“Bisogna amarsi molto per suicidarsi (A. Camus)”: il supremo amore di un gentiluomo per la giustizia e la verità.
Il 2 ottobre 2008 Adolfo Parmaliana pone fine alla propria vita gettandosi da un cavalcavia della Messina-Palermo.
Rinomato docente e ricercatore di Ingegneria dei Materiali alla Università di Messina,
Parmaliana denuncia in modo puntuale e circostanziato il malaffare imperante a Terme Vigliatore, paesino del messinese
Grazie al suo coraggio civile, nel 2005 il Consiglio Comunale viene sciolto per infiltrazione mafiosa.
La reazione criminale è immancabile e crudele.
Il Vicesindaco lo denuncia per calunnia e nel 2008 la procura di Barcellona Pozzo di Gotto notifica al Professore un decreto di citazione in giudizio per il delitto di diffamazione aggravata.
Ha inizio la distruzione materiale e morale di Parmaliana, grazie alla complicità di un magistrato, di alcuni amministratori pubblici e di alcuni giornalisti sempre pronti alla vendibilità del facile scandalo.
Benché serio e convinto militante del PDS, il Professore viene isolato da tutti, anche dal suo partito, perché i voti non si prendono con la fede assoluta verso la berlingueriana “Questione Morale”.
Avvilito e distrutto, si uccide lasciando una lettera, testamento morale e atto implacabile d’accusa, dal titolo “Io che da morto vi parlo”:
“La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di Servitore dello Stato e docente universitario.
Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente.
Hanno deciso di annientarmi.
Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza.
Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae al massacro ed agli agguati che il sistema sopraindicato vorrebbe tendergli”.
Segue l’elenco delle persone care e amiche che sanno come si sono svolti i fatti, che hanno i documenti per far conoscere gli accadimenti, dalle cause sino alle ritorsioni che sta subendo, calunnie che gli tolgono serenità, tranquillità, gioia di vivere, forza fisica e mentale.
La lettera continua con il suo chiedere perdono ai figli, alla moglie, ai fratelli, ai genitori, raccomandando loro unità, chiedendo loro di essere forti e liberi. Agli altri parenti e agli amici prega di essere vicini ai suoi cari.
Un pensiero è rivolto alla Università, ai colleghi e agli studenti con cui ha lavorato felicemente per trenta anni, ringraziandoli per questa straordinaria esperienza umana e di ricerca scientifica.
“Mi sento un uomo finito, distrutto. Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore.
Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare.
Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni, ho perso la serenità per scelta di una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente.
Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi istituzionali.
Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio.
Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni.
Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita”.
La macchina diffamatoria e del discredito si attiva dopo morto.
Il Procuratore Generale di Messina, poi condannato e rimosso, fa girare un fascicolo da lui redatto pieno di falsità sul defunto Parmaliana.
La lettera denuncia un Sistema di corruzione mafiosa tipico di un modus operandi criminale nascosto, silente, capillare e pericoloso.
Non sparatorie o stragi, ma l’agire corrotto dei colletti bianchi in una zona grigia, in quel mondo di mezzo che è il non-luogo diffuso del crimine odierno.
L’arma della delegittimazione rimane lo strumento utilizzato dai mafiosi in tutte le storie delle vittime eccellenti delle cosche criminali: discredito, depistaggio, isolamento e morte.
Di questa vicenda poco si è parlato.
Ne rende omaggio alla memoria Paolo Borrometi, giornalista d’inchiesta sotto scorta per i suoi reportage contro le agromafie, nella sua penultima fatica editoriale “Traditori”.
Nel mirabile paragrafo a pag. 349, dal titolo “Un uomo Perbene”, Borrometi scrive: “La sofferenza di Parmaliana è stata una sofferenza che toglie l’aria, fa pensare al peggio, costringe a momenti bui in un buio presente, mostrando un futuro ancora più buio”.
Un buio che prova Giovanni Falcone, anche lui vittima di isolamento, diffamazione e del tradimento di alcuni colleghi, ancor prima del tritolo che lo uccide fisicamente nel 1992.
Alda Merini gli dedica post-mortem i versi che seguono.
Per Giovanni Falcone
La mafia sbanda
la mafia scolora
la mafia scommette,
la mafia giura
che l’esistenza non esiste
che la cultura non c’è,
che l’uomo non è amico
dell’uomo.
La mafia è il cavallo nero
dell’apocalisse che porta in
sella
un relitto mortale,
la mafia accusa i suoi morti.
La mafia li commemora
con ciclopici funerali:
così è stato per te,
Giovanni,
trasportato a braccia da
quelli
che ti avevano ucciso.
Versi esemplari del modus aberrante descritto.
Mi piace pensare che per Alfonso Parmaliana e per le vittime di mafia valgano le parole che Enzo Bianchi scrive nella prefazione al libro pedagogico e filosofico di Martin Buber “Il Cammino dell’Uomo”:
“Qualunque sia la via scelta, se essa è la propria via e se la si persegue con fedeltà e perseveranza, alla fine si conosce la gioia, la pienezza e quindi il cammino, il percorso può aprirsi a Dio”.
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