Per la mia attenzione sul capolavoro di Carlo Collodi, recupero questa lettura proprio per la stima verso questa saggista, da me scoperta studiando Karin Boye, di cui ha curato l’introduzione e fatto la traduzione. Sappiamo il caleidoscopio delle infinite letture dell’opera, ma qui Marcheschi propone motivatamente una prospettiva politica nella tessitura letteraria.
Lo scrittore aveva combattuto nella prima e nella seconda guerra d’Indipendenza, partendo volontario nel 1848, arruolandosi poi nell’esercito sabaudo, nel reggimento dei cavalleggeri di Novara. Scrive Marcheschi: “Mentre Verga temeva il progresso e lo vedeva anzi come una fiumana che travolge e vince i più deboli, Collodi non perdeva occasione per criticare le situazioni e le forze che frenavano il cammino del Paese verso lo sviluppo. Perciò rivolgeva pungenti critiche alle classi dirigenti in ambito di politica economica e culturale.” Collodi si batte anche per i diritti della donna. Nutre amicizie con personalità e intellettuali protagonisti del rinnovamento in campo pedagogico.
Marcheschi legge le avventure del burattino al di là di ogni ideologismo consolatorio. Con disincanto lo scrittore narra l’arretratezza economica e culturale e le gravi mancanze dell’aristocrazia e della borghesia. Fame, miseria, sfruttamento dei bambini, ignoranza, violenza malavitosa sono gli ingredienti del romanzo. “Pinocchio è uno e trino, è insieme, natura vegetale, natura animale e natura umana; e, cosa ancora più meravigliosa, arriva a conoscere tutte e tre queste nature.” Ben al di là di essere un’opera quietamente edificante, Collodi crea un protagonista incontenibile per la sua inquietudine eversiva e esplorativa.
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