Efrain Huerta

Per dare luce a Efrain Huerta, nella pubblicazione edita da Il Ponte del Sale nel 2024, credo che la migliore offerta sia pubblicare la postfazione di Stefano Strazzabosco che ha curato del volume la selezione, le versioni, la traduzione (amf)

Pochi poeti come Efraín Huerta hanno saputo inventare uno stile così unico da resistere al passo del tempo, e continuare a porsi come un riferimento per chi ama la poesia, le imprese singolari e i coccodrilli.
Dopo aver scritto per tutta la vita versi impegnati e tribolati sull’amore, la vita urbana, la solitudine, i margini, il passato preispanico, il Messico profondo, il Comunismo e la rivoluzione, di punto in bianco Efraín Huerta, folgorato dallo sguardo di una Musa imprevedibile, si mette a comporre testi di pochi versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici, e li battezza poeminimi: in apparenza scherzi, battute, precipitati o guizzi, in realtà capolavori del trobar brevissimo, quello che – se riesce – non dà scampo al lettore. Siamo tra la fine degli anni ’60 e i primi ‘70: il ’68 messicano è terminato in un bagno di sangue con la strage di Tlatelolco; l’operazione Condor sta scaldando i motori e di lì a poco gli Stati Uniti di Kissinger e di Nixon si intrometteranno pesantemente nella politica dell’America Latina, imponendo i regimi dittatoriali che martorieranno il Cile, il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, il Paraguay, la Bolivia e buona parte dell’America centrale. Huerta ha circa 60 anni, subisce un’operazione di laringectomia, non ha mai ricusato la sua fede stalinista – pur essendo cosciente di cosa significhi, e in segno di sfida – e come poeta ha già pubblicato i suoi libri più importanti, che sono caduti nell’ombra. Il suo amico e coetaneo Octavio Paz è famoso in tutto il mondo, mentre Huerta assomiglia sempre di più a uno dei relitti che si aggirano per le strade di Città del Messico, e che lui stesso ha descritto nel suo capolavoro Los hombres del alba (1944): e invece arriva la zampata magistrale, la repentina metamorfosi da poeta “serio” in poeta “sauro”,[1] che lo consegna alle future generazioni di lettori – tra cui i giovani Roberto Bolaño, Mario Santiago Papasquiaro e gli altri infrarealisti, che lo adorano – come un esempio da seguire e da rispettare: una voce che non parla di “alterità” o di “enigmi”, ma che restando sempre rasoterra è in grado di alzarsi in un volo tutto suo. Ecco cosa scrive lui stesso nel 1980, ripercorrendo la genesi e la natura della sua invenzione:
“Il poeminimo sembra facilissimo (chiunque sa farlo), ma gli imitatori hanno scoperto che è diabolicamente difficile.
Per farlo è necessaria una spontaneità diversa da quella del meditato epigramma, e un maligno tocco poetico che lo colloca a cent’anni di luminosa oscurità dall’haiku; non è nemmeno un aforisma, né un apoftegma o un dogma. Per giungere o quasi a un accordo, ho inventato il vocabolo apodogma – e tutti così poco tranquilli.
Dislocare e alterare; creare, è l’unico segreto di questa singolare maniera di esprimere riferimenti materni[2] senza arrivare mai agli estremi lirici e delittuosi del vaffanculo in sé e per sé.
José Emilio Pacheco e Carlos Monsiváis li compresero fin dal primo cazzotto – un colpo basso, a tradimento – a prima vista. Altri, amici e nemici, li elogiano per inerzia e cercano morbosamente di imitarli. Impossibile. Nel mio libro del 1974 Gli erotici, il poeminimo che ha originato questo flusso è collocato al posto d’onore e con la data ben chiara. Già un anno prima, in Poesie proibite e d’amore, un grappolino di poeminimi era stato come un piccolo petardo buttato fra i piedi della gente. La cosa cominciò a mandare fumo e provocò l’incendio che precedette il boato quando apparvero, quasi di fila, Circuito interiore e i letali 50 poeminimi, libriccino, quest’ultimo, introvabile.
[…] Quando pubblicai le Poesie proibite, scrissi dei chiarimenti impertinenti. La parte corrispondente ai poeminimi dice così: «…per molto tempo ho supposto con ingenuità che queste brevi poesie potessero essere qualcosa di simile a degli epigrammi frustrati. Errore. Mia figlia Raquel (8 anni), leggendone alcuni dichiarò quanto segue: Sono cose che fanno ridere. Poco dopo, in casa di un famoso pittore, Octavio Paz (58 anni), li definì in questo modo: Sono barzellette. Mi fece un piacere enorme che, separati da mezzo secolo di esperienza e di cultura, Rachelito e Octavio avessero coinciso».
(Raquel ora ha 17 anni. Octavio e io ci aggiriamo sui 67).
[…] Molti poeminimi hanno una data. Vorrei così significare storicamente, se si vuole, perché vennero scritti. Altri si chiamano Plagio ics o Plagio zeta. Il fatto è che mi dà fastidio che una bella immagine o una frase di legittima brillantezza cada in mano a un poeta incapace di usarla. Allora prendo la frase o l’immagine e l’arrotondo, le do ritmo, riparandomi all’ombra delle parole in fiore di un vecchio nevrotico chiamato Federico Nietzsche: So che nella mia colombaia ci sono colombe foreste, ma tremano quando ci metto le mani sopra.”[3]
L’ispanista Isabelle Pouzet, che si è occupata a più riprese dell’opera di Huerta, ha cercato di chiarire quali siano le caratteristiche costitutive di questi testi.[4] Le prime sono ovvie: il numero molto limitato di versi, l’estrema brevità degli stessi (spesso anche solo una parola), l’appartenenza al genere poetico per il fatto di riprodurne rime, ritmi e disposizione grafica. Quanto ai contenuti, il tono è generalmente umoristico – vale a dire, chiosiamo noi chiosando Pirandello, vicino a quel sentimento dei contrari che per il grande siciliano ne è l’essenza –, come del resto avevano subito rilevato sia l’ingenua Raquelito sia il futuro Nobel Paz. Ma spesso l’aspetto più saliente non attiene tanto ai testi in sé, quanto al loro rapporto col non detto o l’alluso, in quello spazio ibrido che si è soliti chiamare intertestualità: lo spazio che in ambito poetico è stato percorso, tra gli altri, da Ramón Gómez de la Serna con le sue grecherie e dal langage cuit di Robert Desnos, e in sede critica indagato, per esempio, da Julia Kristeva (“ogni testo si costruisce come un mosaico di citazioni, ogni testo è assimilazione e trasformazione di un altro testo”) e da Gérard Genette (“l’intertestualità è la presenza effettiva di un testo in un altro testo”).[5] Seguendo soprattutto quest’ultimo, e sottolineando come dunque ci si trovi in una dimensione prettamente parodica, Pouzet distingue tra ipotesti (quelli di partenza) e ipertesti (nel nostro caso, i poeminimi), osservando che l’ipertesto tende a conservare lo stile, cioè il tono e la forma, dell’ipotesto, variandone il soggetto, l’oggetto o altre componenti. In effetti, tolti i poeminimi che non rientrano in questa categoria, sono molti quelli che riprendono proverbi, frasi fatte, espressioni idiomatiche, detti popolari o passi letterari che vengono modificati per deformazione o sostituzione di una o più parole dell’ipotesto, con conseguenti alterazioni semantiche nel testo d’arrivo. Le deformazioni, continua la Pouzet, possono essere per addizione, sottrazione e/o sostituzione, come nel poeminimo Ridetto: “Di notte / Tutti i / Poegatti / Sono / Bigi”, dove il proverbio “di notte tutti i gatti sono bigi” (o grigi, o neri, a seconda delle versioni) viene modificato nel soggetto (il mot-valise “poegatti” invece di “gatti”) e nel titolo (“ridetto” invece di “detto”, sinonimo di “proverbio”).
Simili slittamenti morfologici con conseguenze di tipo semantico sono all’opera anche in poeminimi il cui ipotesto non è un proverbio, ma qualcos’altro. Così, ad esempio, in Errata corrige I e II a Huerta è sufficiente modificare leggermente una sillaba per ottenere l’effetto desiderato, facendo sì che “sessagenario” e “possessivo” diventino rispettivamente “sessogenario” e “possexyvo”. Più in generale, il viraggio verso l’ammiccamento erotico è un tratto distintivo di molti di questi testi, e assume un significato particolare ricordando che Huerta aveva scritto poesie di tema amoroso; solo che adesso questo tema viene a sua volta rivoltato e fatto oggetto di divertimento, o addirittura di scherno. Così, il famosissimo micro-racconto dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”, diventa il prosaicissimo “Quando / Si svegliò / La / Putosaura / Era / Ancora / Lì”; e il tipo di versificazione, con quei versi costituiti da una sola parola aurata dal bianco e dal silenzio (e spesso una data in calce), non può non far pensare alle poesie di guerra di Ungaretti, passate a loro volta a un registro opposto. In questo senso, la poesia breve e parodistica di Huerta si pone sotto il segno del rovesciamento carnevalesco studiato da Bachtin, giacché tende appunto a sovvertire un ordine costituito per farne emergere un altro, solitamente taciuto o censurato, con effetti di smitizzazione e di demistificazione.
In altri casi ancora, il gioco di ribaltamento si dà a partire da frasi colloquiali di alta frequenza, cioè che tutti hanno detto o sentito almeno una volta nella vita. Così, in Amore, l’espressione “il più presto possibile” diventa perfidamente “Il meno / Presto / Possibile”; e in Civetteria la foto che il soggetto mostra all’interlocutore è “Di quando / Ero / Vecchio”, con un fulmineo testacoda temporale alla Benjamin Button.
Altri poeminimi, poi, sono semplicemente dei paradossi che non cercano la profondità filosofica, ma la leggerezza del (tragi)comico; come Immenso dramma, in cui lo sconcerto dell’amante deriva dall’amara constatazione che “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”.
Nei testi di taglio più personale l’effetto comico è stemperato dalla prevalenza di un tono tra il meditativo e il malinconico: così è, per esempio, in Giro I e II, o ancora nel prodigioso Altezza. Proprio da vertigini di questo tipo si capisce quanto profondo fosse l’abisso nel quale si accendevano quei miracolosi cortocircuiti, e insieme quanta umanità esprimessero, sotto la sornioneria. Allo stesso modo, i poeminimi scaturiti da fatti storici, sempre e quando siano ancora riconoscibili, possono continuare a testimoniare tanto l’evento in sé quanto il dolore e la rabbia di Huerta; come in Lesbo, nel sinistro Ordinamento o nel memorabile Pinochet: “Ah / Maledetto! / Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”.
È evidente che una poesia così segnata dal contesto storico, culturale e linguistico in cui è stata scritta può subire dei danni irreparabili quando passa a tempi e luoghi differenti, e soprattutto ad altre lingue: perché se è sempre possibile inserire delle note a piè di pagina per chiarire quali siano le allusioni nascoste dietro a un plagio, un personaggio o un fatto (ne abbiamo messe il meno possibile), quando si tratta di giochi puramente linguistici il rischio di fallimento è altissimo, e i miracoli rari. Per fare solo un esempio fra molti, il detto spagnolo “a lo hecho, pecho” (letteralmente: “a ciò che è stato fatto, petto”) corrisponde grosso modo al nostro “cosa fatta capo ha”. Ora, un poeminimo intitolato (?), qui non riprodotto, recita appunto “A / Lo Hecho / Pechos” (letteralmente: “a ciò che è stato fatto, tette”): dove il semplice passaggio dell’ultima parola dal singolare al plurale regala all’ipertesto un tono erotico inedito che in italiano, partendo dal nostro detto, non si può restituire (“cosa fatta tette ha”…?). Perciò quest’antologia riunisce circa la metà dei poeminimi composti da Huerta: quelli in grado di saltare fino a noi senza perdere troppi pezzi per strada, o di sfasciarsi del tutto. Il caso limite potrebbe essere quello di Ex libris (qui presente), dove la sequenza di tre infiniti in cui a variare è una sola vocale (“Creer / Crear / Croar”) diventa “Credere / Creare / Crocidare”: ma con quante perdite.
C’è un ultimo punto sul quale forse è utile tornare. Nelle parole dell’autore riportate più sopra, non si possono non notare delle espressioni che sembrano appartenere a un medesimo campo semantico: mi riferisco, per esempio, al “maligno tocco poetico”, al “colpo basso, a tradimento”, al “vaffanculo in sé e per sé” (cui non si arriva), al “cazzotto”, ai “chiarimenti impertinenti”, al “fastidio”. Sono frammenti di un discorso combattivo, irriverente, perfido, umorale, ribelle che rigetta la retorica e gli stili imperanti per cercare di catturare l’autentico a modo suo, nello stesso momento in cui lo dichiara impossibile. Huerta conferma così la sua natura di poeta “morto dal ridere, d’amore, d’adorazione e di desiderio”,[6] specie laddove “ogni poesia è un mondo. Un mondo e a capo. Un territorio recintato, in cui non deve penetrare chi è del tutto privo di documenti, chi è vuoto dentro, gli spassionati, i censori, gli scatenati del lirismo. Un poeminimo è un mondo, sì, però a volte sento che ho scoperto una galassia e che gli anni luce non contano se non come puro riferimento, un riferimento molto vago, perché il poeminimo è dietro l’angolo o alla prossima fermata della Metro. Un poeminimo è una farfalla pazza, catturata in tempo e in tempo sottomessa al rigore della camicia di forza. E non lo si tocchi più, perché è così che va. La cosa matta, l’imprevedibile, ciò che ti cade addosso o anche solo sfiora il tuo stretto comprendonio – ed è fatta”.[7]


[1] cfr. il poeminimo La verità: “Io non sono / Un poeta / Serio / Sono / Un poeta / Sauro”. Non a caso, Huerta era detto anche “il grande Coccodrillo”.

[2] riferimenti materni: espressione non del tutto chiara; ma si tenga presente che in Messico “mentar la madre” corrisponde all’italiano “mandare a quel paese”.

[3] cfr. E. Huerta, Estampida de poemínimos, Premiá, México 1980; pp. 9-11.

[4] cfr. I. Pouzet, Los refranes y los poemínimos: análisis de un relación intertextual, «Connotas. Revista de crítica y teorías literarias», n. 12, Universidad de Sonora, México 2011; pp. 79-97.

[5] cfr. J. Kristeva, Séméiôtiké. Ricerche per una semanalisi (1969), Feltrinelli, Milano 1978, p. 11; G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982), Einaudi, Torino 1997, p. 7.

[6] cfr. E. Huerta, Transa poética, Ediciones Era, México 1980; p. 12.

[7] ibidem, p. 11.

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