Il processo Aemilia, il maxiprocesso contro la ‘Ndrangheta in Emilia, non è solamente un atto di contrasto contro una pericolosa manifestazione criminale mafiosa, ma presenta alcune appendici inedite che saranno oggetto della nostra attenzione. Sulla Gazzetta di Reggio del marzo 2019 compare un articolo che descrive come un cantante siciliano con il brano Pe’ Guagliune e’ l’Aemilia celebri gli ‘ndranghetisti coinvolti nel processo. In realtà non è solo celebrazione, poiché vengono messi in luce la sofferenza di queste persone per una detenzione causata da un paio di stronzate raccontate da un pentito e, pertanto, ingiusta. Nel 2011, il quotidiano La Repubblica pubblica un articolo in cui un cantante neomelodico viene dannato da Cosa Nostra per essersi rifiutato di omaggiare i carcerati durante un concerto: poco dopo il cantante si scuserà dell’omissione, dicendo di non aver mai detto di no alla mafia. Marcello Ravveduto, Professore di Digital Public History alle Università di Salerno, Modena e Reggio Emilia, rinomato studioso dei fenomeni mafiosi, identifica l’origine delle tematiche legate al pentitismo nelle musiche di malavita, con il terremoto causato dalla collaborazione di Tommaso Buscetta. Il pentito, parola nata nell’alveo giornalistico, in termine tecnico identifica il collaboratore di giustizia: un mafioso decide di collaborare con gli inquirenti, offrendo la propria conoscenza su fatti e persone rilevanti ai fini processuali. Il Testimone di giustizia, invece, è ogni persona che nulla ha a che fare con il mondo mafioso e criminale, ma che è a conoscenza di fatti specifici utili alle indagini su fatti criminosi. Gli interpreti sono cantanti siciliani, campani, calabresi che presentano il punto di vista del reo, uomo d’onore, tradito dagli infami collaboratori, che hanno disobbedito alla regola principale di ogni gruppo mafioso, l’omertà (vd. nota 1). Teniamo presente che le organizzazioni mafiose per sopravvivere hanno bisogno di un contesto (ambiente esterno) da poter sfruttare e di una struttura interna dotata di segretezza assoluta, in cui il silenzio è virtù primaria (vd. nota 2). I testi musicali parlano di uno Stato che compra i pentiti contro le famiglie: il tradimento viene raccontato nella canzone Vite Perdute di Gianni Celeste: il pentito denuncia il fratello Capoclan per evitare la galera. Il medium è un videoclip musicale che si presta alla visione di un vasto pubblico di sostenitori o di giovani non legati necessariamente al mondo criminale, in cui il pentito tradisce il fratello: un infame assoluto poiché non solamente trasgredisce la regola base, ovvero la regola del silenzio, ma anche il fratello e la famiglia. La famiglia di sangue è la famiglia mafiosa. Il reclutamento è fondamentale per la sopravvivenza di una qualsiasi organizzazione mafiosa per ovvie necessità del turnover degli affiliati. Si invecchia, si muore per malattia o poiché ammazzati. Si entra in una cosca mafiosa dopo un lungo periodo di osservazione, preferibilmente se già nati in un contesto similare, onde avere maggiore garanzia di affidabilità del soggetto. Il giorno della affiliazione il candidato viene portato in un luogo simbolico legato alla mitologia mafiosa, ad esempio il mito dei Beati Paoli per Cosa Nostra e quello di Osso, Mastrosso, Carcagnosso per la ‘Ndrangheta. Alla presenza dei membri della cosca, il Capofamiglia punge il dito del candidato e la goccia di sangue deve sporcare il santino sul cui giurerà quanto segue: “Giuro d’essere fedele a Cosa Nostra. Possa bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”. Segue l’elencazione delle regole che prevedono omertà, non rubare donna di un affilato, non uccidere se non necessario, non avere relazioni con uomini delle forze dell’ordine, essere sempre disponibili a Cosa Nostra anche se la moglie sta per partorire. Questo battesimo traghetta il soggetto da una società a un’altra, dalla quale potrà uscire solamente con la morte. Si capisce bene come il pentito sia visto come l’essere peggiore e spregevole, sul quale si può infierire materialmente e moralmente, diffondendo, con tali canzoni, una contronarrazione, una controcultura e un sistema valoriale opposto a quello del senso comune. Nel brano sopra menzionato si legge, infatti: “Mamma mia/cerca di perdonarlo/io non posso farlo/la legge è questa qua. Mamma mia bella/è solo il figlio tuo/non è più mio fratello/è contro di me” (vd. nota 1). Il pentito gode della protezione dello Stato, allorquando riconosciuto come tale, a norma della legge n. 82 del 15/03/1991 e successiva modifica con la L. n. 45 del 13/02/2001. Il testo della canzone prosegue con le motivazioni della scelta del pentimento/tradimento, ovvero evitare di bruciare, volere una nuova identità e una nuova vita, poiché la legge sui collaboratori di giustizia questo offre loro, come contropartita della loro collaborazione. Tale pentito è stigmatizzato come infame, poiché ha tradito per un poco di libertà il suo sangue, la famiglia e il vero criminale è lo Stato, che incita alla rovina delle famiglie, spezza quei sacri legami che solo la morte può dividere. Il Boss viene arrestato e il video mostra il disprezzo di costui che sputa per terra. Due sistemi valoriali differenti, contrapposti in cui lo Stato è vigliacco, non mostra mai la faccia ma solamente i suoi gregari. Pentiti opposti a “Uomini Veri”. Leonardo Sciascia fu il primo che, oltre a definire la mafia come una associazione criminale, classificò l’umanità secondo il modo di pensare mafioso. Nel Giorno della civetta (nota 3), infatti, il Padrino Mariano, in segno di rispetto verso il Capitano Bellodi, divide l’Umanità in cinque categorie: “pochissimi uomini, mezz’uomini, pochi uomini, piglianculo e quaquaraquà”. Nella Videoclip del 2004 ‘O capoclan si celebra il valore della assoluta fedeltà al Boss e ai valori della Camorra, ovvero si esaltano gli uomini veri, timorati di Dio, fedeli alla famiglia, pronti a punire con la morte chi sgarra. La comunicazione avviene spesso tramite pizzino, pezzetto di carta con il nome dell’infame da eliminare. Il potere del Boss discende dall’essere buon padre di famiglia e dal voler di Dio, in una sorta di doppia investitura: una Terrena e una Divina. Interessante notare che le riprese di questo video sono state effettuate nel territorio controllato dalla cosca. Tale forma espressiva consente al Clan di mantenere un controllo morale sugli affiliati e sugli abitanti del territorio. Il cantante di questa hit è un indagato per istigazione a delinquere che è stato rilasciato poiché è stata riconosciuta una libera espressione del pensiero. Infatti, la libera manifestazione del pensiero e della espressione artistica sono rigorosamente tutelate all’art. 19 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (1948), nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (1950/1955) e all’art. 21 della Costituzione Italiana. Un caso singolare, ma indicativo della diffusione e qualità del fenomeno, è dato dalla produzione musicale di Teresa Merante, cantante folk calabrese di brani musicali dedicati alla mafia. Nel brano “U latitanti” editato su YouTube, con quasi 4 milioni di visualizzazioni, si celebrano le gesta di un latitante, si inveisce contro la Polizia, definita come brutta compagnia, quattro pezzenti esi richiama al dolore famigliare dovuto alla partenza di costui verso la latitanza. Un latitante è come una foglia al vento, non può urlare per invocare la propria innocenza, vive nella paura. Uno spostamento semantico non da poco: il latitante vittima innocente. Questo brano è stato oggetto di attenzione da parte del segretario della Commissione Antimafia e di una parlamentare sensibile alla lotta alla Ndrangheta. La produzione musicale di questa autrice di canzoni di mafia presenta titoli inquietanti, quali L’omu d’onori, Il capo dei capi, brani in cui emergono la simpatia, l’ossequioso rispetto e la non velata accondiscendenza verso la malavita. Le canzoni del carcere e della mafia parlano vari dialetti. Nella canzone napoletana è avvenuta una mutazione stilistica, tecnologica e comunicativa profonda nel passaggio dalla classica canzone napoletana (Roberto Murolo, Angela Luce, Mario Merola, Nino d’Angelo), a quella neomelodica (vd. nota 1). “Il napoletano è la lingua convenzionale che permette di raggiungere le fasce marginali giovanili e gli ambienti facilmente suggestionabili dalle tematiche dell’amore, dell’onore, del tradimento, della vendetta, della malavita” (vd. nota 4). Il cambiamento avviene parallelamente al cambiamento urbanistico che divide il centro, città legittima, civile, popolata dalle Istituzioni e la periferia, luogo della criminalità, della emarginazione, della droga, della prostituzione, della violenza e della guerra tra clan. Nello spazio della paura della periferia, i cantanti dialettali sono la voce narrante di quel senso tragico esistenziale che, caricatosi di modernità, finisce per giustificare l’emarginazione di questa città illegittima. La separazione fisica crea zone franche di criminalità dominate da clan che controllano il territorio, amministrano la giustizia con violenza, danno lavoro e soldi alla gente. Cambiano i tempi e le nuove generazioni nascono in un contesto ove gli eroi sono i killer, i boss, i latitanti che rischiano la vita, garantendo un reddito a migliaia di persone (nota 1). Questo lo si legge nei testi di due canzoni/clip. La prima ‘A miseria e Napule è dei primi anni ’80 ed è, in estrema sintesi, la storia di uno scugnizzo che chiede al giudice di non punire il reo minorenne cresciuto per strada, ma di dargli la possibilità di studiare, poiché la scuola è vista, comunque, come possibilità di riscatto e di emancipazione. La seconda, ‘A Società, di Gino Ferrante, dei primi anni 2000, parla di un giovane che non vuole andare a scuola, pur avendone possibilità, perché la scuola non gli dà niente, rispetto alle possibilità della vita criminale: nel video ora il giovane è divenuto Boss, potente e ricco, rispetto a uno Stato che nulla poteva dargli. Nella ‘A Società dei camorristi questa si è sostituita allo Stato: qui sono tutti fratelli e nessuno tradisce perché la legge della strada non perdona. Altre canzoni raccontano positivamente alcuni personaggi criminali quali Nu latitante, ‘O Killer, L’amico Camorrista. Queste celebrano il latitante, il killer e il narcotrafficante, agendo sull’immaginario collettivo come una realtà nuova e differente rispetto alle vulgata dei media istituzionali, ben poco attrattivi. Le Clip dei neomelodici sono recitate da persone ben vestite, ricche, donnaioli che esibiscono forza, potere, e dominio. Un fascino del male sublimato a ritmo di musica. Il testo parlato ritmicamente ripete incessantemente che chi vive nella strada rispetta le regole dell’omertà, dell’onore e della dignità che il pentito spezza: l’infame prima o poi la pagherà cara. Questi sono i Rapper Napoletani, protagonisti della scena musicale che fondono la drammaturgia neomelodica alla rabbia violenta del Rap, dando vita a un genere misto nuovo: il Trap napoletano, che ha in sé qualcosa dell’Hip Hop con in più l’uso massivo dell’Autotune, un software creato per manipolare l’audio: corregge l’intonazione, crea effetti sonori, migliora la resa vocale. La caratteristica delle musiche giovanili è l’essere assordanti per farsi sentire e suscitare una sorta di estasi rumorosa, affinché il messaggio superi la normale soglia alla quale si era precedentemente abituati: aumento del volume, ripetitività, distorsione sonore per creare eccitazione e seduzione (nota 9). Questi Trapper hanno un impressionante seguito tra i loro coetanei. Il più famoso di loro, Luca d’ Orso noto con lo pseudonimo di Capo Plaza, ha avuto il successo con una clip in cui esalta le abilità criminali di una gang di spacciatori, abili come i più grandi campioni del calcio. Nel 1994 i 99 Posse e i Bisca, gruppi napoletani alternativi, presentano in tournée il loro Sotto attacco dell’idiozia, nel cui testo si legge: “Eravamo sull’autostrada già da tre ore col maresciallo/che pensavamo: ‘che palle oggi, neanche un negro per malmenarlo’/Quando mi venne l’ispirazione tutto d’un tratto con la coda dell’occhio/Dentro una panda tutta scassata/un capellone drogato finocchio/già gli avevo tirato un fendente/quando mi disse: ’non ho fatto niente’/gli ruppi la macchina, tre dita e un dente/Minchia Signor Tenente’” (vd. nota 5). Oltre alla palese apologia della violenza razzista contro persone indifese e contro le Forze dell’Ordine, viste come espressione dell’ordine repressivo borghese, emerge il sarcastico richiamo alla canzone Signor Tenente presentata al Festival di Sanremo da Giorgio Faletti, comico e scrittore, in cui un Carabiniere pensa a “quei ragazzi morti ammazzati/gettati in aria come uno straccio (…) fatti a pezzi con l’esplosivo”, con un chiaro riferimento agli attentati del 1992, in cui i Magistrati Falcone e Borsellino vennero massacrati con gli uomini della loro scorta. Nello stesso Album troviamo la canzone Odio, in cui si legge un riferimento alle stragi suddette del 1992, alla Strage di Piazza Fontana e allo Stato delle stragi e delle trame: i due giudici ammazzati galleggiano metaforicamente sulle “acque torbide del potere marcio (…) di uno Stato sciacallo, fascista, repressore, impunito, connivente”. I due Giudici, in questo racconto videomusicale non sono avvertiti come Stato, ma rappresentano, in qualche modo, il meglio delle istanze del popolo, proprio perché non collusi e corrotti (vd. nota 5). Abbiamo parlato di cantanti neomelodici. Interessante notare come tale definizione indichi un genere musicale, una categoria sociale liminale, poiché fiancheggiatrice dei criminali o comunque celebrativa della criminalità, che alimenta una economia discografica imponente. Vale la pena domandarsi quale differenza possa esistere tra un Otello Profazio, famoso cantante Folk calabrese, recentemente scomparso, che nel suo repertorio ha proposto anche i canti del carcere e della malavita, e questi cantanti alternativi. I canti di malavita sono stati oggetto di una serie di studi sul campo svolti da etnomusicologi negli anni ’70, basati sulla raccolta musicale orale non censita, con occhio antropologico e sociologico, trovando i più svariati argomenti raccolti dalla gente spesso semianalfabeta e in condizioni di estrema povertà. I temi riguardavano, amore, morte, magia, ritualità e feste religiose, corteggiamento e storie di carcere e malavita, prive di ogni forma di supporto o esaltazione della criminalità. L’utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione, Internet, social media (FB, Tik Tok, Tinder, Skype, Whatsapp, YouTube, Instagram) non è unicamente un supporto alla diffusione della musica neomelodica o più genericamente, della musica popolare della malavita ma anche un supporto alle attività criminali stesse. Il Deep WEB, più propriamente Darknet15, è la rete della criminalità, che utilizza le Criptovalute per mascherare i trasferimenti cospicui di danaro che derivano dalle attività illegali e di effettuare comunicazioni rapide e mirate, nello spaccio di stupefacenti, riducendo, con un semplice SMS associato alla criptografia, i rischi di retate da parte della polizia. Il web viene utilizzato per diffondere messaggi di propaganda, dando una immagine di sé rovesciata rispetto a quel tipico stereotipo di individui retrogradi e sottosviluppati. Un fenomeno di respiro internazionale. I Narcos messicani hanno utilizzato i social per diffondere il proprio patrimonio valoriale anni prima delle mafie italiane. I Narcocorridos sono i cantanti o i gruppi di questo genere musicale che celebrano le gesta dei narcotrafficanti, esaltandone coraggio, la violenza e la vita. Recentemente, il 5 gennaio 2023 viene arrestato a Culiacàn, capitale dello Stato di Sinaloa (Il Messico è uno Stato Federale), Ovidio Guzman, detto El Ratòn, figlio del noto narcotrafficante, Joaquin Guzman Loero, detto El Chapo/il tappo, a causa della sua bassa statura. Il bagno di sangue che segnerà la cronaca nera di quel giorno, in occasione della cattura, verrà celebrato e raccontato dal gruppo musicale Codigo FN. Il genere musicale Narcocorrido è diffuso anche in Colombia e negli Stati Uniti d’America. La band Los Tigres del Norte ha vinto il Grammy Award, pubblicando CD con milioni di vendite. Il CD più famoso, La Reina del Sur, porta il titolo di una serie televisiva presente su Netflix. Tale aspetto, sottolinea l’operazione di investimento culturale posto in essere dalle organizzazioni criminali, ma anche la spontanea risposta della cultura popolare a questo fenomeno e l’interesse di molte case discografiche/editoriali, che vi trovano una occasione di profitto. Gli atti celebrativi presenti sono manifestazioni di rispetto verso i Boss locali, come accade nelle feste religiose nel Sud Italia. La musica della banda cittadina accompagna l’inchino di sudditanza ai mafiosi e diviene anche idea per aprirsi a più consapevoli e positive forme culturali di denuncia sociale. Il problema è evidente poiché sia la musica di ricerca sociale sia quella di aperta apologia mafiosa, posta in essere da cantanti appassionati o affiliati, producono conseguenze di massa nella percezione di questo fenomeno. La musica ritmata, il video, le tracce di violenza e l’appeal del benessere e della ricchezza, valore fondante il proprio status pubblico mutano la relazione tra realtà sociale e rappresentazione della stessa, in un’epoca che i mediologi definiscono come Visual Turn. La costruzione mediatica dei personaggi criminali, di cui il linguaggio musicale è uno strumento privilegiato, e le loro gesta ispirano video musicali, racconti, romanzi, serie Tv, film utilizzando vari modelli narrativi. La figura del delinquente, grazie a questa pratica visuale-sonora, ne esce trasfigurata, fagocitata dalle istanze degli attori e delle agenzie sociali presenti nel territorio: poteri istituzionali, imprese editoriali, forte componente dell’artificiale, preferenze del pubblico. I criminali divengono eroi, raccontati e celebrati nella musica, nei video, nella TV, nei libri, nei fumetti e in tutti i dispositivi strumentali, fatti di materia, di tecnologia e di cognizione. Questa Società della finzione e visuale, ha in sé una duplice contraddizione: lo Stato combatte i fenomeni malavitosi ma non può impedirne il sostegno culturale e artistico e la violenza, prima presente nei luoghi di repressione e correzione, ritorna pubblica con la punizione esibita di coloro che sgarrano le regole mafiose. Il criminale diviene la pagina bianca su cui si imprimono sentimenti, paure, aspirazioni e conflitti della società. Ecco che i delinquenti dell’antico regime divengono protagonisti di romanzi epici picareschi, poco importa la verità storica sugli stessi. Sono individui che si ribellano, nell’immaginario, all’ordine costituito o alle ingiustizie, divenendo personaggi moralmente accettabili, imitabili, soprattutto nei giovani che sentono l’attrazione del limite, del superamento della regola. Una miriade di personaggi letterari veri o presunti rispecchiano, in qualche modo, tale analisi. Si pensi a Robin Hood, a Mandrin, ai personaggi dei serial TV Narcos, Gomorra, Lost, Dexter, solo per citarne alcuni e, ovviamente, alle colonne sonore che li identificano (vd. nota 7). I sociologi e gli psicologi dei media e della comunicazione hanno neologizzato una categoria di giovani, i wannabe, come protagonisti di una sottocultura di adulatori seriali che imitano, approvano, sostengono con un like i comportamenti dei giovani criminali di cui vedono azioni, malefatte, ricchezza, in una distorta percezione, indotta da un racconto videomusicale volutamente falsato, che produce un forte senso di emulazione e di appartenenza (vd. nota 8). I CD dei canti di malavita e dei neomelodici hanno avuto una grande successo di mercato. Venduti spesso nelle bancarelle delle sagre paesane, sono state acquistate da turisti in visita nei luoghi del Sud Italia, incantati dalla bellezza dei luoghi e dal buon cibo. Nel tempo, tale cultura musicale s’è diffusa in Svizzera, Germania, Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Inghilterra e USA grazie ai flussi turistici e dai connazionali immigrati (vd. nota 6). Le parole sulla criminalità spesso sono usate in modo indistinto. Bandito, brigante, mafioso, se nel gergo colloquiale possono essere tra loro fungibili, nel linguaggio criminologico indicano fenomeni diversi tra loro. La differenza, infatti, non è solo linguistica, ma anche etimologica/storica e concettuale. Bandito è colui che ha commesso un reato ed è finito nel bando, ovvero un elenco dei rei, quindi bandito, cacciato e include non solamente ladri e malfattori, ma anche uomini banditi per le loro idee politiche o per azioni contrarie al Signore del luogo. Il brigante è, in epoca medievale, il fante di ventura, uno sbandato, un ladro violento e in Italia è considerato tale anche l’omicida, l’aggressore comune. Questo termine nasce nell’alveo della cultura francese e poi passa ai Borbone che lo usano anche per i loro nemici politici, per i contadini disperati senza terra che insorgono per rivendicare diritti. Alla fine del ‘600 i briganti prendono il posto dei banditi. Il brigantaggio durerà a lungo come forma predatoria del povero che toglie al ricco e, in minor parte, come esattori dei latifondisti, come vessatori dei contadini. Questo ultimo passaggio porta alla figura del mafioso, il quale sfrutta l’ambiente e ogni categoria sociale a seconda della propria convenienza. Vediamo un caso eccellente di Eroe Criminale, costruito culturalmente: Masaniello. Tommaso Aniello, detto Masaniello fu il capopopolo, un poco eroe e un poco malandrino, della rivolta che vide dal 7 al 16 luglio 1647 la popolazione napoletana ribellarsi contro il governo vicereale spagnolo a causa di una pressione fiscale iniqua necessaria alla Spagna per finanziare il costo insostenibile della guerra dei trenta anni. Di aspetto gradevole, si faceva notare per il suo modo di vestire anticonformista per la sua epoca. Sempre attento ad evadere i gabellieri, veniva spesso colto sul fatto e imprigionato. Un camorrista ante litteram potremmo dire poiché era dedito al contrabbando, attività principale. La povertà diffusa e l’inasprirsi della tassazione in un momento in cui la città di Napoli era scossa da sacche di protesta scatenarono la ribellione di cui Masaniello si fece capopopolo al grido di Via ‘o Re e Spagna, mora ‘o malgoverno. Ottenute le prime concessioni ed esecuzioni di alcuni gabellieri, Masaniello s’era fatto già dei nemici e dei banditi al servizio dei nobili chiamati dai suoi oppositori per ucciderlo. L’attentato fallì e il nostro quasi-Eroe ottenne la sua Vittoria e la reggenza di Napoli. La tradizione attribuisce la sua pazzia alla somministrazione fraudolenta di un allucinogeno durante un banchetto. La sete di potere che lo dominò in questa sua seconda fase lo indusse a comportamenti insensati e violenti, tanto da venire trucidato dai suoi stessi compagni di lotta. Dopo la sua morte segue la fase di consolidamento del suo mito: celebrato come primo repubblicano di Napoli nella esperienza rivoluzionaria del 1799, Vincenzo Cuoco ne fece il precursore della corrente rivoluzionaria settecentesca celebrando il suo eroico ardire esercitato in tempi meno felici e senza il contesto culturale dell’illuminismo. Benedetto Croce ne ridusse la figura, relegandolo a uno dei tanti capipopolo che si potevano trovare in queste rivolte il cui successo mitico era dovuto al “naturale effetto della poesia pronta a prorompere dai petti umani a ogni favilla o parvenza di libertà”. Di certo tale dotto discredito fece paragonare la figura di questo personaggio a un Pulcinella, a un rozzo prepotente con i deboli e servile con i potenti. Nonostante ciò, la figura di Masaniello è stata celebrata nell’arte, nella musica e nella cultura: William Turner realizzò il dipinto Ondina che dà l’anello a Masaniello, pescatore napoletano e registi e attori teatrali lo hanno rappresentato, nel solo secolo XX e XXI più volte. Nel 1963, Eduardo de Filippo dirige Domenico Modugno, nel 1974 Mariano Rigillo interpreta Masaniello, nel 1996 il musical di Tato Russo replicato al Quirino di Roma nel 2009. Ma è nella musica che lo troviamo più volte richiamato: La Nuova Compagnia di Canto Popolare nel 1974 gli intitola il brano O cunto ‘e Masaniello e nel 1978 Dint ‘o Mercato, i Musicanova lo citano nel Canto allo Scugnizzo del 1978, i 24Grana nella cover Scugnizzi del 1996, così come Pino Daniele nel suo Je so’ pazzo del 1979, i Modena City Ramblers in Quel giorno a Primavera del 2006, Eugenio Finardi in Come Savonarola nel 2014. Una sorta di Che Guevara partenopeo senza sigaro, tradito dalle persone di cui si fidava trovando, in ciò, un elemento di forza per la mitizzazione della sua immagine ai posteri: la vittima tradita acquista sempre una aureola di santità e un plus di eroismo per il sol fatto d’essere stata ammazzata vilmente. La cultura ha sempre guardato il proprio tempo, lo ha studiato, analizzato, combattuto, appoggiato a seconda dell’epoca storica e degli interessi economici, culturali e politici presenti. Oggi le giovani generazioni sono immerse in una società prestazionale in cui l’obiettivo è il Be Happy e dove il dolore, muto a sé e sordo agli altri (nota 10), considerato come costrutto sociale, deve essere allontanato, poiché limitante il fare e il business/profitto, unico vero alto valore, rispetto al quale tutto diviene secondario. L’assenza di prospettiva, avvertita dagli stessi, nonché un analfabetismo funzionale grave fanno sì che i like divengano il voler piacere agli altri, presenza di sé, riconoscimento altrui, analgesico contemporaneo e i social una droga a basso costo, che celebra, funzionalmente, le forme della malavita, percepite come uno scopo di vita.
Note Bibliografiche
(1) M. Ravveduto, Lo spettacolo della mafia. Storia di un immaginario tra realtà e finzione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2019, pp. 88-97;
(2) M. Catino, Le organizzazioni mafiose. La mano invisibile dell’impresa criminale, Il Mulino, Bologna, 2020;
(3) L. Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961;
(4) M. Ravveduto, Napoli … serenata calibro 9. Storia e immagini della Camorra fra cinema, sceneggiati e neomelodici, Liguori Ed., Napoli, 2007;
(5) A. Meccia, Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e TV, Di Girolamo Ed., Trapani, 2014;
(6) F. Viscone, La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, massmedia, Rubbettino Ed., Soveria Mannelli, 2005
(7) P. Palmieri, L’eroe Criminale. Giustizia, politica e comunicazione nel XVIII, Il Mulino, Bologna, 2022;
(8) N. Gratteri, A. Nicaso, Il Grifone. Come la tecnologia sta cambiando il volto della ‘Ndrangheta, Mondadori, Milano, 2023;
(9) M. Melotti, L’età della finzione. Arte e società tra realtà ed estasi, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 112-117;
(10) S. Sbarbati, Dizionario Minimo, Arcipelago, Itaca Ed., Osimo, 2022.
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