Faccio una brevissima premessa: dato che l’argomento che tratterò è di stretta ed urgente attualità, avverto i lettori dei toni accesi e furenti tipici di quello che schiettamente questo articolo rappresenta, un pamphlet o instant item, che dir si voglia.
Il tema che ha fatto scaturire questa invettiva riguarda da vicinissimo l’indirizzo concettuale alla base del lavoro quotidiano di migliaia di docenti italiani, nella cui schiera mi trovo anch’io, ovvero la riforma che sta per essere varata dall’attuale ministro Valditara, appartenente ad un movimento politico, la Lega, spesso dimostratosi ancor più retrivo delle altre compagini che compongono il governo conservatore in carica. Tra le diverse misure che sono state anticipate e che saranno le nuove Indicazioni Nazionali per il primo ciclo di istruzione, tutte quante improntate, a detta del ministro, all’obiettivo di coniugare tradizione ed innovazione, ne spicca una che ha subito attratto la mia e l’attenzione di tutti coloro che ogni giorno, a scuola, tentano di imbastire la costruzione di una consapevolezza storica e geografica sufficiente per poter leggere, o quanto meno tentare di avere qualche punto fermo, a ragazze e ragazzi che questo si aspettano ed esigono da noi docenti.
L’intenzione dichiarata sarebbe lo smembramento della materia di geostoria, attualmente insegnata nel biennio della scuola superiore, a fronte di un potenziamento orario che permetta l’insegnamento separato di geografia e storia, ma questo rappresenta una mossa che nasconde insidie capaci di causare un peggioramento dell’offerta formativa. Ciò che mette una certa apprensione è l’intento dichiarato di restituire centralità alla narrazione della storia d’Italia e dell’Occidente, modificando quelle che sono le linee didattiche ora adottate, allineate su un binario affatto opposto, ovvero quello della contestualizzazione in uno scenario globale delle vicende storiche europee, e quindi italiane, associando questo percorso di approfondimento con l’apprendimento della geografia non solo come localizzazione ma soprattutto come tessuto di relazioni, territoriali, sociali, antropologiche ed economiche.
Le parole di Valditara, probabilmente pronunciate con leggerezza dettata dall’ideologia e con scarso approfondimento delle conseguenze sulle cognizioni e le competenze dei nostri studenti, mettono in evidenza anche una prospettiva appiattita su una sfera limitata del sapere che dovrebbe essere circoscritta, almeno nei dati più precisi, ai sacri confini nazionali. Questo però stride fortemente con tutta la tradizione che è peculiare della nostra storia culturale: solo per dare un esempio che sia specimen lapalissiano, torniamo semplicemente a considerare i fondamenti di quello che spesso vantiamo come il gioiello del nostro patrimonio, il Rinascimento, il quale traeva linfa dall’assunto che base della supremazia culturale è la conoscenza universale, che permettesse di scavalcare pregiudizi e graduatorie, riconoscendo nel dialogo e nello scambio il seme più fecondo del progresso umano (aggiungerei, quello autentico, sostenuto in seguito dalla modernità e contemporaneità, a partire dagli enciclopedici francesi e da poeti illuminati come il sempre caro Leopardi, che ci verrà imposto di mandare a memoria verso per verso).
Si fa palese, quindi, il rischio che le prossime generazioni stanno correndo: possedere una discreta preparazione sui fiumi, monti e capoluoghi italiani ma non poterla spendere altrove se non probabilmente in terra natia, magari grazie ad una viziosa focalizzazione della formazione professionale dei futuri italiani come ottime guide turistiche locali che, però, si vedranno precluse carriere con orizzonti internazionali.
Personalmente, spero invece che i miei allievi possano sperimentare, ad esempio, quanto accaduto di recente alla ricercatrice Valentina Fusari, dell’Università di Torino, che è stata premiata con una cospicua borsa di studio a livello europeo per continuare le sue significative ricerche su dinamiche e rotte di migrazione, nella seconda metà del Novecento, degli italo-eritrei tra Corno d’Africa ed area araba, aprendo uno squarcio su elementi incogniti di una storia che è anche nostra oltre che mondiale. Mi auguro che sia questo il modello virtuoso che i ministri futuri terranno in debita considerazione, divenendo di buon auspicio per quanti avranno un progetto meno provinciale e si costruiranno l’opportunità di dare un contributo di rilievo allo sviluppo di una coscienza sempre più globalmente umana.
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