Le recenti preoccupate dichiarazioni di Liliana Segre sull’oblio cui sarebbe destinata la Shoah hanno toccato il delicato tasto della memoria di eventi storici, che sarebbe destinata a illanguidire gradualmente fino a svanire definitivamente con il passare del tempo. Ospite della trasmissione televisiva “Che tempo che fa” del 23 ottobre 2022, la senatrice a vita ha dichiarato: «So, con pessimismo, ma anche con realismo, che nel giro di pochi anni la Shoah sarà una riga nei libri di storia, poi non ci sarà più neanche quella». Ha poi ribadito il concetto il successivo 28 dicembre, nel corso di un’intervista all’autorevole “The Observer”: «Che l’Olocausto possa finire per trasformarsi in una sola riga nei libri di storia è il mio incubo personale. Non è pessimismo, ma il frutto dell’osservazione».
Il cruccio di Liliana Segre deriva dalla convinzione, largamente diffusa, secondo cui una volta scomparsi gli ultimi testimoni diretti della Shoah, verrà meno anche la prova più convincente dell’infamia dei campi di sterminio e degli orrori che vi si sono perpetrati. Infatti, la viva parola di chi è sopravvissuto a quelle atrocità conferisce alla testimonianza un’autorità davanti alla quale ogni persona in buona fede non può che inchinarsi rispettosamente e il venir meno di quella voce porta via con sé la prova più diretta e convincente. Allo stesso modo, il gesto concreto di scoprire l’avambraccio e mostrare l’infamia del numero marchiato a fuoco sulla viva carne dei prigionieri dagli aguzzini di Auschwitz, possiede un’immediatezza e un’efficacia che nessuna foto o filmato potrà mai eguagliare.
Il braccio con il numero impresso a fuoco e la memoria individuale condividono il limite di poter essere chiamati in causa solo fino a quando i loro «portatori» sono in vita e quando questi ultimi non ci saranno più («nel giro di pochi anni», prevede Liliana Segre), anche la loro parola e il loro gesto finiranno di svolgere la preziosa funzione di testimonianza attuale e coinvolgente. A ben guardare, però, anche quando un sopravvissuto ad Auschwitz riferisce in prima persona fatti accaduti a lui personalmente, ai quali ha assistito direttamente e che riporta con tutti i dettagli, non tutti credono a quel che riferisce e, come tristemente noto, non mancano menti sopraffine pronte a degradare a falso storico l’esistenza dei Lager e a frutto di un nebuloso complotto giudaico mondiale la produzione ad arte di quelle attestazioni. Diviene allora doveroso chiedersi: che ne sarà di quelle testimonianze quando non saranno più «vive» e saranno divenute un semplice documento oggettivo tra gli altri, non più in grado di «parlare», ma al quale dovrà piuttosto essere prestata la voce? Conserverà, nella nuova forma di prova oggettiva, ad es. di un filmato, la capacità di convincere quanto la testimonianza diretta? E potrà mai, come prova reale ma muta, restituire con la stessa efficacia della testimonianza diretta, lo strazio di uomini, donne, vecchi e bambini che sono entrati in quei campi come esseri umani e ne sono usciti sotto forma di denso fumo, affinché nulla restasse di loro e del loro passaggio su questa terrà? Le riflessioni amare di Liliana Segre, con tutto il peso che possiedono anche grazie alla disillusa lucidità della sua testimonianza, lo escludono – e sembra difficile darle torto.
I
All’attento ascoltatore/lettore della Senatrice a vita non sfugge la profonda analogia della sua argomentazione con la questione posta da Kierkegaard nelle Briciole di filosofia (1844) a proposito della differenza, riferita al cristianesimo e alla fede in Gesù, tra il discepolo di prima e quello di seconda mano. Diciamo subito che la diversità dei piani – puramente storico quello del testimone della Shoah, rigorosamente religioso quello inteso da Kierkegaard –, comporta una differenza qualitativa, che circoscrive la portata dell’ analogia evocata e sulla quale ora ci soffermiamo.
Il discepolo di prima mano, e cioè quello contemporaneo a Gesù, ha avuto modo di seguirlo nelle sue peregrinazioni, di ascoltare le sue prediche, di sedere con lui a tavola, di assistere ai suoi miracoli, di condividere con lui gioie e amarezze, di respirare l’aura di sacralità che, presumibilmente, egli diffondeva intorno a sé. Tutte queste esperienze accomunanti fatte dai discepoli non potevano che facilitare il sorgere e il consolidarsi in loro della fede nella dottrina predicata dal Maestro. Quale evidenza maggiore e quali condizioni più favorevoli e agevoli di quelle offerte dalla presenza diretta nei luoghi in cui Gesù operava e dal poter assistere agli atti straordinari con cui egli andava rivelando la sua divinità?
Ben diversa appare, invece, la situazione dei discepoli di seconda mano, e cioè di coloro che si sono imbattuti nel cristianesimo dopo la morte di Gesù. Essi non hanno potuto avvantaggiarsi della contemporaneità con lui e appaiono pertanto penalizzati nei confronti di coloro che lo hanno visto all’opera. Non avendo avuto la fortuna di assistere in prima persona al manifestarsi della natura divina di Gesù, il discepolo di seconda mano poteva giungere a credere in lui solo per mezzo di un impegnativo sforzo supplementare. Se al discepolo di prima mano bastava la semplice contemporaneità e familiarità con Gesù per essere efficacemente spinto a credere, quello di seconda mano non ha conosciuto quel vantaggio e ha dovuto sopperire a tale mancanza basandosi unicamente sulla verità delle testimonianze altrui. Il passaggio alla fede, diretto e lineare per gli uni, è divenuto indiretto e discontinuo per i discepoli di seconda mano che, per credere, hanno dovuto introdurre una variazione nel processo spirituale che conduce alla fede. I discepoli non contemporanei (siano essi di seconda, di terza, di quarta mano…, etc., per giungere fino a noi), per credere hanno dovuto fare i conti con un ostacolo ignoto alla generazione dei contemporanei, sicché lo sforzo da essi prodotto si aggiunge alla fede, nobilitandola e arricchendola con l’apporto di un contributo personale, da cui erano esentati i predecessori.
Il vantaggio sopra riconosciuto al discepolo di prima mano sembrerebbe sbiadire davanti al merito connesso con il salto qualitativo compiuto da quello di seconda mano e si pone l’esigenza di stabilire se e quale delle due tipologie di discepolo sia per Kierkegaard privilegiata rispetto all’altra in tema di facilitazione di accesso alla fede. Diciamo subito che egli non ha dubbi nel proporre una soluzione che, di primo acchito, può sorprendere: entrambi i discepoli si trovano esattamente nella medesima condizione e il presunto vantaggio dell’uno o dell’altro davanti alla fede non tiene conto della natura del tutto peculiare di quest’ultima.
Riferiamoci al discepolo di prima mano. Se fosse sufficiente la pura e semplice contemporaneità con Gesù a garantire il possesso della fede, tutti coloro che sono vissuti nel suo stesso periodo dovrebbero senz’altro essere fervidi credenti. Che non sia andata così è noto, e il riscontro per antonomasia è offerto dal passo del Vangelo di Giovanni che riporta l’episodio relativo all’apostolo Tommaso. Questi, infatti, non credette prima di aver toccato il costato di Gesù risorto, meritando il rimbrotto del Maestro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Giov. 20 29). Se perfino un componente della cerchia più ristretta degli apostoli ebbe bisogno di ricorrere al supporto dei sensi per convincersi che Gesù era risorto e credere nella sua divinità, è del tutto evidente che la pura e semplice contemporaneità non ha alcun rilievo in rapporto alla fede. Il presunto vantaggio del discepolo di prima mano si risolve, allora, in una pura accidentalità esteriore, come tale estranea al carattere intimo della fede. Quest’ultima implica un salto qualitativo, necessario per neutralizzare l’assoluta discontinuità rispetto al mondo sensibile e, nella prospettiva di Kierkegaard, presuppone la «condizione, che può esser data solo da Dio.
Si capisce allora come, per Kierkegaard, la condizione di entrambi di discepoli davanti alla fede sia perfettamente identica e come sia fuorviante parlare di vantaggio di quello contemporaneo. Se il discepolo di seconda mano deve partire dal riconoscimento della validità delle testimonianze sulla vita e sulla dottrina di Gesù, ciò non implica affatto che l’accettazione di una verità storica equivalga, per lui, a credere in essa come evento soprannaturale. Affinché da quel riconoscimento possa scaturire la fede, occorre che la frattura qualitativa con il mondo dell’esperienza sia colmata e ciò può avvenire solo mediante un’assoluta discontinuità rappresentata dal «salto mortale» (F.H. Jacobi) e dalla decisione a tal fine indispensabile. Quest’ultima, – al netto della condizione, che solo Dio può dare – ricade interamente nella facoltà e nella responsabilità di chi si dispone a credere. La fede, insomma, richiede un cambiamento di piano che proietti il credente dal mondo reale a quello creduto, e ciò può avvenire solo mediante un salto che la ragione, in assenza di qualsiasi riscontro fornito dall’esperienza, non è in grado di avallare. Quel mondo costituisce un ambito nel quale la ragione, kantianamente, conserva sì la facoltà di pensare secondo i principi logici, ma non quella di conoscere. Di conseguenza, alla fede non si può essere iniziati per via di ragionamenti o di prove cogenti, del tipo di quelle inutilmente cercate nelle pretese dimostrazioni dell’esistenza di Dio. Anzi, proprio il fallimento sperimentato dalla ragione in questo ambito costituisce, per Kierkegaard, l’argomento decisivo a favore della fede, e per due motivi ugualmente essenziali: da un lato, non ci sarebbe alcun merito nel credere nel risultato di una dimostrazione; dall’altro, l’irrazionalità costituisce la forza e non già la debolezza della fede. Recuperando l’antico «credo quia absurdum» e integrandolo con i caratteri di «paradosso» e di «scandalo» quali componenti essenziali della fede, Kierkegaard la innalza a suprema manifestazione di spiritualità di cui l’uomo sia capace. Quel che rende la fede assurda e scandalosa per la ragione si converte, per il credente, in presupposto e indispensabile requisito per accedere alla dimensione del divino e dell’eterno.
Anche per il discepolo di prima mano l’intimità con Gesù forniva solo l’occasione esteriore per credere e la sua fede in Cristo sta su un piano assolutamente altro rispetto all’esperienza della sua esistenza storica. Agli occhi del non credente, la vita di Gesù si svolge interamente nell’ambito terreno e i suoi stessi miracoli possono anche essere considerati un gioco di prestigio o un inganno alla credulità degli astanti. Anche gli apostoli hanno dovuto compiere il salto nel vuoto che segna l’accesso alla fede e la differenza ontologica tra l’empirico e il divino, tra il tempo e l’eternità non è stata per essi meno assoluta e meno impegnativa da superare che per i discepoli di seconda mano.
II
Tornando al caso dei testimoni della Shoah, essi hanno sperimentato direttamente sulla loro carne e su quella dei loro sfortunati familiari e compagni di sventura la forma di crudeltà più perversa e sistematica che l’uomo sia riuscito a escogitare. Sono stati confrontati con la degenerazione dell’umano, con il disprezzo di ogni valore storicamente consolidato, hanno visto l’uomo trasformarsi nel diabolico nemico dell’umanità, ben oltre il limite del bestiale e perfino dell’ineffabile. La devastazione fisica e psichica subita nei Lager ha consigliato a molti di essi di tacere sulle atrocità e le sevizie che vi si praticavano, per timore – purtroppo fondato – di non essere creduti.
Eppure, si è accennato, non sono mancati né allora né dopo di allora quelli che, davanti all’evidenza più cruda, hanno rifiutato e rifiutano di riconoscere l’esistenza dei campi di sterminio, trasformati in fantasie inventate da lobby planetarie. La realtà storica viene degradata a fantasia, la fantasia malata innalzata a verità. Che cosa rende possibile un tale deliberato e consapevole stravolgimento? Per facilitarci il compito della risposta potremmo farci aiutare dalla celeberrima sentenza di Nietzsche (spesso citata a sproposito): «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto fatti’ direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, vol. VIII, tomo I, p. 299).
Se i fatti, anche quelli storici, evaporano a vantaggio dell’interpretazione che ciascuno è libero di darne, allora sembra svanire ogni possibilità di confronto che non sia la sterile reiterazione dei propri assunti. Ma la sentenza di Nietzsche è più complessa. Quando ci si richiama alla solidità dei fatti, alla loro forza di convinzione data proprio dalla necessità e incontrovertibilità con cui si impongono, si trascura un passaggio essenziale. Di un fatto parliamo sempre così come esso appare a noi e con le caratteristiche che rivela a noi che lo esaminiamo e siamo convinti, mentre ne parliamo, di esprimerci in modo «oggettivo», vale a dire di far parlare solo il fatto. Che cosa ciò voglia dire, va però compreso fino in fondo e tenuto costantemente presente. Nell’operazione descritta, noi non ci limitiamo a riflettere l’oggetto che ci si mostra, ma ne elaboriamo l’immagine ed è proprio alla nostra elaborazione che continuiamo a riferirci anche quando – e proprio mentre – ascriviamo al fatto il carattere dell’oggettività. A volte, però, dimentichiamo che quello che consideriamo il fatto «puro e semplice», «come esso è in sé», continua in realtà a essere, contemporaneamente, nostra rappresentazione del fatto ed è precisamente in tale ambiguità che risiede sia la possibilità che ci inganniamo, sia che la nostra rappresentazione diverga da quella degli altri.
Quando siamo pienamente convinti della corrispondenza della nostra rappresentazione con l’oggetto, la dichiariamo vera e la difendiamo nei confronti di quelle ritenute false. Solo che, ai fini della nostra adesione a essa come a rappresentazione vera, non è sufficiente la constatazione puramente teorica della sua congruenza con ciò di cui essa è rappresentazione, ma occorre un passo ulteriore, che non deriva dalla mera constatazione dell’adeguatezza del nostro punto di vista alla cosa, ma è piuttosto il risultato di un’azione, cioè di un’attività di carattere pratico che, originariamente e necessariamente, introduce una coloritura di natura emotiva.
L’oggetto come correlato della nostra rappresentazione e la rappresentazione che ne abbiamo sono gli elementi su cui possiamo fondarci nei nostri giudizi e in ciascuno di essi sono presenti e indissolubilmente uniti sia la componente soggettiva, grazie alla quale il fatto è nostra rappresentazione/interpretazione, sia quella oggettiva, data dall’essere il riscontro cui la rappresentazione si riferisce. La proporzione di soggettività e oggettività in ogni giudizio rientra in una gamma infinita di possibili combinazioni, e da queste dipende l’attendibilità o inattendibilità del giudizio. Il massimo di verità sarebbe garantito dal puro e semplice rispecchiamento dell’oggetto, con conseguente assenza della componente soggettiva e, da tale prospettiva, dovremmo concludere che i giudizi sono tanto più affidabili, quanto più si avvicinano all’oggettività. Il giudizio più vero sarebbe allora quello assolutamente oggettivo, raggiungibile però unicamente da uno specchio. Solo che lo specchio non può fare altro che restituire il rispecchiato, certamente senza la presenza di alcun elemento soggettivo ma, proprio per questo, anche senza coscienza di ciò che esso rispecchia. La nostra rappresentazione dell’oggetto presuppone il suo innalzamento alla coscienza e solo grazie a questa un oggetto è per qualcuno, qualcuno può parlarne e altri possono intendere quel che ne dice.
È evidente che a tale circostanza è necessariamente connesso il rischio di una comprensione/interpretazione unilaterale o insufficiente dell’oggetto. Se facciamo prevalere gli aspetti puramente soggettivi e magari arbitrari, la nostra interpretazione diviene inattendibile, perché priviamo l’interlocutore degli indispensabili riferimenti al corrispettivo reale delle nostre rappresentazioni. E così, quando davanti ai forni crematori e alle testimonianze schiaccianti del loro impiego scellerato, si è restii a considerarli come la dimostrazione più sicura delle nefandezze compiute in vista dello sterminio di un popolo e di tipi umani giudicati inferiori, si assumono i dati documentali in maniera da far prevalere il nostro arbitrario pregiudizio che si tratti di costruzioni posticce, realizzate solo per avallare un enorme inganno storico. Davanti ai medesimi fatti e ai medesimi documenti che provano l’avvenimento più sconvolgente della storia, si preferisce renderli funzionali al proprio pregiudizio e colorare la realtà dei colori del capriccio più sfacciato.
III
Probabilmente non esiste un’unica spiegazione per un simile comportamento e, certamente, non ne esiste una semplice. Un seppur limitato contributo per avvicinarsi a essa può forse essere ricavato dalle considerazioni relative all’accennato carattere necessariamente pratico connesso con il riconoscimento della verità e con l’adesione a essa. La più elementare come la più rarefatta delle verità hanno entrambe bisogno di essere accettate come tali da qualcuno che è libero di concedere loro il proprio assenso ritenendole vere, e questo atto è condizionato unicamente dalla volontà di chi è chiamato ad esprimersi in proposito. La verità, allora, risulta non disgiungibile dalla personalità di colui che su di essa si pronuncia, e sappiamo bene che l’elemento soggettivo non equivale mai alla pura e semplice razionalità (che, come tale, è una mera astrazione), ma rinvia a una quantità di componenti che vanno dalla natura originariamente determinata di ciascun soggetto, alle sue esperienze e ai suoi cambiamenti nel tempo, alle inclinazioni, alle preferenze, agli impulsi, alla cultura etc. E quando a prevalere all’interno di questa molteplicità di determinazioni sono le componenti che divergono da quel che abitualmente siamo soliti indicare con il termine «ragione» e che hanno piuttosto a che fare con le peculiarità individuali e la volontà di ciascuno, allora può verificarsi quell’accecamento nei confronti anche di indiscutibili documenti storici che porta a stravolgerne il senso e addirittura a tentare di degradarli a falsi clamorosi. Ciò vale tanto nei confronti dei testimoni diretti, quanto delle testimonianze oggettivate e documentate. L’incubo di Liliana Segre di vedere la verità eclissarsi con il venir meno di testimoni diretti ha, purtroppo, una portata ancora più ampia, perché concerne la verità storica della Shoah tout court. Il rifiuto di riconoscere la verità che fluisce con coinvolgente evidenza dalle sue parole, trova il corrispettivo nel rifiuto di coloro che negano, con sfacciata sicumera, l’esistenza dei campi di sterminio, magari proprio mentre ne stanno calpestando il suolo e guardando i macabri resti. Purtroppo i testimoni diretti non possono «costringere» ad ammettere la realtà di ciò che raccontano con dolorosa certezza, ma non possono farlo nemmeno i mattoni di Auschwitz, le camere a gas e i forni crematori, così come non possono farlo le montagne di scarpe o le migliaia di paia di occhiali sottratte alle vittime e ammucchiate in squallidi depositi. Tutto questo, comprese le sentenze del tribunale di Norimberga e quelle che sono state pronunciate successivamente, sono «oggetti» che hanno bisogno di essere vivificati, per poter testimoniare. Ma come la pietra del sepolcro di Gesù non può evocarne la divinità per il crociato e per il non credente, così possono restare meri oggetti materiali quelli che per la coscienza collettiva sono invece urla strazianti che chiedono, almeno per il futuro, che sia risparmiata all’umanità la ripetizione delle scelleratezze di cui sono la prova.
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