Paola Febbraro, STELLEZZE

a cura di anna maria farabbi

Al3viE-pièdimosca edizioni (2024)

In occasione della riedizione della bella silloge, postuma, Stellezze, della poeta Paola Febbraro, di cui va dato merito al fecondo connubio tra le due case editrici Al3viE e pièdimosca, vorrei  proporre un mio  veloce sguardo su questa poesia, non tanto per ragioni recensorie più o meno dovute, ma per il mio personale desiderio di condividere quanto questa scrittura mi ha aperto. Sguardo privo di particolari legittimazioni specialistiche o erudite, che prende luce da un’abitudine (ossessione?) analitica, coniugata a una curiosità non dissimile dalla trafila dei perché? tipica dei primi anni infantili. Chiedo quindi scusa per eventuali rilievi tecnici che possano apparire arbitrari o non adeguatamente motivati. O ignoranti.
Mi muove inoltre che viviamo in un tempo in cui il non poter essere, anche per cause come la morte,  in costante presenza  comporta spesso una dimenticanza che diventa a poco a poco sottrazione, rimozione. Indipendentemente dal valore dell’opera che rimane. Succede più spesso alle poete, ma non sfuggono anche i poeti a questo macello di eterno presente. Un nome per tutti: Daria Menicanti.
La riedizione, che dà prosieguo all’intelligente scelta dell’editore Michelangelo Camelliti di LietoColle del 2012, vede la preziosa cura di Anna Maria Farabbi, che premette alla silloge alcune dichiarazioni di poetica di Febbraro, in forma di lettere e di testi, tanto interessanti per la loro bella forma di scrittura quanto per l’apertura offerta verso i testi poetici che seguono. Senza dimenticare l’importante lavoro in appendice – note appunti tracce indizi – che non solo dei testi di Stellezze, ma anche di La rivoluzione è solo della terra, Premio Renato Giorgi, Manni, Lecce 2002,  e di Turbolenze in aria chiara, Empiria, Roma 2008, ricostruisce le varie apparizioni, gli intrecci, le varianti.

Alcuni rilievi prosodici

Avvertenza:
Gli accenti sulla vocale di una sillaba (deboli  ̆ o forti  ̄) segnalano un ictus significativo per il ritmo e il numeretto in alto il numero della sillaba; il segno  ͡    segnala una sineresi o sinalefe; il segno ¨ segnala una dieresi o dialefe.

Non posso non cominciare da “CLIMA VITAE”, in Stellezze, p.25.
Scritto nel mese di maggio come nel mese di maggio Paola è morta. 2004-2008. Uno dei testi più intimi, aperti, esemplari del suo fare poesia.

Nella prima riga di testo, che comincia minuscola – per una piccola libertà alla Gertrude Stein o per un sotteso vocativo epistolare?, lettore o amico che sia: in una mia vecchia copia cartacea Paola aggiungeva, a mo’ di dedica: “con amiche, ad amici” – trovo subito due caratteri che a me paiono costituire la cifra della ritmica prosodica di Paola: l’occorrenza, sia in versi ipermetrici che in brani prosastici, di versi classici non sempre conchiusi in un senso grammaticale o sintattico compiuto – come d’altronde in genere tutta la forma del testo –  e declinati in tutte le possibili variabili. Quindi la frequentissima (quasi costante) battuta ritmica iniziale che fa cadere l’ictus (debole o forte) sulla prima sillaba, quasi sempre  associata alla battuta dell’ictus sulla seconda o con medesima occorrenza sulla terza sillaba. Che soggettivamente sento come un vero doppio fiato – o doppio colpo di mano sul tamburo – di fisica emissione della parola, quale forse era per Paola la respirazione aurorale del verso.

pŏi12no͡ uscī4ta di cā7sa (ottonario) + ĕ1¨ă2l ritō4rno mi sō7no sedū10ta (endecasillabo) + sŭl12rdo di͡ ŭ4n’ ai¨uō6 la nel cortī10le (endecasillabo) + dĭ1  2sa mĭa4 (quinario tronco)/   

Nelle dodici righe successive compaiono molte delle forme prosodiche consuete della poesia di Paola come il novenario, il quinario, il tridecasillabo, l’endecasillabo. Nonostante una mia criticabile parzialità nella ricerca metrica (considerare ad esempio importanti prosodicamente ictus deboli), vorrei sottolineare come questa proposta di schema metta in evidenza una eccezionale regolarità degli ictus, che dà ragione di una forte ritmicità della poesia, soprattutto ad una lettura orale.  

“Ă1 fumā3rmi ͡  ū4na  sigarēt8ta. (novenario)”//

“Ĭl1  cespū3glio di rō6se biān8che (novenario) + hā1 cominciā4to¨ā6 fiorī8re. (novenario) + Ĕ12co piū4¨in lā6 le rō8se (novenario) + rō1sa dăl3 gām4bo lūn6go͡ e drīt8to (novenario). + L’ăn1diriviē4ni  di persō8ne nel  cortī12le. (tridecasillabo) + Quē1sto pīc3colo grā6nde villaggio͡ in cui͡ ā12bito. (tridecasillabo) + Hō1dēt2to grā4zie. Sō6no  fortunā10ta. (endecasillabo) + Nŏ1, nŏn2 l’ho dēt4to. Nōn6 l’ho dēt8ta. (novenario) + L’hō1 sentī3ta. (quadrisillabo) + Lă1fortū3na. (quadrisillabo) //

1 fortū3na͡   ē4 5me l’imprōn8ta (novenario) + dĭ1¨ ū2na zampēt5ta di ¨ŭn8 uccēl10lo, (endecasillabo) + lă1 zām2pa di¨ŭn5 animā8le͡ o (novenario) + l’imprōn2ta di͡   ū4na lucēr7tola͡ immō10bile (endecasillabo sdrucciolo) + ĕ1 cŏn2 la tē4sta ¨alzā7ta nel tēm10po (endecasillabo) + ĕ1 quān2do qualcō5sa di tĕ8 (novenario tronco) + cĭ1 rimēt3te piē5de ¨ e ricoincī10de (endecasillabo) + cŏn1 quēl2l’imprōn4ta (quinario) + sĕi1 nēl2la tūa4 fortū6na.(settenario)

Per dare corpo alla mia ipotesi di lettura metrica, riporto l’indagine intorno alle prime cinque righe di un brano in prosa, La prima festa della poesia, in La rivoluzione è solo della terra, p. 39, brano del tutto privo di punteggiatura forte e debole, che pare quasi sostituita dalla scansione metrica da me ipotizzata.

1 lēg2go per prī5ma sī7 se vuoi  ā10pro ¨ ĭo12 (tridecasillabo) +  1 pōr2ta al tuō5no dēl7la poesīa10 (endecasillabo tronco) + ān1che sĕ3͡ ancō4ra c’ē6 quā7si nessū10no ( endecasillabo)/

“mā1͡il lām2po͡ il  lampo chĭ6 ce lo mēt9te se͡ è dēn12tro (tridecasillabo) + ō1gni cōr3po chĕ56ve lontā9no da quĭ12 (tridecasillabo tronco) + sĕ1 ĭl2 lām3po stă5 dēn6tro¨il Gazōmetro (endecasillabo sdrucciolo) + nĕl1 bēl2lo che¨incōn6tra l’orrēn9do nel  tā12xi (tridecasillabo) + chĕ1 nŏn2 trova la strā6da (settenario) + ĭo1 scēn2do – che¨ è mē6glio – (settenario) + cosī2 ci risparmiā6mo lo strĕss9 (decasillabo tronco)/ 

Ed ecco un testo poetico, di versi quasi tutti ipermetrici, col titolo – come di consueto in Febbraro –  necessario al testo per ritmo e chiave significativa, da Stellezze, p.59.

1 VŌL2TO ͡  IL CĀ4PO͡  ED Ē6 USCĪ8TO ͡  IL  SŌ10LE (endecasillabo)

1 2 fastī4dio quē6sto rumō9re (decasillabo) + dĭ1 2sti cosī5 presēn7te (ottonario)/
1 ă2 3no lī5bera la calligrafīa (tridecasillabo tronco) + nŏn12 leggerēb5be (senario)/
1nto͡ ē2 sottile͡ ō5ra (senario) + quēl1lo chĕ3 divī5de  ̄ il cā8po (novenario)/
dăl  sō2le (trisillabo)

Alcuni rilievi stilistici

Accompagnano questa punteggiatura ritmica lievissime, veloci, espresse spesso in un angolo di verso, allitterazioni (“L’andirivieni di persone nel cortile”, “A fumarmi una sigaretta”, “la testa alzata”, “No, non l’ho detto”, “scendo che è meglio”, “una zampetta di un uccello”, “per prima se vuoi apro”, “dà fastidio questo rumore di tasti così presente”), anche in forma di assonanze e consonanze, di paralleli particolari, di rime (rare), più o meno regolari, (dentro-Gazòmetro-incontra-strada; rimette-piede; fortunauna, “mi dà (…)/ ma a mano (…)/ (…)/ dal”), nonché ripetizioni, anafore e paronomasie di steiniana memoria (“il lampo il lampo (…) se il lampo”, “rose rosa”). Rarissimi gli aggettivi (troppo inerti, incapaci di erroneità, raccomandava Stein), ma soprattutto astratti, derivazioni delle iperuraniche idee platoniche, sostituiti infatti da relazioni fisiche, osservabili, palpabili, spesso rese tali da un verbo, per eccellenza mobile, vivo: “rami a dismisura” (Stellezze, p.67), “le frontiere ad abitare” (ivi, p.33), “c’è stato del carnevale che ci ha sorpresi / comunque ci ha lasciati / stregoni più che stregati” (ivi, p.56), “il ciclo di una vita una falena / lo sbattere di ali è la prigione /  le cose sono fuori sono barriere” (Turbolenze in aria chiara, p.79), “non mi sento ora oggetto tra gli oggetti ma carnale / anche se adesso che la guardo / la poltrona mi offre le sue braccia aperte / ed è mio padre” (La rivoluzione è solo della terra, p.35).

Alcuni rilievi di poetica

“quell’io per essere me che scrivevo era costretto a negare la sua appartenenza al genere femminile, quel TU a cui mi riferivo e anche quel tutti-noi si rivelava essere di genere maschile! Non era quindi quell’universale a cui credevo sia di rivolgermi che di poter ‘esprimere’. (…) Ho cominciato a fare attenzione a che il ‘tu’ nelle mie poesie non fosse mai ‘generico’ anzi, mai ‘asessuato’. Come io scomparuvo nell’io così nel ‘tu’ ‘neutralizzato’ facevo scomparire altri e soprattutto altre. (…) Mi ‘impongo’ di dare nome e corpo al tu a cui mi riferisco. Nome sesso e quindi corpo.” ( da Dell’io e del tu senza corpo nella poesia delle donne, in Ulisse, LietoColle 2004)

“Sto pensando alla differenza tra un poeta che ‘canta’ e un poeta che scrive. Nel senso che all’origine non c’è solo il ‘cantore’ ma anche la figura dello scriba. / Altrettanto Sacra / forse lo Scriba ha a che fare di più con la Legge con il Libro / forse lo Scriba scrive la Parola di Dio o della Legge / penso alla Bibbia al Corano al Libro dei Morti etc. / ci sono poeti ‘scriba’ e poeti ‘cantori’ / poeti che hanno un rapporto con il Libro / e altri con l’Emozione”

“il Tacere il Silenzio serve per rapportarsi a se stessi e non agli altri (…) / (…) / Perché Capirsi è così importante? Così capitale? / Io ho così voglia di non capirmi ma di sentirmi. Di comportarmi.”

“ed io mi chiedo: possibile che la Voce Interiore sia sempre e solo Coscienza? / Sta sempre collegata alla Coscienza. Possibile che la Voce Interiore non possa essere il profumo della terra bagnata dalla pioggia, l’odore dell’erba secca…? / Poi Cacciari che dice: / “La Voce non ha luogo proprio” / Ma come è possibile se viene dal corpo?” (da Lettera del 24 luglio 2000, in Stellezze, p.18

“L’anima che è stata ceramica, argilla… polvere di terra… è un’immagine suscitata proprio dall’inizio del mio riavvicinamento ad una preistoria… quella delle donne… è stato un modo che mi ha fatta sentire in comunione con il lavorìo delle mani delle donne di allora… (avevo bisogno del tocco, del contatto) come anche il corpo che è stato vaso… (…) … quello che scrivo a volte è ‘più avanti di me’… viene da molto lontano e da più lontano arriva più mi sembra… indichi il futuro…  volte.” (ivi, Lettera del 24-25 maggio 2005)

“Ecco, che mi vengono in mente dei versi (…) / versi dettati o scritti con, o ri trascritti: poggiati sul foglio / e che per tutto questo appartengono a tutti, perché dicono qualcosa che ci appartiene /  appartiene alla nostra storia di umani // ed è questo che fanno / nostra fortuna e poesia // lodale per la loro congiunzione // (…) / Fortuna e ‘catena’ un tutt’uno. // (…) // Ma il cortile è quello della casa che fu dei miei nonni // (…) / alzarmi ora da lì non è più un andare incontro alla mia fortuna ma portarla, esserlo. / Come fosse questa una forma di maternità. / Io la sento. E la amo.” (da CLIMA VITAE, 19 maggio 2004, ivi, p. 26-7)

“il coraggio non usato per nascere / è ciò che canta prima di parlare” in Turbolenze in acqua chiara, p.76

“poesia è la lingua con cui non si può essere parlati / è l’ebbrezza / la guarigione / l’incontro” Onda, ivi,p. 115

Analisi

Da Stellezze, p.31

brū1cio pĕr3 diventā6re ̈asciūt8ta  novenario
1me tizzone spēn6 to  settenario
carboncī3no  quadrisillabo

Il primo verso inizia con “brucio”, verbo che, in potente postura iniziale col suo forte ictus primario, rende appieno la potenza vitale e distruttiva del fuoco; inoltre, nonostante la coniugazione alla prima persona nel tempo presente, l’assenza di un soggetto (io) nominato, quasi lo rende impersonale, fuoco assoluto, divino, in un pressoché present continous alla Stein, che ne sospende l’azione in un ‘perdurare’. E’ associato in solo apparente antitesi ad “asciutta”, cioè a una condizione di totale perdita d’acqua, quindi di vitalità: apparente, perché in realtà si tratta di un rientro diacronico in un rapporto causale, essendo l’assorbimento d’acqua necessaria conseguenza del bruciare; rimane comunque forte il senso di opposizione tra vita e morte. A ribadire quest’opposizione, ritorna “spento”, che, quasi ossimoro, uccide il senso di vivace energia contenuto ancora nel “tizzone”, che se è per definizione ormai finito, consumato, morto, però conserva almeno una punta ardente, un ricordo caldo bruciante del fuoco. Il “carboncino”, che in posizione terminale, forte come quella d’inizio, ribadisce – qui davvero senza attenuazioni – la materica consumazione avvenuta,  porterebbe quindi ad un congedo poetico nel senso di spegnimento, annichilimento. Ma ecco l’abbastanza consueto colpo di coda di Febbraro, che più che spiazzare il lettore, gli porge un segmento della molteplice contraddittoria non-riducibile-a-uno realtà, ancora una volta contro gli schemi, le convenzioni cieche, i dogmi.  Già “diventare” e il “per” finalistico erano una potente mediazione tra gli antipodi di  ‘vitalità-che-dà-la-morte’ e ‘privazione-fatale-di-chi-subisce-la-morte’, aprendo un senso di movimento metamorfico, di mutamento che si proietta, vivissimo, al futuro; ma è la doppiezza semantica del “carboncino”, strumento di forte segno, di fisicissima scrittura – non dimentichiamo gli esordi di Febbraro nella poesia visiva – che capovolge la condizione iniziale e indica – con grande vaghezza, certo, ma mai Paola è apodittica – la ‘salvezza’ o, meglio, ‘resurrezione’ nella poesia.
Che poi sia sottesa l’idea di una condizione ‘tragica’ (da sentire nella connessione all’antica ‘tragedia’ come tràgos-ōdìa, canto del capro che sarà sacrificato), una specie di  morte di qualcosa dello Scriba, perché sia messo in atto lo scrivere, è possibile:
“il coraggio non usato per nascere / è ciò che canta prima di parlare” (Turbolenze in aria chiara, p. 76) 

ROMA  p.32
22 gennaio 1999

Ĭn1 ŭn2 bar di viā5 Cavoūrottonario tronco

1̈̈  ̈hān2no rubā5to tutto ̈anche la schē12da.   tridecasillabo
1no quĭ3  ̈ in ŭn5  bar con le monē10te.   endecasillabo
Chĕ1 vuŏi2, lā3 ci ͡ ammāz5zano tūt8ti.    novenario
Ĕ1 2 3me stāi5  ̈ e cō7me stā9 Cār10lo?  endecasillabo

1, pĕr2 fortū4na che c’ē7 la mōr9te (decasillabo) + pēr1 fortū3na. (quadrisillabo)
Āl1tro nŏn3 si  pōs5sono  ̈inventā10re (endecasillabo) + ĕ1 nŏn2 ci  tōc4ca. (quinario)
Ĕ1 Valē3ria stă5 bene  ̈ e  Gianfrān10co? endecasillabo   

Ogni  verso è chiuso dal punto fermo. Un’affermazione-registrazione di realtà, non della (unica e certa) realtà.
Paola era affascinata dal “linguaggio scientifico, con i suoi assiomi, il suo procedere logico” perché per lei esprimeva “nella forma e nel contenuto, gli eventi nel loro accadere.”[i] Ma, anche, Paola, da Burroughs, aveva appreso la “magia” della scrittura alla sua origine: fare accadere, nell’accadere essa stessa come ‘cosa’ sacra:

“Burroughs è stato l’incontro con l’origine della scrittura (…): segno che è anche magico e mi ha detto, anche violentemente, quanto le parole scritte e dette possono fare anche del male perché le parole fanno.” Lettera di Febbraio 97, in Stellezze, cit., p.15-6

Una magia in qualche modo rievocata, quando, anche sulle orme di Gertrude Stein, Paola usa la parola per fare “irruzione” nel mondo reale, recuperandola dall’esilio dell’impalpabile ‘immaginario’. Purché la parola, come Stein le ha indicato, sia recuperata nelle sue reali potenzialità e abbandonata nelle sue debolezze:

Gli aggettivi non sono realmente e veramente interessanti. (…) perché dopo tutto gli aggettivi influiscono sui sostantivi e siccome i sostantivi non sono realmente interessanti la cosa che influisce su una cosa non troppo interessante è necessarimente non interessante.” “I verbi e gli avverbi sono più interessanti. In primo luogo hanno qualità molto bella e questa è che possono essere usati così erroneamente. (…) I sostantivi e gli aggettivi non possono fare mai errori non possono essere usati mai erroneamente, sia in relazione a ciò che fanno sia in relazione a come s’accordano o non s’accordano con qualunque cosa essi facciano. (…) verbi e avverbi e articoli e congiunzioni sono vivi perché tutti loro fanno qualcosa e fintanto che qualunque cosa fa qualcosa si mantiene viva.” Citazione di Gertrude Stein in  Giorgia Antonelli, Lessico inusuale: lo stile di Gertrude Stein, genio dimenticato, minima & moralia, 2-2-2019

Questa poesia mi pare costruita su strumenti logici, attraversati e trasformati da fulmini magici della scrittura. Se il primo verso con il titolo contestualizza (un soggettivo “qui” in un preciso bar di una precisa via di una precisa città) e sottolinea la particolarità dell’elemento individuale presente nel secondo (e parzialmente nel primo) verso, cioè una io-persona singola depauperata con atto aggressivo (furto) di qualcosa, lo si potrebbe ipotizzare come premessa minore di uno dei sillogismi più conosciuti (A è B, tutti i B sono C, quindi A è C); allora il terzo verso potrebbe essere la premessa maggiore con la generalizzazione dell’elemento individuale (“ci … tutti”) compreso di aggressione, questa proposta però ad un livello così alto (“ammazzano”) da farla diventare la nuova proprietà  da trasferire nella conclusione del quinto verso anche all’elemento singolo: “c’è la morte”.

Io in un bar sono derubata di qualcosa/
tutti sono derubati –  della vitaammazzati/
Io e tutti siamo nella morte.

Ed ecco i fulmini trasversali di magia. C’è un plurale indeterminato (“hanno rubato”, “ammazzano”) che sottintende un ‘loro’ aggressivo opposto all’‘io-noi’ aggredito. C’è poi, abbinato, un “qui”, di parziale zona franca, bar dove sta accadendo qualcosa, opposto ad un “là” sans merci di totale annientamento. Il furto individuale implica la privazione di un importante mezzo per comunicare, la “scheda” – telefonica, s’intuisce – e il ricorso ad una sorta di ‘placebo’, le “monetine”, quasi certamente limitate e insufficienti. Con quello che parrebbe un dettaglio di realtà residuale di accaduto, si introduce invece il filo rosso da seguire di un accadere agente: la comunicazione. Al telefono. Già in atto. Con le ‘monetine’, concretissima definizione oggettuale al posto di un possibile aggettivo come  ‘veloce’, ‘sintetica’, ‘minimale’.  Questo, davvero un importante topos stilistico di Febbraro. “Che vuoi” (sottinteso ‘farci, non c’è niente da fare’), è la saetta che squarcia brutalmente l’apparente quiete armistiziale del bar. Amplificata a fiamma da quell’apparentemente scontata consueta banale richiesta circa lo ‘star bene’ dei conoscenti: assurda, inutile, ipocrita, se l’annientamento non solo è stato già annunciato al terzo verso, ma lì già accettato, condiviso; tanto che, due versi sotto, la morte “c’è” e “per fortuna”. La morte propria – risposta del “tu” che sta dall’altra parte del telefono – e di Carlo, oppure di altri? Non importa. Importa invece l’altra apparente battuta consueta del sesto verso: più di così, ormai, “altro non si possono inventare”, non fosse che per quel: quindi “non ci tocca”. Cosa? L’impossibile recrudescenza (per cui posso chiudere occhi orecchi lingua e fingere il ‘mai accaduto’) o “la morte per fortuna” possibile di quel “Gianfranco” e/o “Valeria” dell’ultimo verso? Di nuovo: non importa. Come non importa se Paola pensasse specificamente alla società, o all’esistenza umana o a una qualche guerra. Ormai si è accampata, definita, terribilmente, la denuncia: la banalità del male.           

Testi

Da Stellezze
ACQUAFORTE  p.43

donne
intente a cesellare paragoni a dividere le pietruzze dalla terra a
scambiarle per conchiglie
a sentirci anche il mare
donne dentro tracce di perimetri scoscesi antri panorami
di civiltà passate eppure bombardate
e ci sono io che trascino lo sgabello vuoto
il guscio di lumaca
tutto quello che ora voglio
essere stata

FIAMMIFERO E MARMO p.52
se si trattasse non di scoprire la ferita ma la giuntura
io dentro il taglio ci sto da sola

p.60
mi sono disposta in atto di non cancellazione
come lumaca
visibile il suo percorso
a volte addirittura luminescente
16 ottobre

Da La rivoluzione è solo della terra
I p.49
a volte io credo così forte alla rotazione della terra attorno all’asse
e credo che questo a volte questa intermittenza
pensa
6 febbraio 1997
II p.50
la stanza
col tetto in alto e sotto i piedi
ha pareti di liana
selvagge le piume degli uccelli dal grande becco giallo e gli occhi
multicolori
sull’angolo del tetto c’è nido di rondine
e un muro è tutto lacrimato di sterco bianco e nero
e anche il suo profumo
19 febbraio1997
III p.51
lo straccio che dà frescura alla mia mente è di canapa ruvida
il lino degli asciugamani di Marsciano intatti quei colori
sembra per sempre
19 febbraio1997

Da Turbolenze in aria chiara
p.9
quanto è difficile entrarti
non per perfezionare e capire ma per saggiare le sponde del tuo foro
per misurare l’altezza delle acque

FIAMMIFERO p.110
e se non volessero le cose che noi pensiamo storte spaccate ferite se non volessero
ricomporsi
combaciare

TERRAZZA ROMANA p.119
s’è visto un giorno la mattina
congiungere certezze distanze secolari
s’è vista andare piano e poi tornare
una interezza prima
l’aria riposa sua intelligenza d’alba


[i] Ivi

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