Ho conosciuto Donato Loscalzo all’inizio del 1980, nel sottotetto di Palazzo Cesaroni a Perugia, nell’ufficio regionale del CRURES dove l’amico editore Antonio Carlo Ponti mi aveva “convocato” per propormi l’introduzione all’opera prima di un giovane liceale, che si trovava lì con suo padre per discutere di una pubblicazione. Silenzioso e riservatissimo, il diciottenne di Accettura che prima di trasferirsi in Umbria aveva fatto il ginnasio a Matera nella scuola di Giovanni Pascoli, si preparava a dare alle stampe Aspetti d’esistenza, poesie scritte tra i quattordici e i diciotto anni. Riletta oggi, quell’opera così smilza, di 78 pagine, era già ricca di un desiderio di libertà e di un’osservazione acuta del reale, ora amara ora ribelle nella consapevolezza di una diversità sostanziale dalle vite comuni, dalle maschere del quotidiano. Il tema dell’amore vi si affacciava con esiti espressivi ora tenui ora risentiti, in un doppio binario risolto con liriche brevi e già mature.
Ne è passato di tempo, oltre trent’anni; quel giovane liceale è diventato un grecista e filologo molto apprezzato, con un sostanziale silenzio della poesia. Che mi è riapparsa un giorno in libreria con L’amore, invece (2015), prima di Lunario interiore (2016), Bastano i sassi (2017), Dietro l’estate (2018), A-mors amoris (2020)e poi su Facebook, dove Donato ha iniziato a rendere visibili altri suoi componimenti, mostrando una prolifica generosità. Per chi scrive è stata la conferma di una crescita, di una sapienza lirica che attraversava un tessuto classicheggiante con modernità personale, costeggiava in modo libero l’endecasillabo mantenendo una sana educazione al ritmo nell’alveo di una nobile tradizione. E l’ulteriore conferma di tutto ciò è in questo Meccaniche di lontananza, un canzoniere d’amore che Raffaele Marciano ha voluto nella sua elegante collana “Lapsus calami” (Aguaplano) col desiderio di ripresentare una linea poetica forse più tradizionale ma di livello, evitando in ogni caso i rischi connessi a un tema storicamente inflazionato dall’alba della letteratura occidentale fino agli odierni diari scolastici.
La poesia di Donato Loscalzo elude infatti i luoghi comuni più abusati facendosi terrena senza grevità, prediligendo le pietre ai sogni, la realtà all’evanescenza. In questo senso il legame con le radici lucane sembra agire anche sul lessico fatto di cose (pietre, mura, calanchi) e di luoghi della vita quotidiana (alberghi, bar, ristoranti, case, cantine, strade e vie cittadine, sentieri), che a tratti possono tradursi in una lirica più narrativa, ma sempre centrata su un’acuta osservazione emotiva del reale, spesso colto nei momenti chiaroscurali ed estremi del giorno (l’alba, il tramonto, la notte, insomma laddove il poeta avverte la rarefazione delle presenze umane, anche per meglio isolarle nella loro tipicità). In questa dimensione spazio-temporale il filo rosso dell’amore viene colto in tutte le possibili modulazioni con una lucidità e sincerità che non nascondono le ferite, le lacrime, le umiliazioni, parole-chiave nel tessuto linguistico, riscattandole nella limpidezza del verso come in questa quartina di lapidaria bellezza scandita sul ritmo dell’endecasillabo:
il tempo residuale avanza incerto
procede nell’istinto di cercare e ricercare
perché in amore si vince una volta
e si continua a perdere ogni giorno
I vari stadi dell’avventura di amare vengono percorsi con un andamento sinusoidale che ha inizio con una ironica autodifesa (l’amore come “vizio borghese, eredità della cultura romantica… relegato ai margini dell’alta letteratura”) e prosegue come lucido, spesso sofferto racconto con le sue varianti. Così, nella lontananza che diviene brace poetica sotto la cenere, affiora il rimorso per “ciò che non si è dato”, ma anche il desiderio di liberarsi di nomi e volti e “potare il tronco”; il tradimento, la separazione e la sosta tra due amori, ma subito dopo la lucida consapevolezza che a volte un ricordo abbagliante “nasconde melma” se scandagliato sotto la superficie delle parvenze luminose; il litigio, gli errori, la protezione per timore della fine lasciano spazio all’idea disincantata che il dolore trasformi e che si debba accettare la partita del vivere l’amore come incognita e tortuosità vulnerabile. La parola “partita” non deve sorprendere più di tanto: non solo la lingua di questa silloge non rifugge da tecnicismi (uno per tutti “facebook”), ma in fondo tutta la vita è spesso lotta, confronto agonistico che Loscalzo intende anche nell’interiorità individuale come ricerca di sé stessi e confronto con i propri démoni, uno fra i tanti la sensazione di vivere spesso in un altrove, perduto e ritrovato con la poesia.
In questa direzione sembra procedere, nella struttura del libro, la parte conclusiva, anticipata dalla lirica secondo me esemplare di pagina 76:
dall’incespicante foresta dei rimorsi
o da incertezze antiche mai risolte
questo tempo è incapace di trovare
la sua strada tra le mille che diramano
induce un passo lento e imprecisato
tra i meandri di perdite e sconfitte
qualche malevolo testimone di paure
che sciorina catastrofi e ipotesi di morte
dietro la maschera benevola del saggio
ora invece è meglio andare soli
ci accoglierà qualche viandante disilluso
sconsiglierà l’erta faticosa
per indicare dove cogliere sorrisi
di prostitute a margine di strade trafficate
perché i conti alla fine
dovrai farli solo con te stesso
Il bilancio di sapore pavesiano sembra trovare conferma, con una nota magari di più lieve malinconia, nell’ Elegìa perugina che sembra chiudere il canzoniere:
(…)
è in questo giorno ormai finito
che qualcosa mi rivive dentro
forse l’inverno
che richiude i suoi battenti
o la primavera che avrei cercato insieme a te
o forse i ripensamenti
la sola certezza di saperti ancora
a custodirmi dentro di me
passeremo anche noi
che siamo sopravvissuti
passeremo come le luci accese di questa sera
ma prima di spegnere il lume
brinderò al giorno che mi è stato dato
e che forse per una volta
ho tentato di non sprecare come gli altri
Ma come al cinema è bene non andarsene all’arrivo dei titoli di coda, anche qui l’autore ci consegna il suo congedo dopo l’indice dei testi, in una effettiva conclusione che apparentemente ha il sapore di una raggiunta, lucida e saggia pacificazione:
Infine
regolare è un respiro di vita
che sale dalle tenue onde del lago
smorzano la fatica dell’acqua
i ritorni alle radici della terra
umile e ritratta che non parla
è quello di un amore quotidiano
maturo e un po’ vecchio nelle attese
a volte incredulo disincanto
ma sempre meno fragile e ribelle
sono spesso più lievi i sussulti
perché nel fondo dorme una pace
una inquieta brezza momentanea
Nell’evidente natura ossimorica dei due ultimi decasillabi la poesia di Donato Loscalzo gioca il suo finale di partita e tende un agguato ad ogni illusoria certezza su quello che sappiamo dell’amore.
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