L’articolo di Paolo Rumiz piantato sul quotidiano “La Repubblica” lo scorso 15 ottobre 2024, dal titolo Le parole perdute che hanno ridotto la democrazia a uno sbadiglio, coglie con precisione il significato di chi si assume la responsabilità della parola nella scrittura. Di chi, scrittore e o poeta, entra nel vocabolario anche per ritrasmettere il sangue etimologico delle parole così emorragicamente manipolate e condotte verso l’estinzione. Estinzione dalla loro matrice originaria.

Mi unisco a Rumiz e a un corteo di altri e altre in accorata cordata che mantiene, nonostante tutto, energica tensione di valori, di chiarezza, di qualità espressiva e comunicativa. Dar voce alla voce dell’inclusione, della nonviolenza, della nonmenzogna, per un’Europa che ricordi la sua nascita, tra Giuseppe Mazzini e Altiero Spinelli, nella disubbidienza all’autoritarismo capitalistico che erge il nemico a bersaglio, esalta il liberalismo del capitalismo e sbrana non solo ecologicamente ma eticamente il pianeta.

Ho una vocazione di attenzione al corpo della scrittura quando attraversa la pagina con l’integrità colta di chi lo scrive. Quando la mano è nuda da qualunque fame e scorre nella sua totalità intima sulla pelle della carta. La mia esperienza nell’aver raccolto da mani vecchissime un diario di guerra l’ho già cantata ne La casa degli scemi. Un passaggio di testimone per una staffetta da vita a vita che si unisce agli altri nella marcia della pace, direbbe Aldo Capitini.

Tra tanti aghi d’oro nel pagliaio estraggo la figura, la testimonianza di Bruno Misefari, noto anche con lo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi, nato a Palizzi, 17 gennaio 1892, morto a Roma, 12 giugno 1936, anarchico, filosofo, poeta e ingegnere italiano. Invito ad approfondire la sua biografia ampiamente tracciata in rete. Sottolineo soltanto il suo arresto, per accusa di complotto per aver fabbricato bombe a scopo rivoluzionario e fomentato una rivolta nella città. Completamente innocente, rimase in carcere per sette mesi, e venne poi espulso dalla Svizzera nel luglio 1919. Grazie ad un regolare passaporto per la Germania, ottenuto per ragioni di studio, si recò a Stoccarda. Lì entrò in contatto con Clara Zetkin che gli rilasciò una lunga intervista sul movimento rivoluzionario in Germania. Nell’ottobre nel 1919 poté rientrare in patria, in seguito all’amnistia promulgata dal governo Nitti. Nel dicembre del 1919 è a Napoli e poi a Reggio Calabria. Da esperto di geologia, progettò per primo in Calabria l’industria del vetro e fondò nel 1926 a Villa S. Giovanni, la prima vetreria in Calabria, Società Vetraria Calabrese. In quegli stessi anni subì persecuzioni continue da parte del regime. Fu cancellato dall’Albo di categoria e non poté più firmare progetti. Molto carcere, confino, non solo per il suo pensiero ma anche per il suo attivismo nel fruttificare le condizioni di lavoro e di salute nel territorio calabrese. Uscito dal carcere nel 1934 amnistiato sì, però a quale prezzo: la salute sconquassata, senza un soldo, senza prospettive per l’avvenire. Così disperatamente riferiva a sua moglie.   Muore il 12 Giugno 1936 per un tumore alla testa dopo che, con molta fatica riuscì a trovare il capitale necessario per l’impianto di uno stabilimento per lo sfruttamento della silice a Davoli in provincia di Catanzaro.

Mi fermo sul pensiero e la sua prassi. La scelta della diserzione come atto antimilitarista.

L’esistenza del militarismo è la dimostrazione migliore del grado di ignoranza, di servile sottomissione, di crudeltà, di barbarie a cui è arrivata la società umana. Quando della gente può fare l’apoteosi del militarismo e della guerra senza che la collera popolare si rovesci su di essa, si può affermare con certezza assoluta che la società è sull’orlo della decadenza e perciò sulla soglia della barbarie, o è una accolita di belve in veste umana.

Contro la religione portata come anestetico per appiattire l’individuo a un’ubbidienza totalizzante.

Convinto assertore delle pari opportunità tra donne e uomini:

Donne, in voi e per voi è la vita del mondo: sorgete, noi siamo uguali!

Significa l’arte rivoluzionaria se svincolata da qualunque staticità conformista e carrieristica.

Un poeta o uno scrittore, che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L’arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria.

È fondamentale non assumere in modo sistematico e semplicistico la parola “rivoluzione”, ma contestualizzarla e interpretarla entrando nel biografico e nell’opera delle persone che hanno portato all’intera comunità umana la sua accezione in modo nonviolento dentro la violenza del mondo, pagando con la propria vita.

Due opere a sua firma, entrambe pubblicate postuma, sotto lo pseudonimo Furio Sbarnemi:

Bruno Misefari, Schiaffi e carezze, Roma, Morara, 1969.

Bruno Misefari, Diario di un disertore, La Nuova Italia, 1973.,

Offro la lettura di alcune pagine pregnanti del Diario di un disertore. Attualissime. Siamo dentro questi fogli per rimettere terra al vuoto rassegnato dell’ineludibilità della guerra, della dicotomia vincere e perdere.

I
La diserzione
Guerra 1914-1918

26 maggio 1915

La guerra è stata dichiarata. L’infamia dunque ha vinto. Era necessario un tuffo nel sangue per lavare le ferite al popolo angariato. Era necessaria un’ubriacatura di odio per stornare dal suo capo le ire accumulate dall’ingiustizia.
Ma non solo l’infamia ha vinto; ha vinto anche la mediocrità. Conosciamo bene e i fatti e gli uomini. Quattro delinquenti in marsina di ministri dovevano scrivere il loro nome, accanto a quello «dell’ultimo re», sulle pagine insanguinate della patria storia; una manata di generali, valorosi solo negli eccidi proletari, e tutta una gerarchia di militari di professione, doveva pur dimostrare che non s’ingrassa ad ufo nel trogolo dell’erario; una schiera d’industriali doveva guadagnar milioni per insifilidire la vita del nostro paese; una massa d’indegni pennaioli doveva pur dimostrare di saper scribacchiare un articolo sulle glorie avite incitante alla santa guerra, per non perdere gli scaracchi dei fondi segreti; perfino gli scaldapanche delle nostre scuole medie e delle nostre università, per guadagnare una miserabile promozione, senza esame, dovevano muoversi ed osannare alla guerra: tutto un gregge di parassiti, di traditori, di questurini, di racimolati in tutti i bassi e alti fondi sociali doveva avere, insomma, il suo quarto d’ora di celebrità. Questa cancrena è anche benedetta: non manca la benedizione del prete! E la guerra è stata dichiarata. Una guerra preparata dal governo, assente l’anima del popolo, a furia di blouses blanches[1], di menzogne giornalistiche e di oratori comprati in tutti i partiti dall’oro massonico; a furia insomma di tutte le miserie umane che abbacinano la vista alle masse e le spingono nel baratro.
E domani, nelle schiere dei figli del popolo, dopo l’odio passerà la morte; nelle case ci sarà il dolore e la miseria.

10 giugno 1915

Non ci sarei dovuto venire. Al decreto di mobilitazione avrei dovuto rispondere con la ribellione di chi non sopporta limitazioni di sorta alla propria libertà. Avrei dovuto scegliere tra il rifiuto e il volontario vagabondaggio sulle vie del mondo.

Sì, non ci sarei dovuto venire. Ma allora perché ci venni? Perché risposi anch’io il mio «presente» all’appello, fatto in nome e per conto di uomini e d’idealità che non mi riguardano? Io non conosco il re e la patria. Essi mi chiamano, mi vogliono, m’impongono di sacrificarmi per loro. Con quale diritto? Che cosa mi han dato?

Fin dalla nascita, non conobbi che patimenti e sofferenze. Perché questo re e questa patria, che ora vogliono il sacrificio della mia giovinezza feconda, non si sono fatti avanti per alleviare anche una volta sola i miei patimenti e le mie sofferenze? Mi dicono: il re è il capo dello stato, la patria è «la terra natia co’ suoi mari e co’ suoi colli, col fulgido, non morituro sogno dei poeti, sfolgorante nel libro, nel bronzo e sulle tele». E come tali, soggiungono, essi sono sacri e devono essere difesi.

Io detesto lo stato: esso mi affanna, mi opprime. Lo stato è la costituzione capitalistica di cui conosco le brutture senza nome. Il suo capo – abbia il nome di re o d’imperatore o di presidente della repubblica – non può perciò essermi sacro, non può esser da me difeso.

Perché dunque io lo debbo servire; perché debbo morire o diventare assassino per lui?

«La patria è la terra natia» … E questa terra, co’ suoi mari e co’ suoi colli non ha trovato un cantuccio per me, un solo cantuccio! Essa non è mia, è di altri: dei parassiti sociali.

Non pane, non libro, non lavoro; ma mitraglia, miseria, manette: ecco il retaggio che mi ha lasciato, ecco la ricchezza di cui mi ha dotato la patria. Il fulgido e non morituro sogno dei poeti, sfolgorante nelle pagine del libro, nel bronzo e sulle tele, non è della patria: è dell’umanità. La patria è un trucco, un imbroglio, una menzogna.

Quanto di grande, di vero, d’immortale vive nel mondo, è dell’umanità. Se una cosa dev’essere sacra e dev’essere difesa, questa è l’umanità, mai la patria.

18 giugno 1915

È possibile mai che io sia soldato? È possibile che io sia diventato parte del mostruoso organismo militaresco? Qual è la funzione del soldato? Uccidere. Uccidere in tempo di pace i compatrioti che, oppressi dallo sfruttamento e dalla tirannide, chiedono pane e libertà. Uccidere in tempo di guerra i cosiddetti stranieri, che, come quelli, sono oppressi ed affamati, ma considerati nemici perché hanno la grave colpa di abitare al di là della frontiera. Uccidere è delitto: ecco cosa s’insegnava fino a ieri nella scuola, nella chiesa, nella famiglia.
Chi non ama tutti gli uomini, si diceva, è un delinquente. A tal scopo si è fondato un codice penale che è spietato con gli omicidi, si sono costituite le carceri e innalzati i patiboli. Dovunque era una gara per addolcire l’animo e aprirlo all’amore universale. Ora invece mi s’insegna, con la teoria e con l’esercizio, che appena un altro uomo che chiamano «superiore» ordinerà di uccidere, io debbo uccidere senza pietà e senza ragione.
Quando hanno mentito? Ieri o oggi? Oppure ieri e oggi? Non so bene. So questo semplicemente: che ieri ero un uomo e oggi sono vestito da assassino per divenire presto o tardi assassino. Più obbrobrioso dell’assassino, anzi, poiché questi uccide o per fame o per passione o per malattia, mentre io dovrò uccidere per automatismo o per paura di essere punito o per piacere d’esser premiato. Nel primo caso sarò una cosa inerte che può manovrarsi a volontà, una macchina a delinquere nelle mani dei tiranni; nel secondo caso sarò un vigliacco; nel terzo caso un criminale nato; in qualunque dei tre casi sarò sempre degno del disprezzo di tutti. Perché dunque debbo fare il soldato? Non è forse il soldato la stessa esteriorità della guerra? E colui che nega la guerra e ne aborre lo spirito e le conseguenze, non deve necessariamente porsi anche contro questa esteriorità? Egli deve essere l’opposto del soldato: dev’essere il disertore. Dev’essere l’Uomo, l’Uomo che dice: «Meglio essere ucciso che uccidere. Meglio disobbedire alla patria e obbedire all’Umanità. Meglio disobbedire alla schiavitù e alla guerra e obbedire alla libertà e alla pace. Meglio essere sacrilego e in difesa della vita che religioso e in difesa della morte».
Perché mai ho dunque indossata la indegna divisa del servo e dell’assassino?

31 agosto 1918

Sì, sono un traditore della patria.
Ho tradito le leggi statali, ho tradito gli interessi dell’Alta Banca Internazionale, trafficante sulla guerra per l’aumento dei suoi dividendi fantastici. Ho tradito le leggi di odio, di morte, di corruzione, di vergogna: leggi antisociali, antiumane, antinaturali. Le ho tradite per non tradire la grande e fondamentale legge dell’amore universale, la solidarietà, umana, che è l’unica legge comprensibile, perché umana, sociale e naturale.
Mi sono sottratto alla morte di stato per dare la morte allo stato. È una lotta ardua poiché sono solo e debole, e lo stato ha tutto con sé ed è forte. Sono un traditore ma non un vile. Chi è vile non insorge contro lo stato.
Guai per la vita della specie se gli individui disobbediscono alle leggi sociali e umane della natura per obbedire a quelle dei poteri che congiurano, insidiano, uccidono la vita della specie.
Senza questa umanissima rivolta alle leggi di odio e di morte, la specie perirebbe fatalmente.
Quando la giustizia non sarà come oggi la druda infame delle tirannidi, quando l’amore non sarà deriso, quando l’oro non sarà Dio, quando la libertà sarà religione e unica nobiltà il lavoro, solo allora il mio rifiuto alla guerra sarà benedetto perché ho lottato per la salvezza di tutti, per la conservazione della vita organica e morale della specie.
Imbecilli della mia epoca, chinate la fronte. E voi giovani di anni e di fede inalberate il vessillo della rivolta, rivendicate il diritto alla vita che è pane, amore e libertà! Distruggete tutte le forze antinaturali, antisociali, antiumane.
È questione di vita o di morte. O vivono loro o vivete voi. Non esistono accomodamenti. Tra voi e loro esiste un abisso. Chi vuol mettervi un ponte vi precipita dentro. Viva l’umanità e muoia la patria, cioè muoiano il capitale e lo stato!

1° novembre 1918, sera

Ho chiamato di nuovo Erwin.
Furio: – Erwin, pronto. Mi senti, Erwin? Da voi che c’è di nuovo?
Erwin: – Buona sera, Furio. Il soldato non è ancora ritornato. Forse non ritornerà più.
Furio: – Anche da noi, nulla di nuovo. Erwin, mi senti? Sei sposato? Quanti anni hai? Hai dei figli?
Erwin: – Sì, sono sposato. Avevo quattro figli; due sono morti in guerra l’anno scorso. Sono vecchio.
Furio: – Povero Erwin! Mi senti? Sentimi bene. Appena ritornerò in Calabria con la mia futura moglie – una cara ragazza –, t’inviterò a passare un po’ di tempo nel mio bel paese; verrai da me con tutta la tua famiglia. D’accordo? Accetti?
Erwin: – Magnifico! D’accordo! Accetto!
Furio: – Erwin! Ora sentimi bene: domani sera alla stessa ora ti richiamerò. Sentimi bene. Salirò, andrò fuori dalla trincea. Mi senti? Altrettanto farai tu. C’incontreremo a metà cammino. Voglio stringerti forte la mano!
Erwin: – Molto bene, Furio. D’accordo. Accetto. Magnifico. Buona notte, Furio.
Furio: – Buona notte, Erwin, dormi bene

Lettera di Mado

Caro Bruno,

aprirai questo plico con immensa curiosità, curiosità ben giustificata. La tua meraviglia sarà diretta, oltre che al nome del mittente, al contenuto di esso.

È il diario di Furio.

Te lo affido con la coscienza sapendo che tu, con altrettanta coscienza, capacità e tenacia, un giorno lo pubblicherai. Solo tu possiedi la sua medesima sensibilità, lo apprezzerai e ne farai un tesoro.

Furio è morto al fronte fucilato alla schiena da un ufficiale italiano, mentre abbracciava un soldato austriaco. Entrambi uccisi. Morì il giorno dei morti, il 2 novembre 1918, alle ore sette di sera.

Io ho ucciso. Ho ucciso il tenente, che a sua volta aveva ucciso Furio.

Tenevo nascosta una pistola, l’avevo prelevata dalla tasca di un giubbotto di un ufficiale austriaco, morto ai miei piedi.

Con essa ho sparato, ho ucciso anch’io.

Bruno, penso e so che solo tu puoi comprendere e giustificare la mia azione, eseguita in quel momento particolare.

Non potevo farne a meno.

Comprenderai anche il gran gesto di Furio.

I pochi soldati rimasti in trincea hanno assistito all’ucci-sione del tenente, sono stati fermi, zitti. Anche dopo l’armistizio non mi hanno denunciato.

Oltre al diario – composto, come vedrai, da tutte quelle carte, fogli, fogliettini, prelevati da me con tanta cura da sotto la sua panciera (come se lo teneva riguardato il suo scritto, era tutta la sua vita!) – ho trovato su di lui i due preziosi volantini contro la guerra di Tripoli del 1911. Sono logorati, disgregati, come vedi. Hanno raccolto tutto il fervente calore umano che si sprigionava dal suo corpo e dal suo intelletto. Era tutto ciò ch’egli volesse possedere.

Ti ricordi? Fu allora che iniziarono per lui le sue prime battaglie antimilitariste ed egli fu allora, per la prima volta in carcere, da studente a 19 anni, a Reggio Calabria.

Quei due pezzettini di carta sbiaditi dal tempo erano il suo «talismano». Potrai pubblicarli? O addirittura farne una copia e includerli nel diario?

Avrai un enorme lavoro, caro Bruno. Dovrai avere una pazienza da certosino per mettere insieme questa enormità di appunti, questi scritti talvolta illeggibili. Riuscirai a ricavarne un volumetto? Dovrai però prima imparare un nuovo mestiere, dovrai diventare mosaicista.

Ho tanta fiducia in te, ci riuscirai.

Ti piace il titolo? Diario di un disertore (Nella morsa). A me piace molto.

Puoi assicurare i genitori di Furio che il loro figlio l’ho seppellito io, con l’aiuto di tutti i soldati della trincea, in presenza di tutti i soldati austriaci.

L’abbiamo sotterrato in un luogo suggestivo, sembra una cripta, una grotta naturale, un posto degno di questo nostro amico, apostolo dell’amore.

Abbiamo sepolto là anche il tenente, accanto a Furio.

Nella medesima grotta abbiamo assistito anche noi italiani alla sepoltura del povero Erwin. Tre uomini. Tre fratelli. Verrò presto a trovarti a Reggio.

Verresti con me questa primavera a vedere la grotta?

Ti abbraccio forte.


[1] Le blouses blanches erano le bande assoldate dalla polizia parigina, sotto l’impero di Napoleone il piccolo, per mantenere, a forza di gridi e di canti, un’agitazione guerresca nelle vie e negli animi. Famose, perché avevano spaventato l’intera Parigi. Da noi furono dette «camicie nere».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *