Due libri pubblicati in Italia a più di sette anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo tradotto dal greco, il secondo dall’albanese. Kapplani è albanese, ha varcato la frontiera verso la Grecia a ventitré anni ed è diventato professore di Storia e cultura albanese all’università di Atene. Da lì si è trasferito negli Stati Uniti ed è docente di università, prima a Boston, poi a Chicago.
Se il primo libro narra la vicenda dell’attraversamento del confine, la condizione di profugo con le umiliazioni e i drammi che porta con sé, il secondo, che lascia la forma del diario per divenire romanzo, entra nei dettagli dell’esperienza, contiene le motivazioni delle scelte e, offrendo, senza veli, uno spaccato della propria biografia, lascia entrare nel mondo della migrazione, nel trauma dell’abbandono, dei sensi di colpa e del desiderio di libertà, di ricerca di uno statuto proprio dello stare al mondo.
Nel Breve diario della frontiera il migrante presta il suo giuramento:
“Giuro di farcela”. A partire da questo momento tale giuramento è la vera patria del migrante. Lui deve farcela non soltanto perché la famiglia rimasta indietro si aspetta un aiuto economico. Questo è il minimo. Lui deve farcela soprattutto per non tornare indietro con il marchio infamante della sconfitta. Il pensiero della sconfitta lo fa tremare di paura come un bambino che si è smarrito nel buio. (Pag. 28)
Si tratta di violare “quell’orribile tabù chiamato ‘frontiera’, la frontiera estrema di un universo che forse ci aveva buttato fuori dal tempo”, dice Kapplani riferendosi all’Albania di Enver Hoxha, nel libro che è insieme diario e memoriale: diario degli eventi, ma narrato al passato, e considerazioni sulla condizione propria del migrante, sulla sua vita in questa condizione:
Il loro Paese diventa lo status di migranti, il passaggio dei confini, legale o illegale. Ma quello che conta di più è che la morte non fa più paura. (Pag. 53-54)
La terra sbagliata, racconto autobiografico sotto mentite spoglie, prende le distanze dalla volontà di aprire tematiche e farne oggetto di riflessione, preferisce la strada dell’esperienza narrata, da “collezionista dei rimpianti”, alla ricerca del “centro del mondo”, alla ricerca di se stesso. Usa l’espediente di un efficace controcanto narrativo: lascia la parola, in prima persona, a Frederik, fratello di Karl, il protagonista, e gli assegna il ruolo di colui che non vuole staccarsi dalle radici.
“Come è possibile sopportare il peso della solitudine senza sentire di appartenere a qualcosa che trascende l’individuo, a qualcosa di eterno, che dia un senso alla nostra inevitabile morte?” Ma Karl è ben consapevole che “spesso la libertà fa male ancor più della stessa solitudine. Che l’amore più misterioso è quello che nasce dal dolore e dalla paura della solitudine”
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