Tra le parole sempre appassionate e profuse a mani piene di Aldo Capitini, parole che ancora fatico a conoscere adeguatamente nel complesso e, soprattutto, nell’aprirsi e riaprirsi del loro profondo, mi prendono, mi affascinano, mi stupiscono, mi inquietano, mi incarnano senso e insieme faticoso ritorno all’impegno, all’impegno dell’impegno, le sue parole sulla compresenza dei morti e dei viventi.
Che sono non soltanto la ripresa alta, altissima, sacra, di un sentire che l’umanità in qualche modo ha sempre avuto nei nidi ereditari, carnali e culturali, della sua appartenenza alla specie; ma sono anche l’osare un passo oltre, nell’allargarsi agli altri viventi e nonpiùviventi tutti, un passo davvero molto ‘avanti’
rispetto al passo di quel tempo di scrittura, perché Capitini coglie, anche oltre la vita in presenza, quell’apporto che nell’intreccio, nella correlazione di tutti gli essenti – ormai confermata (sì, ma oggi e ancora insufficientemente) dalle scienze fisiche e biologiche, da tanto pensiero filosofico e teologico, nonché dalla contingenza del disastro ecologico –, conduce all’ipotesi, non più utopica ma necessaria, di un vivere, se non privo di violenza reciproca, almeno consapevole dei danni che essa comporta, sempre reciproci. Interconnessione che, dice Capitini, conduce alla costruzione dei valori.
“Vivere vuol dire conoscere e produrre eventi; gli eventi passano, lasciando qualche cosa di sé, la modificazione che è avvenuta nel Tutto. Orbene, il morto è confuso con l’evento; il morto è un vivente che è passato, lasciando modificazioni, percettibili o impercettibili, nel Tutto.” p.38
“ (…) la compresenza è aperta verso l’orizzonte, è infinitamente di tutti. (…) nella compresenza il negativo che gli altri ci presentano, quel perdere cose vitali e travagliarsi nei limiti, quell’impallidire e finire, è misteriosamente assunto dalla compresenza, in qualche cosa di sacro che noi non vediamo chiaramente, ma sentiamo” pp. 39-40
“La compresenza (…) è illimitata e comprende tutti; e non soltanto i viventi e fiorenti, ma i lontani, i sofferenti e stroncati e ultimi, fino ai colpiti dal negativo estremo che è la morte. (…) è un’unità aperta (…) Si potrà ricordare qualcuno dei morti; ma qui l’apertura è oltre la memoria, oltre il vedere; e non può nemmeno essere circoscritta agli esseri della specie umana. Perché escludere gli esseri non umani? Perché, si dice, non sono razionali. Ma se noi abbiamo qualcosa di più, ciò significa soltanto maggiori doveri, maggiore apertura. La compresenza è vissuta
praticamente nello sforzo di apertura ad ogni essere, mettendo in ogni tu questa intenzione: che si direbbe
volentieri ad ogni altro essere della realtà di tutti.” p.40
“(…) c’è un campo di produzione nel mondo dove la compresenza realizza in qualche misura se stessa, ed è quello della produzione dei valori, che sono creazione corale della compresenza, nella quale ognuno mette qualche cosa di proprio. Un atto di bontà, o di onestà, o di ricerca del vero, o di creazione e ri-creazione del bello, o di sacrificio o di lotta per la più pura libertà, avviene perché c’è l’azione della compresenza, che è a un livello che comprende tutto il meglio del fare” p.41
“noi ritroviamo la presenza cooperante in ogni cosa o atto che giudichiamo di valore; lì confluisce non solo l’attività dell’‘autore’, ma dei vicini, dei lontani, dei malati, dei morti.” p.43
“Così la realtà acquista un carattere aperto, come se essa possa essere trasformata o pervasa dalla compresenza, e perciò rivelarsi tutta individui e tutta valore. (…) Non soltanto, perciò, l’attenzione agl’individui nati e ai valori si accresce, (…) non solo gli umili e ultimi esseri vengono dignificati, perché essi fanno, nella compresenza, molto di più di quanto risulta, ma anche la materia inorganica, l’acqua, le pietre, l’aria,, partecipano ad una possibilità, e il nostro misurare, il nostro stabilire leggi, non li esaurisce e chiude.” p.44“(…) posso intendere i valori come una disciplina ed elevazione di me individuo; ma posso anche intenderli come luogo d’incontro con la compresenza, se sono già animato dal proposito del tu. La compresenza io non la intenderò quando resterò sul piano semplicemente biologico, vitale, amministrativo, perché allora al massimo sentirò il Tutto e il vivente; ma la intenderò elevandomi a quei valoro oltre che biologici e amministrativi, connettendomi con tutti, compresi i non viventi. Si tratta di portare l’accento dal Tutto ai tutti.” p.50
“(…) il rapporto con il morto (…) non è contemplativo o idolatrico (…); ma è attivo, nel senso che quella persona è attiva con me; (…) nella produzione di quei valori che sono il luogo d’incontro con la compresenza. (…) Ogni essere a cui possa rivolgere un tu mi dà un aiuto nella produzione dei valori. (…) si chiarisce un punto che poteva dare perplessità. Il mio tu ad una persona – ho detto, che non è l’accettazione delle sue qualità ed azioni, per es. delle sue ideologie politiche, dei suoi vizi, dei suoi delitti. Ma, semplicemente, io non credo che quella persona sia soltanto queste sue manifestazioni: egli è anche altro, è compresente, cioè collabora alla produzione dei valori, anche se non ne è consapevole in quel momento. L’aggiunta che io faccio a lui corrisponde ad una realtà che è di lui.” p.51“Che la compresenza arrivi a ogni singolo essere, vuol dire che non esiste il ‘Giudizio’ conclusivo, ma il promovimento continuo. La liberazione dal ‘peccato’ avviene nel corso di un incremento di operare il bene nella compresenza, e identificare il ‘male’ non è per chiudere un essere singolo in un giudizio, ma per promuovere un’ulteriorità, uno svolgimento, un’evoluzione, che per compresenza è possibile anche oltre il mondo della vita. La compresenza porta sempre un’aggiunta, che è dinamica, è promovimento; fa languire il male, aggiungendo il bene.” p. 53.
Questa ultima riflessione, più di altre, magari accompagnata da una rilettura di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, dovrebbe entrare nella mente di un eventuale riformatore non solo del sistema carcerario attuale, ma di tutto il sistema giudiziario, nemmeno più incentrato sull’ancestrale, in teoria equanime, desiderio di vendetta, quanto, piuttosto, banalmente sulla fatale casualità di appartenere ai vinti o ai potenti per scontare maggiore o minore violenza di pena Non mi fermo qui, a pag. 53, perché l’essenziale sia stato detto; il testo sulla compresenza arriva a pag. 259, con sempre maggiore complessità e potenza. E’ giusto che chi fossi riuscita ad interessare provasse a trovare un suo percorso nelle pagine a venire. E’ un testo di lentissima esperienza. Fa bene come una prospettiva, una speranza.
Vorrei affiancare al bel saluto, che segue, di Ivan Andreoli al padre, le parole che Aldo Capitini propone di offrire a “un essere morto”:
“A te, che sei oggi davanti a noi come morto, porgiamo un saluto di gratitudine per tutto ciò che hai dato da
vivo e per tutto ciò che continuerai a darci in eterno. La tua parte c’è sempre stata nella nostra vita e sempre ci sarà: sappi che ne abbiamo veramente bisogno. (…) Intanto attuando valori saremo insieme e saremo uniti. Noi ti parliamo a nome di tutti, oltre ogni distinzione e gruppo particolare. La bellezza della luce e di ogni lume acceso ci consola nel mondo, e più saremo certi che tu, nella compresenza di tutti, ci dai un aiuto, più sarà per noi una festa.” Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p.220.
Ivan Andreoli
1° Ottobre 2022
Caro papà, grazie a te che ci hai cresciuti col tuo silenzio, con la tua figura dolce eautorevole allo stesso tempo, col tuo esempio di coerenza di pensiero. Masoprattutto grazie per la tua dolcezza. Il primo vero ricordo che ho di te è latua delicatissima parola che eri solito usare per chiamarci: cichin, che tradottovuol dir piccolino, ma che è nome e aggettivo, singolare e plurale allo stessotempo. Non potevi esprimerti meglio per rivolgerti a noi che eravamo due euno allo stesso tempo. Non so perché questo appellativo è rimasto cosìperenne nella mia memoria. Forse perché per me simboleggia la nostraprima infanzia. Avrò avuto tre o quattro anni quando l’ho scolpito come unmonumento perché durasse fino ad oggi.
E poi il tuo lavoro, che a noi pareva bellissimo. Giudavi i filobus, portavi le persone al lavoro, a scuola, a divertirsi. Servivi la città e i suoi abitanti. Servivi anche noi. Quando ti toccava la Linea numero 6, quella di casa, venivamo al capolinea e con regolare biglietto ti guardavamo guidare sicuro e felice che fossimo lì con te. E noi esploravamo la città da un capo all’altro. E senza volere imparavamo l’importanza del lavoro pubblico. Quel filobus era un po’ anche nostro, perché era di tutti. Insegnamento che ci ha accompagnato sempre. Quando ho cominciato ad andare a scuola, comuale, ho rispettato il mio banco. Quando più grande ho occupato la scuola, provinciale, non ho danneggiato neanche il cancellino della lavagna, perché era di tutti e doveva restare a disposizione di tutti. Il rispetto della cosa pubblica ce l’hai insegnato col tuo mestiere, col tuo esempio.
Da piccolo mi piaceva il simbolo del tuo partito: un libro aperto, una piccola falce e martello e un grande sole coi raggi verso l’alto. Mi spiegasti quei simboli, belli, comprensibili, alla mia portata. E pensai che non avresti potuto scegliere di meglio, perché rispecchiavano la nostra condizione, le tue speranze per il futuro, che immediatamente diventavano anche mie. A tredici anni ti ho chiesto il significato della parola proletario e la tua risposta fu disarmante: il proletario è colui che non ha altro bene che la prole, i figli. E pensai a quanto dovevi volerci bene se eravamo il tuo unico bene.
L’adolescenza è stata leggera accanto a te. E uso la parola accanto che vuol dire vicino, al fianco, vuol quasi dire insieme. Non ricordo alcuna conflittualità. Strano se rapportato a quanto cominciavo a leggere su qualche testo divulgativo di psicologia. E con fiducia non mi hai impedito di passare la notte a scuola, da minorenne, durante l’occupazione. Quando preoccupato che di nascosto cercassimo una sigaretta per la smania di apparire adulti, una sera sei arrivato a casa e ci hai regalato una pipa per uno. Pensavi che una pipa facesse molto meno male di una sigaretta! Noi restammo un po’ sorpresi perché il fumo non ci avveva quasi mai incuriosito. L’oggetto in sé era bello ma piuttosto inutile. Io almeno, in gita scolastica una volta avevo anche provato a fumare, ma riuscivo solo a riempirmi la bocca di amaro e di tosse, non capivo quale fosse il piacere… e la curiosità svaniva perché i miei desideri emigravano altrove.
Poi finalmente adulti, adulto. I miei studi, i miei viaggi, le lontananze sofferte in silenzio ma ripagate dalla gioia dei ritorni. Ricordo quando venisti a raggiungermi a Parigi, il tuo primo Champagne servito come aperitivo che tu centellinavi e volevi conservare per tutta la durata della cena e che invece il solerte camerire sgomberò per iniziare a servirci il pasto principale. Ci rimanesti davvero male, l’avevi appena assaggiato e ti era stato subito sottratto.
Al ritorno decisi che la nostra convivenza era sì speciale ma a 30 anni volevo l’indipendenza. Volevo verificare quell’autonomia che guardandovi avevo imparato e mai messo in pratica. Desideravo liberare te e la mamma, soprattutto lei, del lavoro domestico che un figlio comporta. Se ho potuto farlo è ancora grazie al tuo e suo sacrificio. Due genitori così perfetti ancora oggi mi sembrano rari e preziosi. Hai lavorato dei mesi per rimettere a nuovo, secondo il mio desiderio, l’appartamento che ha poi ospitato gli anni più belli della mia vita, accanto alla scuola dove lavoravo, che così sentivo ancora più mia, quasi fosse una succursale dei miei 55 metri quadri di pavimenti, mobili, libri e sogni.
Quando ormai non ti restava che la parola, rievocavi la tua infanzia, la gioventù, gli anni della guerra, che ti sorprese adolescente. Mi raccontavi spesso del tuo amico Filippo, che camminava accanto a te sul greto del Secchia, quando una pattuglia della brigata nera vi bloccò. Lui lo uccisero subito perché renitente alla leva della Repubblica Sociale. Tu, sebbene più giovane eri comunque nel mirino di quel ragazzino esaltato, che voleva assolutamente eliminare anche te. E quell’immagine mi evocava sempre il fascistello fanatico de La notte di San Lorenzo che continuamente cercava l’approvazione del babbo. Fortunatamente ti salvò l’ufficiale che ti chiese solo se volevi arruolarti. E per risposta improvvisasti che l’avresti chiesto alla mamma. Proprio come un bambino. Il bambino che era cresciuto a Bastiglia, poi ai prati di San Clemente, dove un giorno ti avevo accompagnato perché avevi voluto che vedessi la tua casa, i cortili. Luoghi che però erano cambiati al punto che stentavi a riconoscerli. Come eri deluso di non ritrovare la tua infanzia. Però l’argine del Naviglio era ancora quello che ti aveva visto correre e camminare per raggiungere la suola elementare.
Negli ultimi tempi, quando solo il cortile intorno a casa ospitava le tue incerte ma tenaci camminate insieme ad Oxana che ti assisteva con tutta la pazienza e la simpatia del mondo; e poi vi sedevate all’ombra proprio sotto la mia finestra e vi sentivo chiacchierare; in quei mesi vi siete scambiati i racconti di due vite intere. Anche quello che ancora non sapevo di te.
La tua vecchiaia, perdonami la parola, ma non ce n’è un’altra altrettanto esaustiva, e la dicevi anche tu, ci ha consentito di ricambiare il tempo che ci hai dedicato. E l’abbiamo fatto, punto! Senza altro pensiero: sacrificio, fatica, stanchezza… No, non ce ne siamo curati. Ti siamo stati accanto, come tu hai fatto con noi. E ancora una volta ho usato la parola accanto, che ci pone vicini, uguali, e che mi piace tanto.
Quando io e Imer ci guardavamo negli occhi a riflettere su quanto fatto o stavamo per fare, stoicamente commentavamo: non può che peggiorare. E così è stato. Ma ci hai lasciato nel sonno profondo, senza un lamento.
Ora resta il vuoto, quello della tua assenza, naturale, logica, dolorosa, ma accettata. Perché inevitabile. Fortunatamente siamo ancora due e uno allo stesso tempo. Grazie Papà, se siamo cosi, ci abbiamo messo del nostro, ma il resto ce l’hai messo tu e la donna che hai scelto perché ci fosse madre.
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