece di contentarsi di stare mezzadri,  come buttarsi a comprare tutte le nuove macchine, per lavorare i campi, per mungere, sempre dietro a studiare, frequentare corsi, tutti con la loro brava licenza di terza, e quella madre che fin da piccoli gli leggeva ogni sera storie antiche e moderne, perché imparassero a essere bravi nella vita, e le leggeva così bene che venivano anche dalle altre cascine per ascoltarla, lei che, pur di leggere, chiedeva al venditore di terraglie di non strappare i fogli di giornale per avvolgere i pezzi comprati, che ci pensava poi lei, così che, tutti interi, se li ripassava riga per riga, fossero anche vecchi o con notizie di scarso valore. 

Alcide Cervi si iscrisse fin dal suo inizio nel 1919 al Partito Popolare Italiano di Don Sturzo, che bisogna ricordare quanto si presentasse innovativo (difendeva le associazioni sindacali, sosteneva varie riforme come il voto alle donne, credeva nel valore del decentramento amministrativo e della piccola proprietà rurale per superare la grande tenuta agraria, esaltava il ruolo della Società delle Nazioni per conservare la pace nel mondo), offrendo ai cattolici, dopo tanti anni di astensione (il non expedit pontificio che proibiva ai cattolici la partecipazione alla vita politica del nuovo Stato Italiano), uno strumento politico di partecipazione, interclassista e non confessionale (Partito di cattolici, non partito cattolico), cioè, indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma fin dall’inizio la Chiesa istituzionale fu molto ingerente nelle attività de PPI, e d’altra parte la sua diffusione fu certamente favorita, soprattutto al Nord, dalle varie e diffuse ramificazioni dell’Azione Cattolica.  Già nel 1923 Don Sturzo è costretto a dimettersi e poi ad andare in esilio. Alcide è presente alla prima riunione del PPI a Campegine nel 1919, che è tenuta in una casa privata. Ed anche alla seconda, ad aprile, ma già dislocata nella parrocchia. Sarà attivo e presente come rappresentante del PPI nei seggi elettorali finché ci saranno le votazioni. Il PPI, infatti, sarà sciolto nel 1926 dal regime fascista ormai trionfante, ormai in vista dei prossimi Patti Lateranensi tra Chiesa e Stato fascista. Non si tratta, quindi, di una ‘svista’ politica, l’affiliazione di Alcide Cervi al PPI, di un tranello di cui in seguito si sarebbe reso conto. Non è inoltre casuale che, fino all’inizio degli anni 30, e anche oltre, quasi tutti nella famiglia Cervi, figli e figlie e Genoeffa, siano attivissimi nei vari settori maschili e femminili, giovanili e per adulti, delle Acli, abbonati alle riviste, presenti alle riunioni, fedeli e severi praticanti. È conosciuto l’episodio di Aldo che, trovando la sorella Diomira nei campi col moroso invece di essere a messa, la rimprovera duramente, perché, certi doveri, una vera credente non può metterli da parte. Nonostante Gelindo sia il meno chiesaiolo dei fratelli, e la moglie Iolanda ricordi che non andava mai a messa (forse anche perché prendeva molto seriamente il suo ruolo di primogenito e si assumeva i compiti di chi si assentava), tutti i suoi figli sono stati battezzati, come quelli di Antenore e di Agostino. Non di Aldo, che dopo la voltata, maturata nella galera militare tra il 29 e il 32, si dissocia del tutto dalla Chiesa.  Non si tratta, per i Cervi di convenzione esteriore, ma come per molti contadini emiliani di una religiosità profonda, antica, anche un po’ pagana, quotidianamente calata dentro la cultura della terra, dentro i rapporti tra i famigliari e con la gente, attraverso una scelta decisamente non violenta della vita, nonostante le irruenze del carattere e gli atteggiamenti a volte smargiassoni. Non a caso Camillo Prampolini, che di sicuro aveva catturato l’interesse di Alcide Cervi, aveva portato portato i valori del socialismo soprattutto nelle campagne emiliane, usando riferimenti e modi di ragionare e linguaggio affini alla matrice più popolare dei credenti, mostrando di rispettare i valori del cristianesimo, altra cosa dal clericale cattolicesimo: da qui anche la riproposta di un Gesù socialista che aveva insegnato a perseguire la giustizia. Posso testimoniare questa convinzione nei miei nonni contadini e in molte famiglie rurali della mia infanzia. Ancora non a caso, certo, ci informa Giorgio Vecchio che nel corso del congresso socialista del Collegio elettorale di Montecchio (maggio 1916) una questione posta e dibattuta è proprio la compatibilità della fede cattolica con l’iscrizione al Partito Socialista. Nella discussione si mostra che la questione è piuttosto, molto variamente, sentita. Interessante, comunque, che si arrivi a concludere che occorre rispettare i diritti alla coscienza individuale, anche se non è tollerabile un’iscrizione al Partito concomitante con la frequentazione di una Chiesa che gli è tanto ostile. L’ostilità tra socialisti, sempre più emergenti, e cattolici è quotidiana, spesso sfociante in episodi alla Don Camillo e Peppone, ma anche in situazioni pesanti e pericolose, specie nel biennio rosso delle lotte contadine. Ma sotto questo antagonismo c’è pure un reciproco scambio d’esperienza, se, accanto alle leghe, alle cooperative, alle banche di mutuo soccorso rosse, ne sorgono altrettante bianche. Vero è che gli obiettivi, i rapporti con gli agrari, i modi delle lotte divergono, ma le condizioni generali sono le stesse, le ingiustizie, gli eccidi, la miseria sono sotto gli occhi di tutti. Quando nel biennio che precede la marcia su Roma le violenze delle squadracce nere si abbattono su leghe, cooperative, consigli comunali rossi, ma non solo, ecco che assistiamo al lancio di una speciale forma di organizzazione probabilmente difensiva – Avanguardia – da parte delle Acli, che, se originariamente era forse pensata contro gli assalti socialisti – ipotizza Giorgio Vecchio – probabilmente ora è più preoccupata degli assalti delle bande fasciste. Siamo nell’agosto del ’22: Antenore si offre volontario e lo segue Aldo.               
Dopo l’ingiusta condanna al carcere militare per presunta insubordinazione e l’esperienza lì maturata in possibili contatti con carcerati antifascisti, e dopo l’incontro con Lucia Sarzi, che fa del suo lavoro di attrice girovaga la condizione per diffondere idee e stampa comuniste, solo allora Aldo si stacca dalla Chiesa e diventa un attivista del PCdI. Che l’accordo coi fratelli e la famiglia nelle future scelte e azioni antifasciste, fino alla formazione della banda partigiana Cervi, fino alla fucilazione del 28 dicembre 1943, non venga mai meno, non significa che tutti si fossero voltati alla maniera di Aldo. Anche se lui era il più politicamente formato, e considerato e seguito in famiglia, la famiglia Cervi sapeva far convivere nel rispetto al proprio interno differenti convinzioni, pratiche, scelte. Così di Ferdinando, ancora nel 1936, Margherita, moglie di Antenore, racconta:

“(…) io sto pensando di andare a confessarmi al prete di Praticello e vorrei sentire cosa ne pensa di questa guerra [d’Etiopia, n.d.r] perché secondo me anche gli africani sono esseri umani anche se hanno la pelle nera”. Andò, ma venne a casa insoddisfatto così decise di andare da don Ferrari di Campegine che gli aveva fatto tutte le cose religiose. Don Ferrari gli disse di confessare i peccati, ma Ferdinando rispose: “Signor Arciprete non ho peccati, vorrei soltanto sapere se è giusto andare alla guerra in Africa. Io penso di no perché anche là ci sono esseri umani anche se negri”. Don Ferrari rispose che gli ordini erano ordini e bisogna seguirli. Ferdinando ci disse che avrebbe parlato ancora ma don Ferrari lo mandò via dicendo che aveva altra gente da confessare. Da allora Ferdinando si allontanò dalla religione.”[xiv]

E Alcide Cervi, per aiutare Aldo nel processo del Tribunale Supremo Militare, non esita a chiedere l’intervento di ecclesiastici, esponenti politici, nonché dell’onorevole fascista Bigliardi (“L’avevo avuto come padrone a Olmo. L’onorevole era fascista, ma mi voleva bene”[xv]). Fino alla vicenda di Aldo, ma anche dopo, i Cervi, pur insofferenti verso un regime che si manifesta antilibertario e lontano dagli interessi dei più poveri, mantengono con tutti i paesani, anche fascisti, rapporti di quieto vivere. È solo dopo, lungo gli anni 30, che con maggiore o minore lentezza (Agostino, al momento della leva, risulta iscritto dal 34 al 36 ai Fasci Giovanili di Combattimento, non pericoloso per l’ordine pubblico, “di buona condotta morale e politica”, ma è anche possibile immaginarla una tattica di depistaggio), maggiore o minore consapevolezza, partecipazione, spirito di emulazione, si voltano verso il comunismo, di sicuro reinterpretato secondo valori già profondamente radicati nella loro formazione cristiana e nella cultura contadina, come emerge in vari brandelli di ricordi soprattutto delle donne, e certamente perché in quel momento era l’unico punto di riferimento a cui  rivolgersi. D’altra parte non solo i Cervi, ma molti contadini reggiani ed emiliani in quel periodo si avvicinano al comunismo spesso legati al socialismo dell’“apostolo” Prampolini, anche provenendo da militanze cattoliche, di cui rinnegano il tradimento dei vertici sempre più succubi del fascismo, ma conservando una religiosità di base che rivisita i valori marxisti. Emerge tante volte ancora nelle memorie di Alcide Cervi.
Sono mossi questi emiliani, prima di tutto dalla difesa delle loro cose contro le razzie, le requisizioni, gli ammassi del regime, dalla tradizione di reciproca solidarietà, dalla forza della famiglia (i primi gruppi antifascisti, sono, come i Cervi, di origine famigliare), dal bisogno di salvaguardare le vite dei giovani – vero tesoro dei contadini – dalla leva e dalla guerra. Incredibili gli stratagemmi, documentati nelle vicende dei Cervi, per evitare l’arruolamento: punture, sostanze che provocano violenti malesseri da ricovero, perdita di denti non sostituiti  (non si sa se, in certi casi, dovuta a estrazioni volontarie; in ogni caso, per quanto costose, sarebbero comunque state possibili alcune cure, certo non effettuate, ad esempio da Ovidio e Ettore), fino alla sostituzione fisica del richiamato alla visita medica ( sembra che Ferdinando, ‘titolare’ di un’ernia, abbia sostituito Agostino, riformato con la medesima diagnosi). Non è certo, dice Toni Rovatti, la più canonica formazione del comunista tipo: attività clandestina, carcere/confino spesso come scuola politica, interesse ideale rivolto soprattutto alle città e agli operai. L’antifascismo emiliano nel suo complesso, e quello dei Cervi in particolare, risulta “anomalo”, spesso in “dissonanza” con la “linea” non solo comunista, ma anche della formazione delle prime bande di resistenza: a lungo la specificità dell’Emilia, che coniuga originalmente la protesta contadina con la lotta partigiana, la città con la campagna, resterà non capita, relegata ad un ritardo regionale, non studiata. I Cervi, dopo l’8 settembre, spontaneamente, si armarono con alcune requisizioni, formarono con prigionieri e fuggitivi accolti in casa propria, e con conoscenti, la loro banda e andarono sulle prime colline, pesantemente criticati dai compagni che temevano la spontaneità, l’improvvisazione, la mancanza di coordinamento. Dopo poco tempo le grandi difficoltà, l’isolamento ed esiti negativi li riportarono in pianura, dove si adoperarono a trovare rifugi e vie di fuga per quasi tutti i componenti della banda, meno due stranieri e l’amico che furono catturati con loro, pochi giorni dopo il loro rientro, dai fascisti nell’assalto alla Casa dei Campi rossi la notte del 25 dicembre.    
Come bene mette in rilievo Toni Rovatti, in quel contesto di “urgenze” e “violenze” (la delusione per l’esito delle prospettive del fascismo e  per la successiva gestione regia dell’armistizio, “l’ubriacatura della improvvisa libertà” dal regime, la “disubbidienza” al nuovo arruolamento di Salò che costringe all’azione) si attuò una rapidissima maturazione nella coscienza dei gruppi e degli individui, che portò alla necessità di reagire, di scegliere, istantaneamente: si trattava di qualcosa che unificava profondamente “moralità” e “spontaneità”.
Per i Cervi fu prima di tutto il netto rifiuto della guerra, a cui si erano sempre sentiti estranei.
La guerra, dice Toni Rovatti, è profondamente estranea alla cultura contadina, ne distrugge la diversità e l’autonomia, spiana violentemente un antico modello umano e sociale. Obbliga ad una sottomissione che costringe a concepire il corpo, il lavoro, la vita in modo assolutamente diverso. Santo Peli sostiene che non a caso l’arruolamento di giovani nelle varie milizie neofasciste di Salò sia stato prevalentemente un fenomeno urbano e che il rifiuto, la sfiducia nella neonata Repubblica siano sorti prevalentemente nelle campagne.


[i] Toni Rovatti, Alessandro Santagata, Giorgio Vecchio, Fratelli Cervi. La storia e la memoria. Viella, Roma 2024.

[ii] Adelmo Cervi con Giovanni Zucca, Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio, Piemme, Milano 2014, p.28

[iii] Laura Artioli, Con gli occhi di una bambina. Maria Cervi, memoria pubblica della famiglia, Viella, Roma 2020, Introduzione. Il pane, il latte, la memoria, p,18

[iv] Ivi, p.13

[v] Ivi, p.15

[vi] Ivi, p.16

[vii] Ivi, p.11

[viii] Adelmo Cervi con Giovanni Zucca, Io che conosco il tuo cuore., cit. p.9, pp.12-3

[ix] Laura Artioli, Con gli occhi di una bambina., cit., p.13

[x] Alcide Cervi, Renato Nicolai, I miei sette figli, Editori Riuniti, Roma, ristampa 2003, p.20

[xi] Ivi, p.46

[xii] Ivi, p.20

[xiii] Così li chiamavano, per una possibile provenienza da Rubiera.

[xiv] Margherita Cervi, Non c’era tempo di piangere, Istituto Alcide Cervi, Reggio Emilia 2001, pp.32-3

[xv] Alcide Cervi, Renato Nicolai, I miei sette figli, cit., p.46


  1. Avatar Paola Moreali
    Paola Moreali

    Conoscevo la storia dei fratelli Cervi, ma ora ho arricchito il mio bagaglio storico – culturale con una nuova visione, molto più cosciente. Grazie mille

  2. Avatar Renzo Ferretti
    Renzo Ferretti

    Ammiro veramente tanto la ricerca e gli approfondimenti che emergono in una lettura gradevole e passionale. Nel leggere ho scoperto riflessioni molto profonde che mi hanno mosso la commozione.
    Penso che questo pezzo di storia debba avere le gambe per un cammino di conoscenza anche nella nostra scuola.

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