Si conclude la riflessione iniziata sul n.4 e continuata sul n.5 e n.6 di cartavetro
4. L’IO E LA MEMORIA
La memoria oltre la fine
Domande difficili mi gravavano sulla fiducia di Aldo Capitini a proposito dell’“operare nell’orizzonte escatologico della compresenza a tutti di tutto ciò che è, che è stato, che sarà. [tutte le sottolineature sono mie]”[i]. Un ‘tutto’ minuscolo, una ‘coralità’ che include tutti gli esseri. Tutti. Anche i morti. Tutti.
“c’è un campo di produzione nel mondo dove la compresenza realizza in qualche misura se stessa, ed è quello della produzione dei valori, che sono creazione corale della compresenza, nella quale ognuno mette qualche cosa di proprio. Un atto di bontà, o di onestà, o di ricerca del vero, o di creazione e ri-creazione del bello, o di sacrificio, o di lotta per la più pura libertà, avviene perché c’è l’azione della compresenza, che è a un livello che comprende tutto il meglio del fare” (A. Capitini, La compresenza per la trasformazione della natura e per la produzione dei valori, in La compresenza dei morti e dei viventi, cit., p.41)
“noi ritroviamo la presenza cooperante in ogni cosa o atto che giudichiamo di valore; lì confluisce non solo l’attività dell’“autore”, ma dei vicini, dei lontani, dei malati, dei morti. (…) lì è l’opera di tutti i singoli esseri nati fino a quel punto.” (ibidem, pp.43,44)
Tutti? Anche Hitler? Anche gli assassini di Falcone? Anche i massacratori di popoli?
“Non soltanto, perciò, l’attenzione agli individui nati e ai valori si accresce, sulla base di un accertamento che ci viene da abitudini formatesi storicamente, e importantissime in quel tutto importante che si forma nella storia; ma anche si schiude l’attenzione a che il resto della realtà venga a meritare di essere pervaso di compresenza: non solo gli umili e ultimi esseri vengono dignificati, perché essi fanno nella compresenza molto di più di quanto risulta, ma anche la materia inorganica, l’acqua, le pietre, l’aria, partecipano ad una possibilità, e il nostro misurare, il nostro stabilire leggi, non li esaurisce e chiude. (…) Il fatto che io possa far risalire tutto ciò che è nella realtà e si è costituito storicamente, ad individui nati pur minimi e lontani nel tempo e nello spazio, e il fatto che gl’individui, in quanto appartenenti alla compresenza, sono capaci di creatività e di continuo, fanno sì che le manifestazioni avversate (esempi: il veleno, l’assassinio, lo sfruttamento) mi risultano come arginabili, contrastabili, comprensibili in quanto praticamente superabili” (ibidem, p.44)
Andando per cimiteri, fino ad ora, li pensavo manifestazioni di memorie individuali, espressioni di un aggrapparsi disperato alla vita, attraverso un fisico rapporto – la tomba – coi viventi, esistente ancora nella realtà dei viventi. Illusoria finché si vuole, ma memoria tangibile, marmorea. Mi capitava spesso di chiedermi perché, però, la testimonianza fisiognomica – statua o fotografia che fosse – non era quasi mai né fedele, né tantomeno scelta per rendere al meglio il defunto. Fretta nel lutto dei restanti? Ritrosia a occuparsi in vita della propria sepoltura? Quanti papi e sovrani e persone anche non di primo piano, però, hanno fatto progettare in vita tombe maestose – le piramidi per tutte – senza adoperarsi per imprimere qualcosa dell’individualissimo ‘sé’ alle pietre. Certo: battaglie, conquiste, opere, banchetti, cacce, danze, attestati di ammirazione e anche di amore, simboli del potere, ma non quel ciuffo che cadeva capriccioso sull’occhio, quella goloseria per i fichi, quel solco sul corpo che aveva inciso una brutta caduta. Anche nei funerali più sontuosi, partecipati, organizzati, il vero protagonista è la gente, in processione a piedi o accalcata in chiese, piazze, sale dei saluti. È vero che si parla del defunto, lo si onora, si piange per lui, ma deve avvenire in una situazione corale, di incontro e di scambio. Lo stesso vale per quei minuscoli spicchi dei bruciati così frequenti oggi nei cimiteri, ma anche per le tante tombe che ho incontrato nelle parti più varie del mondo, dove, spesso, non c’era né un nome, né un segno individuale. A volte solo un sasso, un pezzo di roccia, un sommovimento del suolo, in mezzo all’erba, alla polvere, alla sabbia. Mi chiedevo: che senso ha questa memoria? Perché, anche se di eventuali conoscenti del defunto e della sua locazione da morto non ce n’erano più, anche da molto tempo, le tombe comunque restavano, pure se praticamente diseredate, anonime. Come nei ‘colombai’ delle tagliate etrusche, quasi sempre senza nomi. Chissà se, i miei, erano pensieri influenzati dalla corrispondenza d’amorosi sensi foscoliana, che mi costringeva a ricreare l’individuale memoria del defunto nella mia interiorità individuale. Tramite la tomba, certo, ma nel mio fugace effimero immaginario emozionale. E ancora, poi, guardando tutti quegli sguardi quei nomi sulle lapidi, mi capitava di sentire quanto fosse difficile immaginarli in loro possibili errori o cattiverie o delitti, anche quando qualcuno, lo conoscevo e sapevo di brutte cose che in vita aveva fatto. Ma Foscolo – limitandosi ai ‘grandi’, è vero – mi ha a lungo suggerito qualcosa che solo adesso ho collegato con Capitini: le tombe, ancora oggi, non sono – o lo sono in misura oggettivamente minima e temporanea – memoria di individui a individui, ma memoria della compresenza dei morti coi viventi, nel senso che ci ha indicato Capitini. Penso ai monumenti al milite ignoto, ai caduti di guerra, corredati sempre di età troppo giovani; ai monumenti o targhe per i non-più-trovati, svaniti in naufragi, disastri, epidemie, con quelle trafile di nomi sconosciuti, quasi intercambiabili, non fosse per quell’amaro sentore di perdita irrecuperabile di esistenze assolutamente uniche e irripetibili, che la comunità-specie sa comunque sua ricchezza. E per la prima volta ci penso libera dal fastidio per l’ideologia guerresca della morte eroica, per le cappelle e tombe sfarzose dei potenti, per l’effimero messaggio politico di chi ha commissionato una memoria retributiva (prendo a prestito una terminologia attuale nel processo di trasformazione della giustizia penale e detentiva). Vedo invece il bisogno della comunità di fissare quelle esperienze alla propria opera nella vita e nel mondo, sentita nell’esserci di ogni individuo.Testimonianza della lunga trafila dei costruttori prima di noi e ancora in noi. Di tutto quello che siamo, pensiamo, sentiamo. La specie.
Da Capitini prendiamo consapevolezza che esistiamo solo se in relazione con i tutti della specie. Tirarsene fuori non è solo segno di superbia, ma di condanna alla nullità del nessuno.
Cos’ha mosso i primi ominidi a scavare fosse, a innalzare pire, a offrire alla fame degli uccelli e delle bestie le carni dei morti, per poi conservare le ossa pitturate di ocra e di rosso? Solo la speranza di un oltre, l’illusoria consolazione della morte e della sua paura? Adesso mi viene da pensare che soprattutto volessero mantenersi materialmente, visivamente, memorialmente, simbolicamente affiancati a chi, prima di loro e insieme a loro, aveva partecipato e ancora partecipava a fare le cose della comunità, della specie.
Il culto degli avi, anche nelle sue forme più istituzionali-religiose o più familistiche, è un segno di come la specie sente la compresenza dei morti al cammino dei viventi.
Non so bene cosa pensare del significato da attribuire all’attuale frequente dispersione delle ceneri – che io stessa ho scelto per me, con l’apparente motivazione di un ritorno più immediato alla grande mater-materia. Ho l’impressione di una scelta terminale molto singolare, individualistica. Mi sgomentano gli angoli qualunque nei cimiteri dove si possono lasciare le ceneri – non voglio, non vorrei dirlo: come in una discarica. In entrambe i casi mi chiedo se sotto non ci sia la presa d’atto della diserzione dei cimiteri da parte dei più giovani, e l’inizio di una nuova era di trattamento dei corpi defunti. La morte è sempre più rimossa: ospedalizzata, allontanata dalla normalità, trasfigurata in ipotesi di resurrezione da fiction, da social e avatar vari, da pseudo-scientifiche conservazioni in surgelo. Mentre le attuali città dei morti sono oggettivamente troppo grandi, troppo invadenti, in espansione. Anche le urne tenute in casa – nuova alternativa – mi danno da pensare. Come se la memoria tangibile fosse circoscritta solo agli immediati congiunti. Ma è pur vero che a Çatalhöyük – sito archeologico neolitico presso Konya, Turchia, datato dal 7400 a.c. –, quando anche il culto religioso era domestico e non templare, i morti – le ossa, perché i corpi venivano lasciati alla scarnificazione degli uccelli – venivano seppelliti sotto i letti. Si pensa per coniugare la morte con l’inizio della vita.
Nella compresenza dei morti coi viventi contano anche i più piccoli e più fragili e più ultimi, che anche in assenza di eventuali belle parole o pensieri o che altro – e avessero anche solo messo in moto un poco del senso della cura, del dono, dell’empatia – hanno costruito moltissimo per l’umanità. Contano anche i terribili malvagi di ogni grandezza: ci sto arrivando adesso a pensarlo e ancora con sentimenti di ritrosia. Di rifiuto appena messo di lato. Un difficilissimo entrare in relazione. Ma. Ci hanno mostrato il possibile negativo. Tanto da poterlo riconoscere e rifiutare e da costruire paletti a difesa. So che è un’affermazione forte e passibile di difficili corollari, del tipo: il male sarebbe allora necessario? No, non lo è. Ma è possibile, non so perché. E sento che dobbiamo, questo sì: necessariamente, lavorare per limitarlo, se non riusciremo a eliminarlo del tutto.
E penso, sempre rubando al linguaggio attuale della giustizia, che così la memoria è riparativa.
E infine l’ ‘io’
Quando sorge la coscienza? Intesa come la consapevolezza che l’individuo ha di sé.
La prima percezione del sé è nella tragedia di un traumatico cambio d’ambiente alla nascita, anzi: di un cambio di scambio con l’ambiente. Dal liquido amniotico e una respirazione da pesce, in simbiosi duale con un corpo-madre che dà nutrimento, sensazioni condivise, sicurezza, protezione, ad uno spazio diverso, fatto d’aria, che arriva come fuoco ai polmoni con la prima boccata e fa male e fa piangere. Con un diverso senso del solo-suo –adesso – corpo, diventato più leggero che in acqua, il nato si sente perimetrato nel nuovo ambiente. Anche senza sapere ancora di cosa si tratti, sente di essere stato staccato da un insieme-a, e di essere solo, di essere uno e basta, di essere individuo. È il primo passo. Poi, per fortuna, l’istinto della fame gli fa cercare e trovare il seno che nutre. E, quasi sempre, la cura, l’amore di una madre, biologica o no che sia, femmina o maschio che sia. L’incontro esterno con la madre lo riporta, almeno in parte, a quel ‘noi’ che conosceva. Dice Guido Tonelli[ii]
“Il nostro essere animali sociali è qualcosa di più profondo e costitutivo del semplice fatto che viviamo in gruppi organizzati. L’interazione con gli altri membri della comunità, mediata da sguardi e linguaggio, contatto fra corpi e scambio di cibo, atti di cura e relazioni emozionali, è un processo fondamentale per la crescita di un individuo. (…) Il cervello plastico e multiforme del neonato si forma nella relazione con il mondo mediata dagli adulti che se ne prendono cura, a partire dallo sguardo della madre. Il bambino, che guarda negli occhi chi lo nutre, modifica le sue sinapsi sulla base delle reazioni che si producono nel corso di quella relazione.” (cit, p.19)
La prima percezione di sé è inscindibile da un ‘noi’. Se è vero che il neonato ha già una sua ‘peculiarità’ (personalità sarebbe troppo da attribuirgli), che esprime inconsapevolmente e istintualmente, però sappiamo che l’‘io’ consapevole emerge lentamente da vari stadi. Occorre del tempo per arrivare a sentirsi individuo, distinto dagli altri: nei primi mesi impara a vincere l’ansia di situazioni nuove cogliendo le indicazioni anche minime della madre, impara a riconoscersi allo specchio e a interagire con quello-lì-che-è-lui, impara a volere o domandare o attirare l’attenzione puntando il ditino verso qualcosa. Comincia a immagazzinare memoria per riconoscere situazioni, come il cibo, o relazioni, come con la nonna o il fratello, ma è ancora in costruzione. Così pure, quando cominciano le parole e parla di sé col suo nome, lo fa in terza persona; perché lo fanno ‘i grandi’ quando parlano di lui, e lui li imita, dice la psicologia. Mi sorgono perplessità, perché i ‘grandi’ gli si rivolgono come a un ‘tu’, soggetto e verbo in seconda persona. Una semplice imitazione dovrebbe indurlo a nominarsi come un ‘tu’. E invece è un ‘lui’, della cerchia intima, certo, anzi: già decisamente ricondotto al suo corpo, ai suoi bisogni e alla sua identità. Ma è ancora un ‘lui’. È un ‘io’ che ancora si identifica tramite il ‘noi’. Questo credo. Ha già imparato a tastare il mondo, a riconoscerne le reazioni – caldo, freddo, salato, bagnato, pungente – che comincia a usare a proprio vantaggio, soprattutto se sono quelle dei ‘grandi’, le reazioni ottenute. Quando arrivano le trafile dei no, a volte segnano solo i confini della sua differenza, ma cominciano a fargli sperimentare la scelta e la possibilità del suo rifiuto alle occorrenze del mondo. E infine arriva a nominarsi, a dire io e mio. Quando la memoria gli si è fatta consapevole. Se andiamo indietro, ognuno di noi arriva in genere a un tempo non antecedente i tre anni, e i primi ricordi sono quasi sempre con altri-da-noi. L’‘io’ nasce dal noi. Da quando comincia la rilevazione del mondo, e se ne riempie l’‘io’ con la memoria via via più consapevole, la costruzione dell’‘io’ avviene in relazione prima di tutto colla madre (col corpo della madre, quasi una nuova, pur ‘costruita’ simbiosi), poi con gli altri che gli stanno intorno: persone, ma anche gli altri-del-mondo, che noi chiamiamo ad es. ‘cose’, ‘animali’, ma che per lui hanno quasi il medesimo valore costitutivo delle persone; pensiamo a quanto speciali affezioni si creano per gatti, peluche, lucine, stoffe, ecc. L’ ‘io’ è prima negli altri. Nell’‘io’ c’è il ‘noi’ dall’inizio.
‘Coscienza’ viene dal latino conscientia, a sua volta derivato da scire, sapere, e da cum, con. Sapere con. Tutto qui.
Il vero ‘io’, allora, quello da salvaguardare intendo, non l’ipertrofico prodotto dell’egoismo e del consumismo, è quello che non dimentica la sua nascita dal ‘noi’ genitoriale, che spesso ha sperimentato in amore, e che lo immette nel senso allargato del ‘noi’-specie. E non dimentica la sua pluralità con tutte le cose del mondo. Anche il senso della famiglia va interpretato allargatissimo: come relazione intima – amorevole per lo più – con chi ti ha allattato e poi preso in cura e poi educato nel rispetto della tua individualità e poi fatto compagno di giochi e di vita: è questo il senso del ‘noi’ che conduce per sineddoche alla specie. Da cui veniamo, con cui camminiamo. Ma che si fa anche sineddoche per il mondo con cui siamo cresciuti insieme, che si è proposto nelle maniere in cui solo potevamo coglierlo, invenzione di lui e noi insieme, e che ci ha dato, esperienza dopo esperienza, di conoscere la vita in quell’unico modo con cui noi possiamo conoscerla. Sineddoche per l’universo intero, anche per dio, totalità metafisica o universa che la si creda.
Quando ci muore un caro – anche un gatto o una casa travolta dal terremoto –, quel dolore è anch’esso un segno, faticoso e sanguinante certo, come il pianto della nascita, di rientro nell’appartenenza alla specie e al mondo e all’universo. Un difficile lasciare andare al ‘noi’ ciò che ci ha fatto ‘io’, ma anche una lenta preparazione al nostro totale rientro nella specie, con la nostra morte. Morire è tornare al ‘noi’. Al grande plurale. Non ci cancella più, da solitari divisi individui, ma ci riporta in relazione diretta, in interconnessione, come si dice oggi. Con tutto. Senza soluzione di continuità.
La memoria, individuale-corale, è il collante della relazione. È la vivenza (non mi piace la parola ‘sopravvivenza’, che sa di oltre, e di oltre un confine, una divisione) dell’‘io’ e del ‘noi’. Sacra, oracolare, profetica.
[i] Giancarlo Gaeta, La religione di Aldo Capitini, in Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p.17
[ii] Guido Tonelli, Materia. La magnifica illusione, Feltrinelli, Milano 2023
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