Dovendo esprimere un giudizio sintetico sulla prosa di Joseph Roth (1894-1939), il più noto narratore di lingua tedesca della finis Austriae − ossia l’epoca che precede e segue la scomparsa del pluricentenario impero asburgico, venuto meno a seguito della sconfitta tedesca al termine della Prima guerra mondiale −, penso valga sempre ciò che concisamente ebbe a dire di lui Ladislao Mittner: Roth fu davvero uno scrittore “per tutti”. In grado cioè di soddisfare i critici e il vasto pubblico, gli intellettuali come i lettori comuni; sia le persone poco attente alla forma stilistico-espressiva sia gli amanti dell’intreccio, della trama, della fabula. Egli, infatti, fu contraddistinto in primo luogo dal dono di saper raccontare storie avvincenti, scritte in modo tradizionale, gradevole e scorrevole. Giorgio Manacorda non a caso lo ha chiamato un “narratore puro”. Questa dunque è la ragione della sua popolarità ed al contempo della sua felicità di scrittura.
D’altronde un altro emerito studioso, come Claudio Magris, ci fa notare che Roth esula da ogni facile classificazione, sfuggendo così ad ogni etichetta di tipo letterario. È pur vero che, a causa dei suoi primi romanzi, i critici lo collegarono all’area della Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività). Ma il nostro autore non si può certo definire un mero realista, pur essendo in grado di tratteggiare con inconsueta abilità e sintesi descrittivo-evocativa − magari anche solo entro un breve paragrafo − l’atmosfera di una città, di un popolo, di un’epoca intera.
Due principalmente sono i filoni da cui egli trasse materiale d’ispirazione per i suoi libri. Quello cosiddetto asburgico, dove il tramonto dell’impero austro-ungarico di Francesco Giuseppe diviene metafora d’uno smarrimento generale/epocale e dove non è appena la patria a venir meno ma la stessa ragion d’essere, in un mondo che i personaggi di Roth non riescono più a riconoscere o abitare. E quello cosiddetto ebraico; non solo e non tanto per i temi legati all’ambiente tradizionale/culturale degli ebrei nell’Europa centro-orientale, ma soprattutto per la figura quasi archetipica dell’ebreo errante: esule e sradicato sempre ed ovunque, nonché costretto ad un eterno peregrinare. Tale senso di perdita e mancanza di radici non appartiene quindi solo al primo filone ma pure al secondo. E forse lo scritto più sofferto ed intenso di Roth è proprio Giobbe. Romanzo di un uomo semplice: opera d’umanissima pietas, dove viene narrata la misera esistenza del maestro talmudico Mendel Singer che, messo alla prova da Dio similmente al Giobbe biblico, come questi resta fedele all’Onnipotente pur nella disgrazia riottenendo infine, col figlio perduto, la serenità.
A detta della maggior parte degli studiosi, invece, il capolavoro di questo autore − per metà legato al mondo ebraico cui apparteneva la famiglia materna e per metà a quello imperial-regio asburgico, nel quale era nato – è La Marcia di Radetzky, che si propone all’insegna del mondo di ieri, per usare un’espressione di Stefan Zweig, ovvero del periodo conclusivo dell’impero austro-ungarico. Questo scritto di Roth ha per protagonista Carl Joseph Trotta, il nipote dell’eroe di Solferino che in tale battaglia salvò la vita al Kaiser Franz Joseph. Ma il giovane non si sente per nulla all’altezza del nonno e finisce perfino col lasciare l’esercito, pur restando a vivere all’estremo avamposto orientale dell’impero, dove s’era fatto trasferire prima di quella fatale decisione. Siamo perciò al crepuscolo d’una monarchia e d’una cultura, quella dell’Austria felix, destinata a svanire al termine della Prima guerra mondiale, poco dopo la morte dell’uomo che incarnava il mito asburgico: quel “vecchio” Francesco Giuseppe di cui l’anziano padre di Carl Joseph assiste sia pure da lontano all’agonia, finendo poi ineluttabilmente per morire pure lui.
La Cripta dei Cappuccini – il seguito, in un certo qual senso, della Marcia −vede ancora una volta un Trotta come personaggio principale. Ormai egli è rimasto l’ultimo rappresentante della famiglia che apparteneva al mondo di ieri. Esso è infatti ormai tramontato. L’Austria si è ridotta a una piccola repubblica; inoltre Hitler l’ha annessa alla grande Germania. Non per nulla titolo e cuore del romanzo è la Kapuzinergruft: la cripta dove dal 1600 riposano gli Asburgo, tra i quali giace Francesco Giuseppe, a cui alla fine del romanzo andrà a rendere omaggio uno sperduto e nostalgico Trotta, ormai incapace di ritrovarsi in una Vienna ed in una realtà irriconoscibile ai suoi occhi.
In “Fuga senza fine. Una storia vera”, il primo degli scritti d’intonazione asburgica, il giovane ufficiale austriaco Franz Tunda è fatto prigioniero sul fronte russo all’inizio della Grande guerra. E solo dopo una lunga, annosa serie di peripezie ed avventure, anche amorose, egli potrà tornare in patria; ma il suo Paese per lui è mutato del tutto: non vi potrà rimanere. Però anche altrove rimarrà pur sempre uno spaesato, un vinto senza più desideri o speranze. In ultimo, due parole su La leggenda del santo bevitore, racconto fra gli ultimi scritti di Roth, ormai tradotto un po’ in tutto il mondo, considerato unanimemente il testamento letterario del Nostro e dal quale venne tratto il bel film omonimo di Olmi. La narrazione, sospesa fra eleganza, elegia e purezza, tratta giusto di un “santo bevitore” che vive e infine muore in una maniera “lieve e bella”, concludendo la propria innocente parabola esistenziale in modo assai diverso da quello che Roth avrebbe auspicato per sé, essendo poi egli morto purtroppo fra gli spasimi del delirium tremens degli alcolizzati, legato alle sponde di un letto d’ospedale.
Le opere di Joseph Roth: Giobbe. Romanzo di un uomo semplice – La Cripta dei Cappuccini – La Marcia di Radetzky – Fuga senza fine. Una storia vera – La leggenda del santo bevitore, sono edite dalla Casa Ed. Adelphi che ha pubblicato tutta l’opera del grande autore austriaco.
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