Può darsi che l’essere nata e vivere in questa pianura, ultima di Lombardia, abituata alle sue nebbie, al Po, alle bonifiche e ai campi di mais, e soprattutto alla sua gente, sia la ragione del coinvolgimento nella lettura di questo libro, ma tutto il bene che posso dirne non nasce solo da questo.
È il libro più corposo di Zena Roncada: trecento pagine di una storia che si snoda per un breve tempo ed è vera, è la storia della vita in un paese, del tempo che precede la guerra e poi la attraversa, la storia di Rosa, dei suoi legami, dei suoi affetti.
Rosa ha un’intesa speciale con il nonno Bigìn, valdese, come lo erano parecchi, nei tempi narrati, nelle nostre terre, convertiti dai colportori che arrivavano dalle valli sopra Torino e predicavano agli scariolanti impiegati nei grandi lavori delle bonifiche; nonna Matilde invece è cattolica, austera, concreta, con un modo tutto suo di intendere la dignità. Sono questi due vecchi a crescere la bambina sveglia e bella che si guarda attorno in un mondo pieno di profumi e di storie, di ombre certo, ma anche di legami forti e profondi. In paese, il paese a ferro di cavallo, tutti si conoscono, tutti conoscono le vicende di tutti e quelle di Anna, la madre di Rosa, due volte ragazza madre e infine sposa controvoglia e costretta a lasciare la figlia ai nonni, sono note con il loro strascico di dolore, di abbandono, di dure scelte.
Rosa si appoggia alla spalla del nonno che ha un suo “modo di convincere alle cose”, che tutto può “sistemarsi con la dolcezza della verità” e che fa il fornaio, spandendo profumo di pane e senza lesinare buone rosette a chi ne ha bisogno.
Bigìn è il centro di questa famiglia, composita: lui e Matilde, vedovi entrambi, si sposano portando ciascuno due figli che diventano la famiglia di Rosa, nata dalla relazione della madre con un personaggio ai margini, innamorato di Anna, ma non gradito da Matilde che lo giudica troppo spiantato per la figlia. Così Rosa lo conosce per caso, senza accorgersene quasi, guardandolo da lontano, insieme ad altri bambini che lo seguono, l’uomo in bicicletta, senza un braccio, Turassa.
Lo conosce perché lascia doni per lei, le paga i preziosi pennini “Presbitero”, le fa trovare il cartoccio di giuggiole, il manicotto di pelo di coniglio e la focaccia di farina di castagne, complici la cartolaia, la merciaia e la vecchia col carretto. Sono queste a svelarle la sua storia. Turassa la guarda e la protegge da lontano e compare soltanto con gesti semplici, d’aiuto e d’amore. “Aveva un modo solo suo di apparire, all’improvviso e nel bisogno, per una specie di flauto silenzioso”.
E quando Anna mette al mondo un bambino, frutto di una relazione con un uomo che capita in paese di tanto in tanto, Rosa capisce che la sua famiglia resta quella dei nonni, così diversi, solidi, a modo loro, in diverso modo.
Capitano tante cose sotto quel tetto: il nonno Bigìn cura, vicino al suo forno, un teatro che è cinema e burattini, prodigi di maghi e feste da ballo. Gli zii Fernando, Cadorno e Regolo, il primo un po’ nomade e zingaro, giostraio, fratello della mamma, poi Cadorno con la voglia di andare lontano e Regolo rassicurante e affidabile, con le mani d’oro; tutti portano nella casa presenze e storie, dolori e gioie che fanno l’infanzia di Rosa. “Gli stupori che ti prendono bambino, crescono a cercare una seconda volta”, dice Zena a proposito di Fernando, ma vale per tutti.
Poi ci sono le donne del paese, la Dilma, la Ghelfa, la Clorinda, la Velia, la Dina… con quell’articolo davanti sempre, nella parlata di paese, quando serve marcare una singolarità. La scuola ancora e le amiche.
Intanto il clima dell’‘ordine’ fascista si fa più pesante; Bigìn coglie la protervia grottesca dei comunicati, delle frasi a effetto e della propaganda che passa anche nella scuola e dice no, un no fermo, all’imposizione della tessera del fascio.
Per quello stesso rifiuto i Bunèet erano stati costretti ad andarsene dal caseificio che gestivano con grande perizia.
I Bunéet sono l’altro versante della vita di Rosa. Entrano in scena nella seconda parte del volume, quando Rosa lavora ormai come aiutante alla posta del paese e il nonno ha perso tutto per la sua generosità, per quel porto di mare che era il suo teatro, aperto a ogni artista, alloggio e ristoro per chi ne avesse bisogno. Bigìn non aveva mai imparato a dir di no “perché il chiedere ha già dentro la sua pena, è tenere il bisogno fra le mani e mostrarlo a tutti, come una cesta vuota”.
La guerra è iniziata, i giovani del paese sono sotto le armi e Rosa, di quattordici anni appena, è grande coi suoi vecchi che hanno perso tutto. Bigìn fa qualche lavoro da stagnino, aggiusta le pentole di Dina che tiene la trattoria. È moglie di Domenico dei Bunéet, bravissimo casaro che è costretto a rinunciare alla sua professione perché rifiuta la tessera del partito fascista; hanno quattro figli: due che vengono presto chiamati sotto le armi e sono belli, stimati da tutti, una figlia già sposa e un ragazzino che ancora studia.
Rosa conosce tutti nel paese e conosce Iris, la giovanissima e sapiente sarta che si prepara al matrimonio con Ugo, il maggiore dei Bunéet. Iris ha sperimentato il dolore della morte del fratello, portato via dal Po in una calda giornata d’estate e ha guardato il dolore della madre e del padre come un pozzo da cui pareva impossibile risalire.
Da Iris, intorno al suo manichen, si ritrovano le ragazze ammirate dalla grazia e dall’inventiva con cui ricava meraviglie da poveri ritagli di stoffa e lì Rosa raccoglie le notizie che circolano sui ragazzi partiti per la Russia, con lo CSIR e poi ascolta le lettere di Gigi, il fratello minore di Ugo che è già in Russia, lettere belle che il prete legge in chiesa. Gigi era partito nel ’40, a vent’anni, poco prima che venisse dichiarata la guerra, lasciando in paese gli amici con i quali passava lunghe ore la sera a prendersi gioco delle camicie nere, cresciuto in una casa che non aveva mai chinato la testa al fascismo e non aveva mai smesso di rimarcarne la goffa e violenta arroganza.
Prima la Yugoslavia, dove viene ferito a un braccio, poi la Russia, coi soldati italiani privi di attrezzature, esposti al gelo, sotto la linea del Don, mentre i tedeschi incassano a Stalingrado la prima feroce sconfitta. Gigi racconta, riconosce la benevolenza negli occhi della donna che, con il marito, gli ha fatto posto nella sua isba. Sono gli stessi vecchi che, al momento del ripiegamento dei plotoni italiani, donano a Gigi la slitta per la legna, come aiuto e sollievo nella marcia, o offrono la scodella del cavolo cotto al suo stomaco vuoto. Sono madre e padre, come i suoi, hanno anche loro un figlio in guerra, dall’altra parte non importa, importa ai genitori che non si usino più le armi, che non si metta in gioco la vita.
Formiche nella neve, pensa Gigi, quando nell’orrore del gelo e della morte, bersaglio di mitragliatrici, tra i cadaveri dei soldati, si domanda chi è amico e chi nemico? “Il tedesco che ti butta giù dal carro e ti picchia col fucile sulle mani, o il russo che ti regala la slitta e il suo poco?”
Al ritorno, in licenza, coi morti da dimenticare, Gigi va alla posta a salutare gli amici che sono là. E incontra Rosa, bella, i vividi occhi allungati e la treccia nera, per la prima volta. Comincia la loro storia, nel cuore della guerra, coi racconti di Gigi che non cancella dalla mente i compagni persi in Russia, sfiniti, abbandonati nella neve.
Arriva il 25 luglio, uno stato di incertezza sulle sorti della guerra, notizie incomplete, truppe tedesche che scendono dal Brennero fino all’otto settembre, quando i tedeschi diventano i nemici e i soldati italiani, allo sbando, diventano disertori, poi partigiani, come Ugo e Gigi.
C’è ancora storia, di dolore e di amore, nella terza parte del libro che si articola in ottantadue capitoli tutti intitolati come complementi d’argomento, ottantadue doppi argomenti: di geloni e di forchette, di sarte e di trapunte, di attese e di pensieri, di corvi e di streghe…
Una sorta di avvertenza sulla modalità del lessico, quasi arcaico, poetico e ricercato, con i toni della scrittura fine degli anni trenta, le pause di riflessione che allargano la valenza dei fatti e ne colgono il segno profondo e puntate più terragne nel dialetto e nelle sue forme, quando il racconto chiede una puntuale efficacia. Tutto è accompagnato da musiche, pezzi d’opera, canzoni popolari, ritornelli e ballate, nel profumo dei fiori di quel tempo, malvoni e bergenie, peonie, passiflore, settembrini e zinnie, utili a evocare il tempo e il luogo delle formiche, operose, invisibili nella storia dei grandi eventi, eppure capaci di mutare il mondo con il cuore.
-
Il mio è un grazie immenso: una lettura che va dritta al cuore delle parole e al mio!
-
Romanzo bellissimo e riassunto esauriente. Rileggere è una necessità anche per cogliere meglio le sfumature di stile, straordinarie.
Lascia un commento