La maestra rural

Molti anni fa viaggiavo su un bus di linea da San Pedro de Atacama verso Santiago del Cile. Ad Antofagasta, la prima tappa, incappai in un convegno su Gabriela Mistral. Da tempo avevo cominciato la lettura della sua opera e mi accodai alle persone che partecipavano a quell’evento. Da poco era finita la dittatura, e il paese si avviava alla pratica della democrazia con slanci e resistenze. La riscoperta di un patrimonio d’arte e di cultura costituiva il volano per uscire dai durissimi anni di Pinochet.
Scendendo a sud lungo la Panamericana ci si imbatte nella piccola città di La Serena e, da lì, si raggiunge facilmente Vicuna, il luogo natale di Gabriela Mistral, nella Valle di Elqui, un luogo speciale per storia, clima e paesaggio. Qui infatti si può trovare un appiglio per comprendere la sua idea di patria che non corrisponde al Cile intero, certamente non include quello delle inamabili grandi città, peraltro senza stile architettonico, come Santiago, conosciute nell’ora della maturità, ma quella ‘patria’ che è un’altra cosa: l’infanzia, il cielo, la terra e la sua atmosfera, quel terreno cioè da cui si sprigionano altre patrie. Dall’archetipo affettivo di Elqui si irradia – con un movimento di proiezione universalistica – un più complesso sistema di riferimenti patrii, che rinnovano nell’alterità, in una spazialità variegata, l’ambiente sentimentale e morale della terra natale: al di là della patriecita della Valle di Elqui, spiega Gabriela, esiste ‘una patria campesina universal’, che ben oltre le frontiere cilene e americane si può riconoscere in un paesaggio rurale di Provenza, come nelle campagne di Sestri in Liguria dove Mistral eserciterà l’ufficio di console per l’Italia.
Perché partire da un riferimento geografico per dire qualcosa di questa figura, così variegata e importante, della cultura universale del Novecento? La Valle di Elqui e il suo arcaico orizzonte rurale costituiscono il punto di partenza per definire le ‘identità transfughe’ di Gabriela Mistral, messe in gioco dall’esperienza del viaggio e attraversate dal segno distintivo della frammentazione e della pluralità.

Gabriella Mistral Console

Sono nata a Vicuña, provincia di Elqui, il 7 aprile 1889. Mio padre e la mia unica sorella erano maestri. Cominciai a insegnare, come maestra rurale, a quindici anni. Ho insegnato fino ad oggi. Ben presto passai all’insegnamento nelle scuole medie. Ho svolto la mia attività in vari luoghi, lungo tutto il mio paese, fino allo stretto di Magellano.

Sono cristiana e integralmente democratica. Credo che il cristianesimo, con il suo profondo senso sociale, possa salvare i popoli. Ho scritto come chi parla nella solitudine. Infatti sono vissuta molto sola dovunque. I miei maestri d’arte e di vita: la Bibbia, Dante, Tagore e i russi.

Dirigo una scuola in Messico e un’altra nel Cile, incerta fra le due… Il pessimismo in me è un atteggiamento di malcontento creativo, attivo e ardente, non passivo. Ammiro, senza professarlo, il buddismo, che per qualche tempo conquistò il mio spirito. Il Messico mi ha dato, con la sua profonda impronta spagnola – architettura, sensibilità, raffinatezza – il rispetto e l’amore per la Spagna… Vorrei lasciare l’insegnamento per riposarmi e vivere in campagna leggendo e scrivendo. Vengo da una famiglia di contadini e sono una di loro. I miei grandi amori sono la fede, la terra, la poesia…

Aveva trentaquattro anni Lucila Godoy Alcayaga quando scriveva queste parole per introdurre una piccola antologia delle sue poesie e già da tempo si firmava, anche negli scritti giornalistici, con lo pseudonimo di Gabriela Mistral, in onore di Gabriele D’Annunzio di cui ammirava la scrittura poetica, del vento mistral che discende dalle cime e del poeta occitano autore di Mirèio, Federico Mistral, che aveva vinto il Nobel nel 1904, quando la maestrina Lucila intraprendeva la sua carriera di studio e di insegnamento.
Questo suo inespugnabile naturalismo cristiano si riversa nella definizione di un sentimento del tutto interiorizzato della patria cilena come organismo fisico e non burocratico-politico, un sentimento che erompe da quella divaricazione concettuale tra “patria”, come categoria storica, e tierra, lugar, come elemento naturale, tracciata dalla Zambrano nelle pagine dedicate a Los exiliados nel libro I Beati:

Il rifugiato cammina tra le macerie. E in loro, tra loro, cammina nelle macerie della storia.
La Patria è una categoria storica, non la terra o il luogo.
La Patria è un luogo di storia, terra dove ogni giorno è stata seminata una storia, la cui crescita, più di quella di ogni altra storia è stata calpestata.

Gabriela Mistral si considera benevola madre dell’America indigena, giocosa cuentamundo, prodiga di consolatorie filastrocche per emarginati bimbi meticci, ma padrona anche di una parola tagliente, con l’imprecazione o l’indignata rivendicazione sempre a fior di labbro. Con l’arma affilata della sua puntualità verbale, della sua visione del mondo precocemente scolpita dall’esperienza del dolore, ma mai arresa alla disfatta, la poetessa viaggiò prima e oltre che in Europa, in lungo e in largo nella sua America mestiza, abbandonando ad un irrefrenabile impulso nomadico il suo corpo di ‘ebrea errante’, come si definì.
Si sposta lungo tutto il Cile con l’incarico di ispectora e profesora di castellano e historia; è il tempo in cui comincia la strada della scrittura e della riflessione sulle responsabilità educative che percorrerà nei cinquant’anni a seguire.
Da Antofagasta a Los Andes, fino a Punta Arenas, come direttrice del liceo della provincia dell’Antartide cilena, poi a Temuco, quando Pablo Neruda vi era studente, e a Santiago.
Josè Vasconcelos, ministro dell’Educazione in Messico e poeta egli stesso, la chiama nel 1922 a collaborare al Piano di Riforma Educativa e la induce a mutuare con riflessioni di carattere politico, dedicate soprattutto alle donne, il suo pensiero pedagogico.
Nel 1924 viaggia in Europa per la prima volta e pubblica a Madrid Ternura, una raccolta di poesie dedicate ai bambini. In patria aveva già una certa fama per aver pubblicato la sua prima raccolta, Desolación.

Ora che giungo, orfana, la tua zona per segni
confusi investigando,
non distogliere il volto, non spegnere la lampada;
non durare nel silenzio!
Non chiudere la tenda perché aumentano
la fatica e l’amarezza;
ed è inverno, e c’è neve e la notte si popola
di pazzi sogghigni.

Come molti intellettuali latinoamericani inizia anche un’attività di console presso città d’Europa e negli Stati Uniti. In Italia non esercita questo incarico, se non dopo la guerra, per le sue posizioni antifasciste. Quando la politica, come in Italia, si percepisce in ogni luogo e costituisce “atmosfera morale”, che si è profondamente insediata nelle architetture della Roma classica, non resta che prendere le distanze da Roma stessa. Nel rifiuto di Roma agisce proprio l’insofferenza del poeta per l’iconografia del potere, della grandezza dell’impero, ulteriormente intorbidita “dal paseo del fascio por las calles”.
Non c’è dubbio che con le terre mediterranee la Mistral avesse attuato un’esperienza di riconoscimento elettivo immediato, di proiezione sentimentale esclusiva. Inquinata negli anni ‘20 dalla macchia del fascismo, le cui risoluzioni furono all’origine dello spostamento improvviso nel ’32 della poetessa dal seggio consolare a Napoli a quello, assai meno gradito, di Madrid, quell’esperienza si prolungherà negli anni ’50, quando gestì l’ennesimo incarico diplomatico dalla residenza di Rapallo.
Sono state da lei così amate, le terre della Provenza e di Italia, da tornare in diversi spaccati della sua poesia, come nell’Adiós di Vagabundaje, sezione di Lagar, ultima raccolta di poesie, apertamente intitolata alla tematica del distacco.

Adiós la tierra de cinco años,
Provenza sin melancolía,
alegre del claro aceite,
de felibres y romerías,
aunque te quiero sol y viento
y come joya me bruñías
tu padre-río ya lo dejo
aunque su silbo ya fuese mío.

Liguria matrona y doncella
donde tan dulce se dormía,
donde tan dulce se marchaba,
y sin acidia se vivía:
también me voy, también de ti,
aunque fui tuya y eras mía.

Addio terra di cinque anni,
Provenza senza malinconia,
lieta dell’olio limpido,
di felibri e pellegrinaggi,
anche se t’amo in sole e in vento,
se come gemma tu mi brunivi,
già abbandono il fiume-padre,
se pure il suo canto fu il mio.

Liguria matrona e fanciulla,
ov’era sì dolce dormire,
così dolce il camminar
e senza pigrizia la vita:
anche te lascio, anche te,
e pure fui tua e tu sei mia.

Per interessamento dell’amica argentina Victoria Ocampo, scrittrice ed editrice, pubblica a Buenos Aires Tala, nel 1938, e devolve gli introiti agli orfani della guerra civile spagnola.
In questa raccolta la sua scrittura si fa più ermetica e più complessa, densa di ricercate simbologie e di immagini esuberanti.

Diventavamo tutte regine,
di quattro regni sul mare;
Rosalia ed Ifigenia,
e Lucila con Soledad.

Nella valle di Elqui, cinta
da cento monti e forse più,
che, come offerte e tributi,
ardono in rosso e in zafferano.

Con Pablo Neruda

Tuttavia molti critici considerarono Gabriela Mistral come un’autrice che si muoveva tardivamente nell’ambito degli ormai superati canoni della poesia modernista, punita perciò con l’esclusione dall’importante raccolta della lirica cilena del 1935 e allontanata con ancor più disdegno, dall’olimpo poetico delle avanguardie dopo l’assegnazione del Nobel nel 1945, prima donna latinoamericana ad essere insignita di tanto riconoscimento.
Si apprezzava in lei la voce di un’altissima poesia e, insieme, la sobrietà, l’indipendenza e l’onestà poetica, ma senza che questo aprisse spiragli allo studio critico della sua opera.
Solo negli anni settanta comincia la riscoperta della sua poesia, prima di tutto per l’esigenza della cultura cilena di contrappesare la mitizzazione dell’onnipresente figura di Pablo Neruda, e poi per l’apertura della critica femminista a tutti gli aspetti innovativi e anche trasgressivi, colpevolmente elusi dalle scritture egemoniche dell’establishment intellettuale nazionale.
Attraverso questa nuova aperta lettura si scoprono poco a poco i temi fondanti della sua poetica, come il ricordo che attraversa la sezione di Tala intitolata Saudade, con la parola che indica nostalgia con rimpianto e solitudine. Il ricordo è lo stimolo essenziale, come per Proust, per afferrare e trattenere il tempo.
Riceve premi e riconoscimenti, una laurea honoris causa all’università di California, l’incarico di console in Messico, a Napoli, Cuba, New York.
La già citata ultima raccolta, Lagar, si apre con una poesia, La otra, L’altra, che è indicazione per un’apertura alle specificità e alle differenze dell’approccio femminile al mondo.

Cerimonia del Nobel del 1945



Lasciai che morisse,
rubandole le mie viscere.
Si estinse come l’aquila
che non è più nutrita.

Smorzò il battito d’ale
e si piegò afflosciata;
cadde nella mia mano
la sua favilla esausta…

La scrittura poetica lotta contro il suo doloroso lirismo, comprime il verso e l’idioma per avventurarsi nelle profondità e concentrare in materia pura la parte più segreta di sé, la parte duplice e instabile, ansiosa e staccata, favolista del mondo, cuentamundo e desviadora, errante in un linguaggio che pare stringere la mano al misticismo.
D’altronde, come la Zambrano, aveva dedotto dalla lettura del Vecchio Testamento, il motivo dell’esodo e del deserto; una mistica del viaggio che attinge a Teresa d’Avila e a Juan de la Cruz e che vede il viaggio come ‘distacco’ dalla ‘notte oscura alla più chiara mistica’. Nella mistica luminosa di questi santi Zambrano vedeva il collegamento estremo delle “viscere” di cui è sempre fatta la poesia con l’oggettività che si nutre degli stimoli della materia. “La poesia è sempre stata cosa della carne, dell’interiorità della carne, delle viscere”, dice la filosofa spagnola nel suo libro La confessione come genere letterario.
La poesia di Gabriela Mistral si fa proprio in questa direzione piena della sostanza delle cose, alla ricerca di un’unità, di un tempo originario e mitico che non disdegna il mondo impuro della materia, perché in esso si mostrano le teofanie della Terra.

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