È stato un film orientale, ‘l’Arpa birmana’, a mostrarci il volto di quel giovane che nel dopoguerra, quando i giapponesi pregustano la gioia profonda del tornare a casa, del riprendere le semplici abitudini della vita nella pace delle vie e delle case, rimane invece nell’Indocina per seppellire i cadaveri dei morti in battaglia, e si fa monaco, col voto di restare lì, nell’infinita tristezza e tra la polvere dei campi di battaglia sconvolti, finché non abbia finito la sua opera religiosa.”

È Capitini a toccarci estraendo il cuore dell’opera magistrale di Kon Ichikawa. Ci raggiunge per insegnarci a rovesciare le dinamiche necrofile della violenza attraverso un processo rivoluzionario consapevole, permanente, psicologico, politico, spirituale, culturale cioè poetico. Poetico nel senso radicale del termine, in quella radice sprofondata oltre ogni dimensione letteraria, in cui il canto è azione e connessione creaturale. Il processo agisce verso un’umanizzazione consapevole incardinata sui concetti di relatività e complementarità. Due parole che includono in estensione tematiche fondamentali come l’ecologia, per esempio.

“Quando era cappellano dei partigiani francesi, padre Gauthier fu preso e messo al muro. Un ufficiale delle SS teneva la pistola puntata contro di lui. Padre Gauthier aveva ventotto anni. Guardò dritto l’ufficiale, come fa sempre, con l’ombra di un sorriso, e gli disse. ‘Tu non mi conosci, ma io conosco te: tu sei un uomo.’ L’ufficiale si guardò in giro e gli disse: ‘Vattene, corri’”.

Ci sono infinite forme induttive che inconsapevolmente assumiamo nel nostro quotidiano, in grado di erodere la nostra umanità. Quando andiamo negli uffici, negli ospedali, per strade mentre guidiamo, in ogni luogo pubblico dove incrociamo persone, spesso ci porgiamo con ostilità, non tolleranza, non accoglienza, non cordialità, chiusi come siamo nel nostro involucro privato. Non aperti all’aperto, come direbbe Capitini. Non rivolti e ricettivi verso il tu. Viviamo cioè in stati interiori tensivi che sono propri di una società non cooperativa, ma competitiva, consumistica, vocata al possesso, all’attaccamento, alla dominanza, alle strategie della conquista, dell’opportunismo, della menzogna, della seduzione, della esaltazione della leadership. Ingredienti questi propri di una guerra civile quotidiana.  Il resto lo conosciamo anche se la ferocia dei dati sembra non ci contamini:      

nel mondo sono attivi 56 conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale. È la cifra che emerge dall’edizione 2024 del “Global peace index”, pubblicato a giugno dall’”Institute for Economics & Peace”. Oltre 473 milioni di bambini, ovvero più di 1 su 6 a livello globale, vivono in aree colpite da conflitto, secondo i dati del 2023 dell’ “Unicef”.  

Nelle persone prevale il concetto di inevitabilità, di rivendicazione, di risposta violenta all’aggressività ricevuta. Fa bene Goffredo Fofi a scrivere che “oggi possiamo lamentare l’opportunismo e la povertà del pensiero nonviolento venuto dopo Capitini. E abbiamo scoperto e amato anche altri maestri, per esempio Günther Anders, partito dalla battaglia contro l’atomica come perno della sua azione perché cosciente della radicale trasformazione che l’atomica aveva portato nel mondo, dell’atomica come fine della storia e possibile ‘fine del mondo’.  Non era nonviolento, Anders, e diceva che bisognava assolutamente fermare le mani che avrebbero potuto dar l’ordine di lanciarla, davvero un ‘punto di non ritorno’, e denunciò l’incapacità dei movimenti nonviolenti di reagire efficacemente all’esistenza stessa dell’atomica e alla costante, ossessiva aggressione verso la natura.”

Personalmente Aldo Capitini fa parte del mio corpo pensante e agente, con lui altre forze di pensiero e di testimonianza. Pensiero e prassi un unico governo. “Dice Gandhi: ‘Si dice che i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io vorrei dire che i mezzi in fin dei conti sono tutti. Quali i mezzi, tale il fine, Il Creatore infatti ci ha dato autorità (e anche questa molto limitata) sui mezzi, non sul fine… La vostra convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fine, è un grande errore… Il vostro ragionamento equivale a dire che si può ottenere una rosa piantando un’erba nociva.”

Sempre, soprattutto in questi giorni di incandescenti frizioni nazionali e internazionali, in cui personalità politiche si manifestano con arroganza, ignoranza, superficialità, grassa e volgare autoreferenzialità, disposizione distruttiva, confermo l’opera di Aldo Capitini come energia di resistenza attiva attualissima in cui vengono suscitati riferimenti essenziali. Cito solo alcuni nomi: Michelstaedter, Tolstoj, Gandhi, Dolci, Gregg, Calogero, fino a Antigone.

L’uscita della riedizione per Manni di Aldo Capitini, “Le tecniche della nonviolenza”, con introduzione di Goffredo Fofi e postfazione di Giuseppe Moscati, è un’occasione di lettura di una prospettiva rovesciata dentro cui la via della coniugazione rammenda la separazione con fili assertivi precisi.

Il testo si apre con la messa a fuoco del significato della nonviolenza, proponendo una sintesi del metodo nonviolento e del potere dal basso, analizzando poi tecniche individuali e collettive per praticarlo: la persuasione, il dialogo, l’esempio, il digiuno, l’autoincendio religioso (in riferimento ai buddisti del Vietnam), la noncollaborazione, l’obbiezione di coscienza e gli impegni civili, il servizio civile, le marce, lo sciopero (molto messo in discussione dall’attuale governo) il boicottaggio e il sabotaggio, la comunicazione delle iniziative, la disobbedienza civile.

Riporto due passi fondamentali dell’opera. Il primo mette in luce il rapporto tra credente (praticante o non) a prescindere dalla fede religiosa. La necessità di una cultura laica che rispetti ogni credo è imprescindibile per Capitini. Così come imprescindibile è rilevare la contraddittorietà di una disposizione spirituale al sacro e, allo stesso tempo, legittimare la guerra.

“Nel 1221, vivente ancora San Francesco nella Piazza dell’Arengo di Rimini i terziari francescani (che erano, dunque, laici) risposero all’invito del podestà di prestare il giuramento di fedeltà, che implicava l’impegno di impugnare le armi al comando degli organi di Stato, in questo senso: ‘Noi non possiamo combattere né portare le armi, sia di offesa che di difesa, perché noi vogliamo la pace con gli uomini e con Dio, conquistando con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in un bene’”.

E ancora sulla guerra, Capitini riporta luminosamente questa testimonianza:

“Pietro Pinna, prima del processo di Torino nel 1949, il primo che egli affrontò, aveva redatto e consegnato un memoriale, che tra l’altro diceva:

‘Dopo obbrobri e disastri senza nome, cogliamo i frutti della guerra nell’orgoglio e nell’insolenza dei vincitori, nell’odio e nella brama di rivincita da parte dei vinti, focolai vivi di sempre più acerbe lotte future… Colui che ha sofferto la violenza non starà più a pesare il torto o la ragione, ma coverà soltanto il proposito di rispondere all’offesa con altrettanta violenza. Se vogliamo liberare il male che c’è in quell’uomo, debbo io mostrargli come sia possibile farlo, attuando io per primo quel meglio in me stesso… Mi si dice che il dovere di ogni cittadino è innanzi tutto quello di servire la patria. Ma io non mi sogno neppure lontanamente di rifiutarmi a questo. Chiedo soltanto che la patria realizzi un servizio in cui i suoi figli non siano costretti a tradire i principi della loro coscienza di uomini.’”

  1. Avatar lorena rosi bonci
    lorena rosi bonci

    Grazie Anna, bellissimo testo; abbiamo molto bisogno di leggere e rileggere Capitini,di seguire il suo esempio, in questi tempi di violenza, arroganza e prepotenza da parte dei potenti del mondo sui più deboli e impotenti.

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