Proposte di Milena Nicolini,
stralciando da testi ponderosi di umana testimonianza in sincera pìetas
(anche contravvenendo a concordate regole redazionali di negata autoreferenzialità)

1-La storia onesta accende luce contro la barbarie

Da Il secolo breve 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995, di Eric J. Hobsbawm

Eric J. Hobsbawn (1917-2012), intellettuale e storico inglese tra i principali del secolo scorso, di famiglia ebraica, ricevette il Premio Balzan per il suo lavoro storiografico sul Novecento così motivato: “Per la sua brillante analisi della dolorosa storia dell’Europa del ventesimo secolo e per la sua capacità di coniugare la profondità delle ricerche storiche con un grande talento letterario.” In italia è conosciuto da un largo pubblico di lettori soprattutto per Il secolo breve 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, in cui lo storico considera il periodo del ventesimo secolo come iniziato con la prima guerra mondiale e terminato con la fine dell’Unione Sovietica, in quanto caratterizzato da eventi storici e fenomeni socio-economici che lo distinguono nettamente dal periodo precedente e vanno a trasformarsi verso l’inizio del nuovo millennio.

Globalizzazione e crisi delle istituzioni deputate alle relazioni tra le nazioni
“Forse la questione più grande che si trovano dinanzi gli storici del ventesimo secolo è capire come e perché il capitalismo, dopo la seconda guerra mondiale, si sia ritrovato sorprendentemente, a spiccare il volo verso l’Età dell’oro che va dal 1947 al 1973. (…) si può già valutare con sicurezza (…) la dimensione e l’impatto straordinari della trasformazione economica, sociale e culturale indotta da quell’epoca, la più rapida e fondamentale trasformazione che la storia ricordi. (…) il terzo quarto del secolo ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati all’età della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è venuta a termine la lunga èra nella quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi e allevando gli animali. (…) [i] Decenni di crisi che sono seguiti all’Età dell’oro (…) sono stati un periodo di crisi universale o mondiale (…) giacché l’Età dell’oro aveva creato, per la prima volta nella storia, un’economia mondiale unitaria sempre più integrata, che funzionava al di là delle frontiere nazionali (…) e che sempre più oltrepassava le frontiere ideologiche. (…) Ancor più palese è stata la crisi sociale e morale (…) una crisi delle credenze e dei presupposti sui quali la società moderna si è fondata (…) ossia una crisi dei presupposti umanistici e razionalistici condivisi sia dal capitalismo liberale sia dal comunismo, che resero possibile la loro breve ma decisiva alleanza contro il fascismo, il quale invece li respingeva. (…) la crisi morale non è stata solo crisi dei presupposti della civiltà moderna, ma anche crisi delle strutture storiche delle relazioni umane, che la società moderna aveva ereditato dal passato preindustriale e precapitalistico, e che (…) le avevano permesso di funzionare. (…) Non c’è più modo di definire un’identità di gruppo se non distinguendosi rispetto agli estranei che non appartengono al gruppo. (…) tensione (…) tra questo processo sempre più accelerato di globalizzazione e l’incapacità delle istituzioni pubbliche e dei comportamenti collettivi degli esseri umani di accordarsi ad esso. (…) disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, vale a dire tra il passato e il presente. Questo mutamento è stato particolarmente evidente nei paesi più sviluppati del capitalismo occidentale, nei quali i valori di un individualismo asociale assoluto sono stati dominanti” (Il secolo: uno sguardo a volo d’uccello, pp.20-21-22-23-24-28)

Le guerre
“il 1914 inaugura l’età dei massacri. (…) Il fronte [“di trincee e fortificazioni”] non subì spostamenti significativi per (…) tre anni e mezzo. (…) si trasformò in una macchina di massacri quali non s’erano mai visti nella storia militare. (…) Non sorprende che nella memoria (…) sia rimasta impressa come la “grande guerra”, un evento più traumatico e terribile nel ricordo di quanto non lo sia stato la seconda guerra mondiale. (…) l’esperienza di una guerra così brutale si ripercosse nella sfera politica: se era lecito condurre la guerra senza riguardo per il numero delle vittime e a ogni costo, perché non fare altrettanto anche nella lotta politica? (…) Se qualcuno dei grandi ministri o diplomatici del passato (…) si fosse levato dalla tomba per osservare la prima guerra mondiale, si sarebbe certamente chiesto perché degli statisti intelligenti non avessero deciso di trovare una soluzione di compromesso ai conflitti internazionali, prima che la guerra distruggesse il mondo del 1914. (…) Perché (…) fu condotta (…) come un gioco all’ultima mossa, cioè come una guerra che poteva essere o totalmente vinta o interamente perduta? La ragione fu che questa guerra (…) aveva come posta scopi illimitati. (…) La rivalità politica internazionale si modellava sulla crescita e sulla competizione economiche, ma la caratteristica di questi processi era per l’appunto la loro illimitatezza. ‘ Le “frontiere naturali” della Standard Oil, della Deutsche Bank o della De Beera Diamond Corporation erano i limiti estremi del globo (…) il solo obiettivo che contasse era la vittoria totale: ciò che nella seconda guerra mondiale venne definito “resa incondizionata”. (pp.36, 37, 38, 42, 43, 44)
Una ragione rilevante della crescita della barbarie fu (…) l’inedita democratizzazione della guerra. I conflitti generali si trasformarono in “guerre di popolo” sia perché i civili e la vita civile diventarono obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare, sia perché (…) gli avversari sono naturalmente demonizzati (…) le guerre totali del nostro secolo furono molto lontane dagli schemi della politica bismarckiana o di quella settecentesca. Nessuna guerra in cui si fa appello a sentimenti nazionali di massa può avere carattere limitato (…) Un’altra ragione fu la nuova conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva. La tecnologia rendeva invisibili le sue vittime (…) È così che il mondo si abituò all’espulsione di interi popoli dai loro territori e all’uccisione su vasta scala, fenomeni così poco consueti in passato che dovettero essere coniate nuove parole per significarli: “apolide” o “genocidio”. (ibidem, pp.66, 67)

Ipotesi per il futuro: dal 1994 al nostro tempo
“Qual è lo status politico internazionale della nuova Unione europea, che aspira ad avere una linea politica comune, ma che si dimostra palesemente incapace perfino di fingere una politica unitaria, al di fuori delle questioni economiche?” (Verso il terzo millennio, p. 646)

“il secolo è finito in un disordine mondiale (…) senza che ci sia un meccanismo ovvio per porvi fine o per tenerlo sotto controllo. La ragione (…) non sta solo nella profondità e complessità della crisi mondiale, ma anche nel fallimento apparente di tutti i programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano.” (ibidem, p.650)

“I movimenti fondamentalisti sono sintomi di “quella malattia di cui pretendono di essere la cura”, per dare la definizione che dava il viennese Karl Kraus della psicoanalisi. Lo stesso dicasi per quell’amalgama di slogan e di emozioni (…) che è fiorito sulle rovine delle vecchie istituzioni e delle vecchie ideologie (…) Mi riferisco alla xenofobia e alle politiche di identità. (…) il programma politico (…) del “diritto all’autodeterminazione nazionale”, in base al presupposto della omogeneità etnica, linguistica e culturale di ogni nazione, si è palesemente ridotto a un’assurdità feroce e tragica (…) Non è la prima volta che la combinazione di vuotezza intellettuale con una forte e perfino disperata emotività di massa ha avuto effetti politici poderosi in tempi di crisi, di insicurezza e (…) di disintegrazione degli stati e delle istituzioni. Come i movimenti d’opinione revanscisti e rancorosi tra le due guerre generarono il fascismo, così la protesta politico-religiosa del Terzo mondo e il bisogno di una identità e di un ordine sociale sicuri in un mondo che si disintegra (…) procurano l’humus nel quale possono crescere forze politiche vere e proprie.” (ibidem, pp. 654, 655)

“I due problemi centrali e determinanti nel lungo periodo sono quello demografico e quello ecologico. (…) Un calo notevole della popolazione mondiale, improbabile ma non inconcepibile, introdurrebbe problemi (…) complessi. (…) Circondati dai paesi poveri con vasti eserciti di giovani che reclamano lavori modesti nei paesi sviluppati (…), i paesi ricchi con una popolazione sempre più vecchia e con pochi bambini devono scegliere tra consentire un’immigrazione massiccia (che determina grossi problemi politici all’interno), barricarsi contro gli immigranti di cui hanno bisogno per alcune attività (una scelta che a lungo termine potrebbe rivelarsi impraticabile) o trovare qualche altra soluzione. [“Perfino all’interno degli Usa si sono manifestati segnali gravi di opposizione alla tolleranza sempre praticata da quel paese nei confronti degli immigrati.”, ibidem, p.648] La più probabile è quella di consentire un’immigrazione temporanea e condizionata, che non dà agli stranieri i diritti politici e sociali di cittadinanza, cioè di creare società essenzialmente non egualitarie. Queste possono variare dalle società basate su un chiaro apartheid, come quelle del Sudafrica e di Israele (…), fino alla tolleranza informale degli immigrati che non avanzano pretese nei confronti del paese ospitante (…) Non c’è dubbio che queste frizioni [tra nativi e stranieri] saranno un fattore importante della politica nazionale o mondiale dei prossimi decenni. (…)

Un tasso di crescita economica come quello della seconda metà del Secolo breve, se mantenuto indefinitamente (…) deve produrre conseguenze irreversibili e catastrofiche per l’ambiente naturale del pianeta, compresa la razza umana che ne fa parte. (…) il tempo disponibile per risolvere il problema non dev’essere calcolato in secoli, ma in decenni.” (ibidem, pp.656,657)

“alcuni tratti si stagliano con forza nel paesaggio politico mondiale. Il primo (…) è l’indebolimento dello stato nazionale, cioè dell’istituzione politica che dall’età delle rivoluzioni ha svolto il ruolo centrale (…) Lo stato nazionale ha subito un duplice processo di erosione: dall’alto e dal basso. Ha dovuto cedere in fretta potere e funzioni a varie entità sovranazionali e, dal momento che la disintegrazione di grossi stati e imperi ha prodotto e produce una molteplicità di staterelli più piccoli, gli stati nazionali sono, in generale, diventati troppo deboli per difendersi in un’epoca di anarchia internazionale. (…) lo stato nazionale sta anche perdendo il monopolio del potere effettivo e i propri privilegi storici all’interno delle sue frontiere. (…)Alla fine del secolo lo stato nazionale è sulla difensiva contro un’economia mondiale che esso non può controllare; contro le istituzioni che esso stesso ha costruito per porre rimedio alla propria debolezza internazionale, come L’Unione europea; contro la sua apparente incapacità finanziaria a mantenere ai propri cittadini quei servizi che aveva fiduciosamente istituito pochi decenni or sono; contro la sua effettiva incapacità a conservare (…)il mantenimento della legge e dell’ordine pubblico. (…) E tuttavia, lo stato, o qualche altra forma di autorità pubblica che rappresenti l’interesse generale, è più indispensabile che mai se si vogliono controbilanciare le ingiustizie sociali e ambientali dell’economia di mercato (…). Che cosa accadrà (…) alle popolazioni dei vecchi paesi sviluppati, la cui economia si basa su una quota sempre più ristretta di percettori di reddito, mentre cresce il numero delle persone estromesse dal ciclo produttivo a causa delle alte tecnologie e aumenta anche la popolazione dei poveri che non hanno un reddito sufficiente? (…) Alla fine del secolo è diventato chiaro che i media sono una componente della vita politica più importante dei partiti e dei sistemi elettorali (…) mentre i mass media sono contrappesi molto potenti all’occultamento delle verità da parte dei governi, essi non sono in alcun senso un mezzo di democrazia.” (ibidem, pp. 664,665,666,671,673)

2-La poesia respira contro la guerra e la violenza

Anna Maria Farabbi

Mi rovescia al muro
questo invisibile vento questo
inferno di primavera nella testa questo
mulinello di polvere incendiaria
che innesca la carie nella radice del nervo   sento
gli spari che hanno bucato gli uccelli
e i bambini di Gaza a bocconi sui sassi 
con le stelle filanti appese sulla croce degli occhi    sento
i picconi dei minatoripoeti
nel buio grezzo di una cartaminiera
tra la vena la frana le scariche di singhiozzi
dentro la tempia    sento
centinaia di clandestini camminare a piedi scalzi il mare
dal loro deserto alla speranza di trovare una terra abitabile   
come rondini che hanno perso l’orientamento
da un cielo all’altro
o disperate transumanze

Sento i papaveri tra le spighe
l’oro vegetale che a giugno sarà pane
mentre in città i gabbiani con i barboni rubano rifiuti
in pellegrinaggio tra le discariche

Canterò tutto questo
scriverò poesie per terra come i madonnari

da Piazza, in Abse, 2013

*

Ho fatto un figlio mettendolo alla luce
per un suo viaggio nel mondo    un suo fare

che è cominciato urlando
dal fondo delle mie cosce.

Quello che può fare una qualunque femmina
con la pancia. Un miracolo.

Sfregio pubblicamente con una sola lacrima
la faccia degli assassini di mio figlio.
Che non sia pena e non sia morte
perché non appartiene a me pena e morte
ma avvampi nel loro corpo la resurrezione
del suo boato.

                        contro la pena di morte: diario di una madre

da Biblioteca, in Abse, 2013

**

Soffio delicatamente sugli occhi chiusi di mio figlio, dopo avergli raccontato una favola. Fa parte della magia materna: nella scia della mia voce, lui vedrà il buio e poi, sotto le sue palpebre, creature a colori attraversare il deserto fino all’oasi dentro cui brilla il tesoro. Guardo il paesaggio del suo volto mentre respira con tenerezza che commuove.
I bambini nel lager come entrano nel sonno? Quelli di strada? I piccoli degli orfanotrofi infernali o delle carceri nel reparto ergastolane? Quale ritmo ha l’aria notturna nelle narici dei bimbi dentro la guerra? A quest’ora, i crampi della fame risucchiano l’ombelico di Nassur, rannicchiato nella tenda nomade nei pressi di Palmira, mentre a qualche chilometro dalla clinica pediatrica Emergency a Nyala, in Sud Darfur, una guancia bambina distesa in terra sta divenendo terra.

Nel buio, canto tra me e me una ninnananna e mi sembra che vocali e consonanti evaporino nell’aria, inquinandosi. Penso al sangue nella neve, visto proprio questa mattina. Era tremendo: sprofondava come una scrittura fumante. Un altro agnello sgozzato per pasqua. Anche questa volta, l’innocenza verrà divorata boccone per boccone. E sia. Ma il comandamento per noi vecchi è praticare l’innocenza, recitando i nomi dei sacri agnelli. 

questa è una poesia soffiata dal mio fiato

dalla mia bocca uguale    a una qualunque bocca primitiva
concentrata tra i legni per accendere il fuoco

io guardo il fiato della poesia come le sciamane
che leggono i nidi e la pancia delle uccelle in volo
e come loro zitta senza vocabolario studio la madre
degli elementi

io canto con lo stupore delle bambine
che suonano le conchiglie del mare    il guscio
delle lumache di terra e dell’uovo

mi schiero scalza in piazza    con tutto il corpo
a fianco di mio fratello impastato

il suo squarcio di sangue nella neve
mi comanda la parola
l’onestà l’integrità la resistenza
la giustizia e il diritto per tutti alla bellezza

le polveri di tritolo tra i binari sono diventate semi
nel vento 

                                               diario di me madre

                                               dedicato a Peppino Impastato

                                               ai quei valori dentro cui è morto

                                               e vive

da Biblioteca, in Abse, 2013

***

no

io voglio leggere la guerra senza ridere né piangere

mi chiedo cosa sia la cosa che chiamiamo stato
al punto da dovermi consegnare
dichiarandomi disposto a uccidere
a perdere umanità e intelligenza rinunciando alla mia lingua
con cui ascolto penso parlo riconosco e saluto
quelli della mia stessa specie
dentro la voce del verbo essere

non è questione di armarsi per difendersi
è accettare di girare nel cerchio culturale del dominio
è servire chi si incorona questo mi ripugna
chi assassina il sogno dell’europa di mazzini
dimenticando le radici greche

per riconoscenza parlo greco e latino prendo all’orecchio
il francese e il tedesco dico scrivo vivo in italiano
sceso per terra nel dialetto
sul quaderno traduco a mano il mio corpo
disarmato e disubbidiente
con un popolo colto di parole disarmate e disubbidienti
che restino così
da La casa degli scemi, 2017

***

non so il giorno della settimana con chi siamo in guerra
dove sia il mio io decomposto nel bombardamento di oggi
ma loro cantano con una passione di appartenenza
che li ricompatta
creando un fuoco centrale a voce
non è questo il pronome noi in cui credo
dovremo riuscire a cantare con quelli di là
se no dopo ogni guerra è guerra
da La casa degli scemi, 2017

***

ore cinque

chi canta sul barcone? l’acqua fredda blucupoviola brilla
gradatamente si azzurra riscaldata dall’alba
sono i pesci sono i venti sono le onde che sembrano corpi galleggianti
a cullare il dolore chi canta
sul barcone?

è una piccina con il volto di lunapiena che beve le sue lacrime
stringendo tra le braccia la mamma
tutt’intorno uomini e donne ascoltano
accatastati l’uno sull’altro guardandola
perché in quel momento lei è l’unica voce al mondo
la sua bocca è quella di tutti
che canta ninnando tutta l’acqua del mediterraneo
la vita la morte l’egoismo il razzismo la ricchezza grassa
ninna la lontananza della sua baracca in africa
i fratellini rimasti con il bestiame

tra leoni giraffe elefanti serpenti iene avvoltoi scorpioni uccelle celesti
i vecchi del villaggio raccontano gli avi sotto la grande acacia
le vecchie cuociono il pane preistorico sulla pietra
conoscono il silenzio delle radici della grande madre acacia
da Ninnananna talamimamma, 2023

WISLAWA SZYMBORSKA

Sorrisi
Il mondo vuol vedere la speranza sul viso.
Per gli statisti diventa d’obbligo il sorriso.
Sorridere vuol dire non darsi allo sconforto.
Anche se il gioco è complesso, l’esito incerto,
gli interessi contrastanti – à sempre consolante
che la dentatura sia bianca e ben smagliante.

Devono mostrare una fronte rasserenata
sulla pista e nella sala delle conferenze.
Un’andatura svelta, un’espressione distesa.
Quello dà il benvenuto, quest’altro si accomiata.
È quanto mai necessario un volto sorridente
per gli obiettivi e tutta la gente lì in attesa.

La stomatologia in forza alla diplomazia
garantisce sempre un risultato impressionante.
Canini di buona volontà e incisivi lieti
non possono mancare quando l’aria è pesante.
I nostri tempi non sono ancora così allegri
perché sui visi traspaia la malinconia.

Un’umanità fraterna, dicono i sognatori,
trasformerà la terra nel paese del sorriso.
Ho qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero,
non dovrebbero sorridere il giorno intero.
Solo a volte: perché è primavera, tanti i fiori,
non c’è fretta alcuna, né tensione in viso.
Gli esseri umani sono tristi per natura.
È quanto mi aspetto, e non è poi così dura.
da Grande numero,1976

*

Salmo
Oh, come sono permeabili le frontiere umane!
Quante nuvole vi scorrono sopra impunemente,
quanta sabbia del deserto passa da un paese all’altro,
quanti ciottoli di montagna rotolano su terre altrui
con provocanti saltelli!

Devo menzionare qui uno a uno gli uccelli che trasvolano,
o che si posano sulla sbarra abbassata?
Foss’anche un passero – la sua coda è già all’estero,
benché il becco sia ancora in patria. E per giunta quanto si agita!

Tra gli innumerevoli insetti mi limiterò alla formica,
che tra la scarpa sinistra e la destra del doganiere
non si sente tenuta a rispondere alle domande “Da dove?” e “Dove?”.

Oh, afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione,
su tutti i continenti!
Non è forse il ligustro che dalla sponda opposta
Contrabbanda attraverso il fiume la sua centomillesima foglia?
E chi se non la piovra, con le lunghe braccia sfrontate,
viola i sacri limiti delle acque territoriali?

Come si può parlare d’un qualche ordine,
se non è nemmeno possibile scostare le stelle
e sapere per chi brilla ciascuna?

E poi questo riprovevole diffondersi della nebbia!
E la polvere che si posa su tutta la steppa,
come se non fosse affatto divisa a metà!
E il risuonare delle voci sulle servizievoli onde dell’aria:
quei pigolii seducenti e gorgoglii allusivi!

Solo ciò che è umano può essere davvero straniero.
Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.
da Grande numero,1976

VISTO DALL’ALTO

Su un viottolo giace uno scarabeo morto.
Tre paia di zampette ripiegate con cura sul ventre.
Invece del disordine della morte – ordine e pulizia.
L’orrore di questo spettacolo è moderato,
la sua portata locale, dalla gramigna alla menta.
La tristezza non si trasmette.
Il cielo è azzurro.

Per nostra tranquillità – gli animali non muoiono
Ma crepano d’una morte per così dire più piatta,
perdendo – vogliamo crederlo – meno sensibilità e mondo,
uscendo – così ci pare – da una scena meno tragica.
Le loro animucce mansuete non ci ossessionano la notte,
mantengono la distanza,
conoscono i mores.

E così questo scarabeo morto sul viottolo
brilla non compianto verso il sole.
Basta pensarci per la durata di uno sguardo:
sembra che non gli sia accaduto nulla di importante.
L’importante, pare, riguarda noi.
Solo la nostra vita, solo la nostra morte,
una morte che gode d’una forzata precedenza.
da Grande numero,1976

Precedente:
  1. Avatar Ferretti Renzo
    Ferretti Renzo

    Queste riflessioni mi aiutano a leggere, studiare e capire il modello sociale, economico e politico nel quale vivo; grande profondità di analisi che mi fa sentire meno solo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *