Versioni e nota di Stefano Strazzabosco

Guadalupe “Pita” Amor (1918-2000), nata nel seno di una famiglia agiata, ultima di sette fratelli, nella sua prima giovinezza fu attrice e modella di pittori come Diego Rivera e Juan Soriano, e suscitò spesso scandali per la sua condotta spregiudicata e ribelle. Amica di Frida Khalo, Gabriela Mistral, Pablo Picasso, Salvador Dalí, Juan Rulfo e tanti altri artisti, antesignana del femminismo, famosa per il temperamento capriccioso e indipendente, oltre che per la sua bellezza fuori dal comune, esordì come poetessa nel 1946 col libro Yo soy mi casa. Le sue Décimas a Dios, che contengono chiare riprese da Sor Juana Inés de la Cruz, Francisco de Quevedo e Luís de Góngora, escono nel ’53, salutate dal patriarca della letteratura messicana Alfonso Reyes con la frase: “non fate paragoni, questo è un caso mitologico”. La forma metrica utilizzata, la decima (dieci ottonari a schema rimico fisso ABBAACCDDC), piuttosto diffusa nel Siglo de Oro, rimanda appunto a quel contesto barocco, e in Pita Amor si alterna ad altre misure tradizionali come ad esempio il sonetto; i temi, invece, sono principalmente quelli della solitudine, dell’angoscia esistenziale e del rapporto con Dio, come avviene in modo esemplare soprattutto nelle Decime. Nel 1960 la poetessa perde il suo unico figlio (nato l’anno prima) e si ritira a vita privata. Riappare negli anni ’70, quando ormai tutti la chiamano “l’undicesima Musa” (la definizione è di Salvador Novo): è spesso ospite di programmi televisivi e si fa conoscere per le molte stravaganze e intemperanze come, ad esempio, prendere a bastonate o a ombrellate chiunque le desse fastidio o non corrispondesse alle sue richieste. Muore nel 2000 per una polmonite trascurata. Di lei, lo scrittore Juan José Arreola lasciò detto: “era un ciclone, un meteorite, una forza della natura. Arrivava Pita ed era come se si scatenasse un temporale con saette e lampi”.

I testi che presentiamo sono tratti da: G. Amor, Décimas a Dios, Fondo de Cultura Económica, México 1953.

Inventarti, sì, è possibile…
difficile è sostenere
la potenza del tuo essere
assoluto, intangibile.
Che tu rimanga invisibile
non è il mistero più fondo.
Esaltata trovo il fondo,
ma cessa l’esaltazione:
la mirabile visione
nel mio pensiero nascondo.

***

Io vivo sempre pensando
come sarai, se tu esisti;
di che essenza ti rivesti
quando ti vai palesando.
Devo intenderti tacendo
per trovarti nello scuro?
o il cammino è sicuro
della fede luminosa?
L’esaltazione è grandiosa,
o il silenzio è già maturo?

***

Non credo in te, ma ti adoro.
Che sciocchezza sto dicendo!
Forse vado presentendoti
e per superbia ti ignoro.
Se sono stanca, ti imploro;
ma quando mi sento forte,
io modello la mia sorte,
costruisco la mia vita.
Povera, sono finita,
ho inventato la mia morte!

***

Dimmi, cos’è che pretendi
col silenzio tuo e l’assenza?
Dove sta la tua clemenza,
se t’imploro e tu non scendi?
In che modo tu m’intendi?
Tu mi crei di fango immondo,
e in altro fango sprofondo,
e sono, perciò, imputabile.
Dio eterno ed inspiegabile,
che mistero è il nostro mondo!

***

Perché con l’intelligenza
ti nego recisamente,
e nel mio cuore rovente
palpita già la tua essenza?
Se t’ispirassi clemenza
e la mia pena sapessi,
dal mio cuore te ne andresti
lasciandolo desolato;
e il mio cervello offuscato
di presenza invaderesti.

***

L’angoscia e la vanità,
insieme, ti hanno inventato,
e dopo ti hanno obbligato
alla sola verità.
Volle la fatalità
darmi te in eredità;
ma mi bracca la tua assenza
e mi spaventa la sorte,
ché morirò senza scorgerti
né capire la tua essenza.

***

So che non sei rivelabile,
che è stupido definirti,
che si può solo sentirti,
arrivando all’ineffabile.
Ma la mia brama indomabile
pretende prove esteriori,
ambisce a che i miei dolori
abbiano un premio immediato.
Mio Dio, ti propongo un patto:
che al più presto mi innamori!

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