Umberto Simone

Ho aspettato questo libro come una consegna di un amico.

Una poesia basta. Una sola. Come chi mette un seme sul palmo del primo passante, senza raccontargli da dove lo ha preso, quando, il nome e il cognome. E il passante lo accoglie, sentendo il peso di quell’esistenza cantare.

È appena uscito da una porta un caro caro amico poeta, con le dita di pane che ancora fanno luce nel buio del mondo.

Lo avevo scritto qui su CartaVetro incidendo le sue due date 1949/2023.

La poesia esce dalle date quando c’è. Quando canta. E vive da sola, viaggiando turisticamente nella luce del mondo. Forse queste mie parole possono significare il titolo dell’ultimo lavoro di Umberto Simone: Turisti nella luce, edito da Punto a capo, a dicembre del 2023, con prefazione di Marco Munaro. 

Tanti anni fa, avevo definito Umberto Simone “il passaggero scintillante”.

Tanti anni fa, Umberto e io, parlavamo nella notte in un angolo del Veneto, invitati da Marco Munaro. Parlavamo della nostra reciproca passione per la poesia e per la psicologia, per il canto che passa dentro il corpo e irrora ossigeno ossidrico nelle tempie febbricitanti, se non le ustiona, generando luce attorno. E torniamo al titolo. Turisti nella luce. Turisti e non viaggiatori e non viandanti.

Quando lessi per la prima volta la sua poesia, tanti anni fa, appunto, mi impressionò la sua capacità di rovesciare il mondo. L’orrore del mondo. Non con la fuga, ma con la creazione lirica di una diagonale luminosa in grado di attraversare il tempo, lo spazio, in una scena cruciale con cellule di dettagli narranti. E improvvisamente, toccarne, suonarne, il fulcro.

La sua ironia, la sua levità drammatica che con un colpo d’ala libra in leggerezza, dopo aver volato sfuggendo agli occhi del lettore, che deve ripetere d’accapo ogni movimento, dal primo frullo. Il turista ha una leggerezza quasi oziante mentre incontra la bellezza. Ha in sé una disposizione epifanica. Senza affanno. Con un tempo dedicato. Questa cerimonia iniziatica ha in sé, in Umberto Simone, una profondissima e ricchissima cultura, esigente, chirurgicamente individuante, raffinata, che accede al ventre sfuggente e fuggitivo della bellezza. Non come evasione. Non come fuga dal quotidiano, appunto, ma come affaccio a ciò che la nostra disattenzione abituata e abituale perde ogni giorno. La poesia di Simone entra e porta.

Rileggendo ancora Turisti nella luce e tutta la sua opera, mi è venuto a fianco Kavafis. In comune con Simone per quell’elettrica, amara, limpida luminosità che sferza il raggio dentro il tempo e gli spazi, Oriente Occidente, e coglie ciò che prima per noi era invisibile. Dopodiché, è qui. A noi davanti e pulsante.

Come te, come tutti, nella luce io non sono che un turista,

ma qui sento rispondersi per un istante, istante e eternità.

Catastrofe in Tessaglia (510 a.C.)

“Una volta che a Crannone in Tessaglia Simonide cenava da Scopas, gli fu detto di uscire perché alla porta c’erano due giovani sconosciuti che lo chiamavano a gran voce. Egli si alzò, uscì, ma non vide nessuno. Intanto in quel momento la scala dove Scopas dava il convito crollò, e in quel disastro egli stesso morì con tutti i suoi amici. E quando si volle ricomporli non si poteva in nessun modo riconoscere la gente schiacciata. Si dice che allora Simonide, ricordando dove ciascuno di loro fosse seduto, stabilisse la corretta sepoltura.”

(Cicerone, De Oratore, 2 351 – 354)     

Un brindisi un applauso e poi la tenebra,

perché crollò il soffitto sul banchetto, sbriciolò

i panciuti crateri e i letti a zampa di grifoni,

zitti le sbornie allegre e quelle tristi.

E chi scavò non li riconosceva:

maciullati, il sigillo sopra l’anello, il neo dietro la scapola –

cenci anonimi intrisi di sangue, le frangiate

vesti domenicali – e quegli arguti tratti, quei nobili profili,

frittate tutte eguali

d’ossa e capelli e petali di rosa.

Ma l’unico superstite, il protetto degli Dei,

si è ricordato il posto di ciascuno intorno ai tavoli:

fu così che distinsero il sommo sacerdote dal buffone

e il grande generale dal carnefice di corte.

E si poté correggere secondo il protocollo

la spiaccicata anarchia della morte,

smistando la poltiglia plebea in gessosi colombari, e quella

patrizia in urne crisoelefantine.

*

Mattini

Mattini lunghi e azzurri come ne hanno

solamente l’infanzia e la Provenza.

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