C’è una passione vivida per la narrativa a sfondo storico nella scrittura di Vito Catalano, autore che ha respirato letteratura sin dalla nascita. È infatti il nipote di Leonardo Sciascia e nella Racalmuto di suo nonno continua a tornare, nella casa in contrada Noce dove Sciascia scrisse tutti i suoi libri. Nel 2016 ebbi la fortuna di visitare con Vito quella casa e di trascorrere insieme a lui e alla sua famiglia italo-polacca un paio di giorni nella essenzialità dei suoi luoghi, in quella parte di Sicilia agrigentina.
Vito Catalano è scrittore in punta di piedi, mi verrebbe da pensare, forse proprio perché la delicatezza del suo tratto umano e stilistico prende le mosse dalla figura di un nonno di straordinaria statura, uomo di Lettere europeo, una pietra di paragone inevitabile nella cultura italiana e che non si data, una limpida voce di ragionamenti duraturi.
Ho recensito lo scorso anno l’ultimo libro di Vito, così ora anziché illustrarne personaggi, sfondo, pensiero e trama, posso ritornare sul testo con questa intervista per il primo numero del blog letterario Cartavetro.
Domanda: Il tuo romanzo Il conte di Racalmuto, uscito per Vallecchi nel 2021, è ambientato nella Sicilia secentesca e prende avvio da un’epigrafe tratta da Le parrocchie di Regalpetra di Sciascia. Sciascia lì si chiede quale possa essere il movente dell’assassinio del conte, avvenuto per mano del servo Antonio Di Vita. E il tuo romanzo fornisce la risposta possibile all’interrogativo posto da tuo nonno. Ecco, parliamo del movente e dei ragionamenti che tu hai portato alla luce nelle pieghe del romanzo. La letteratura è risorsa per indagare la verità dei moventi, piuttosto che per scoprire i colpevoli?
Le verità dell’uomo. E quindi, dopotutto, direi di sì: anche la verità dei moventi. Ma spesso all’origine di un romanzo ci possono essere ragioni più semplici o prosaiche. Quando ho iniziato a scrivere “Il conte di Racalmuto” avevo proprio davanti la domanda di mio nonno che ho poi messo come epigrafe e mi sono detto: Proviamo a costruire tutta una storia attorno alla possibile risposta. E poi a questa specie di sfida giocosa ho intrecciato anche altre cose.
Domanda: Nel tuo libro c’è un personaggio fondamentale, il pittore Pietro D’Asaro, e la questione del suo essere orbo da un occhio mi ha incuriosito. Vorrei sapere se è una caratteristica che hai trovato nelle tue fonti oppure lo hai immaginato tu. E se è stata una tua scelta, volevi per caso ricollegarti a una lunga tradizione di penetranti sguardi di ciechi, da Omero a Borges? O forse volevi riflettere sui difetti fisici che costruiscono una personalità fuori dal comune?
No, Pietro D’Asaro era davvero cieco di un occhio e infatti si firmava “Il Monocolo di Racalmuto”. E secondo i racconti della tradizione era proprio un personaggio romanzesco: insomma, era già una figura apparecchiata per entrare nel genere di storia che ho costruito.
Domanda: Un tema del libro che mi ha fatto molto pensare è quello della resistenza all’orrore dei tempi. L’attrazione fra la contessa e il pittore viene vissuta consapevolmente da entrambi, sfidando la paura per le conseguenze, nella ricerca della bellezza di un rapporto umano. E alla fine la contessa viene ritratta dal pittore con le fattezze di una Madonna immacolata. Come a dire che le macchie sono ben altre.
Noi viviamo attanagliati da ogni tipo di paura: guerra, virus, la strada con i suoi record di morti vittime di incidenti stradali, l’emergenza climatica. Puoi darci qualche tua riflessione sulla paura, che è un tema fondamentale del tuo libro?
La paura c’è sempre nelle mie storie. Amo le atmosfere vecchio stile, l’immagine di un narratore attorno al fuoco che racconta una storia che emoziona e che spaventa. Sono cresciuto leggendo, ascoltando e anche vedendo (il cinema ha avuto certo un ruolo nella mia formazione) storie così; e da narratore mi piace crearle. E a proposito della paura mi piace ricordare l’ultima pagina di quel gran bel romanzo che è “La partita” di Alberto Ongaro libro che vinse il premio Campiello nel 1986: “Ma io ho imparato a mie spese che la paura è lo strumento di conoscenza più potente che esista. Più dell’immaginazione la paura sprigiona segnali luminosi anche nel buio, mette di fronte al mistero che c’è nella vita di ognuno; è forse un animale feroce, ma intelligente e fedele cui si deve rispetto.”
Domanda: In un tuo libro precedente, La sciabola spezzata, pure di argomento storico, edito da Rubbettino nel 2013, narri la vicenda di un garibaldino siciliano che si unisce agli insorti polacchi nel 1863 per combattere contro i russi. A quell’epoca la Polonia non esisteva più sulla carta geografica, e del suo territorio si erano appropriate Austria Prussia e Russia. Lo sfondo del tuo libro sembra quello di oggi, con l’Ucraina al posto della Polonia e la questione di una guerra in atto, dal sapore anche risorgimentale.
Seicento, Ottocento, Ventunesimo secolo, non importa l’epoca: lo sfondo della storia europea è ugualmente desolante nelle stesse coazioni a ripetere. Nel tuo sguardo di scrittore tuttavia sembra esserci uno scatto in avanti, qualcosa che non si lascia paralizzare dagli occhi di Medusa. Sono le donne di pensiero che fanno quello scatto, o forse scarto, di lato. La Marta de La sciabola spezzata, la Beatrice de Il conte di Racalmuto, pensano riflettono agiscono. Vuoi parlare di questa attenzione per le tue figure e di come le hai concepite?
Credo che lo scenario bellico e più in generale gli scenari terribili portino l’uomo, il singolo uomo, a disvelarsi. Verrà fuori più facilmente l’animo nobile così come l’animo abietto. In una situazione tranquilla o di benessere, la nobiltà si può notare meno e l’abiezione si può mascherare più facilmente.
Non sempre è facile ricostruire il processo che ti ha portato a concepire un personaggio nel modo in cui lo hai concepito. Per la contessa Beatrice come per il pittore Pietro D’Asaro la radice è nel racconto tradizionale. Secondo quanto viene ancora oggi tramandato, la contessa graziò l’assassino di suo marito ma quest’atto non viene attribuito a una tresca tra la contessa e il servo omicida. Dunque la mia immaginazione ha percorso una strada aperta dalla domanda: Perché la contessa salva l’assassino? In un tempo e in un luogo, lo ricordiamo, dove i poveracci venivano impiccati con facilità e nel caso in questione si trattava addirittura di un servo colpevole dell’omicidio del suo signore.
Molte altre volte e credo sia il caso di Marta ne “La sciabola spezzata” nella costruzione del personaggio l’immaginazione si intreccia alla memoria: figure di donne che ho conosciuto nella vita e figure di donne che ho conosciuto nelle letture. E lo stesso discorso vale per i personaggi maschili, naturalmente.
Domanda: Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Italo Calvino. Le sue Lezioni americane restano come ispirazione grazie alla quale si può continuare a scrivere la letteratura del ventunesimo secolo. Ce ne lasciò cinque, di lezioni, ma avrebbero dovuto essere sei. L’ultima, Consistenza, non vide la luce perché Calvino morì prima di lasciarci intero quello scritto. Ecco, a me sembra che la letteratura odierna non abbia consistenza, densità di pensiero, e che la trama di un libro faccia ormai premio su tutto il resto.
Provo a spiegarmi meglio: digressioni, pensieri che tralucevano nella descrizione di un personaggio con i suoi fastidi o il suo cinismo, tracce che portavano a deduzioni implicite alla luce di altre, precedenti letture di altri libri, di altri saggi. Ma anche situazioni descritte in un’opera da cui affioravano testi di autori diversi che però si potevano riconoscere in controluce e si ricollegavano ad altri scritti. Ad esempio nel tuo Il conte di Racalmuto frate Andrea viene ucciso da qualcuno che spara da dietro un sacco, ed ho pensato al Colasberna ucciso da qualcuno nascosto dietro un sacco di carbone lungo la strada, nelle prime pagine de Il giorno della civetta. Oppure il tuo frate Evodio che viene consultato come il Fra Cristoforo de I Promessi sposi, e che ricorda per il fatto di saperne una più del diavolo il don Gaetano di Todo modo.
Ecco, tutto questo nella letteratura odierna è quasi irrintracciabile, e a me sembra una gran perdita. Moltissime pagine pubblicate sono senza consistenza. Condividi questa mia impressione oppure la mia è solo malinconia?
La tua malinconia è anche mia. Forse siamo due grandi malinconici…
Grazie Vito e aspettiamo di leggere il tuo prossimo libro, che avrà ancora argomento storico e sarà pubblicato di nuovo da Vallecchi. Puoi anticiparci almeno il titolo?
Il titolo è “La figlia dell’avvelenatrice”. Ancora una volta misteri e duelli, agguati e inganni. Ancora una volta la Sicilia del passato. Ma stavolta siamo nel Settecento.
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