Galileo Galilei (1564-1642). Olio su tela di Justus Sustermans

Non tornerò certo a rovistare sui possibili significati nascostamente etici o palesemente opportunistici di un vecchio uomo, quasi cieco, che forse mormorò queste parole – per lui di verità – uscendo dall’aula processuale, dove eppure aveva pronunciato la ritrattazione delle sue teorie scientifiche rivoluzionarie. Mai nemmeno sono riuscita a incunearmi in quelle sofferenze di tortura che rovesciarono, rovesciano e rovesceranno alcuni patrioti della libertà – nel mondo tutto – alla resa, al lasciarsi strappare nomi, informazioni, controverità. E la mia sospensione non è un’epoché pietistica né un’epoché scettica, ma solo un ritrarmi di fronte a una difficoltà umana che sento anche attualmente – e retrospettivamente o futuristicamente in immaginarie ipotetiche situazioni simili – come sicuramente mia.
Ma il nostro tempo è, volenti o nolenti, copernicano.
Siamo nell’“epoca che ha acquisito la consapevolezza definitiva della struttura intersoggettiva [mia la sottolineatura] della realtà. La sociologia, l’antropologia e l’ermeneutica ci insegnano che gli altri sono parte costitutiva del nostro orizzonte di vita (…). L’esistenza degli altri, l’essere insieme, la pluralità è un dato di senso comune nella cultura contemporanea.”[i], dice Laura Boella. Profondamente si è “consapevoli che l’alterità non solo caratterizza il vivere sociale,” – l’uomo-animale-sociale aristotelico è una limitazione della disabile ottica tolemaica – “ma abita la dimora che ognuno ritiene più propria, quella dell’interiorità.”[ii].
Credo che alla base di questa nuova consapevolezza della realtà ci siano gli incredibili sottosopra della meccanica quantistica, la quale si è permessa di ribaltare tutta quanta la concezione dell’universo, sostituendo persino le proposizioni di certezza scientifica, di legge, di logica, di osservazione, di identità. Non con diverse proposizioni, ma con ipotesi probabilistiche, ‘contraddizioni’, assurdi. Nel mondo subatomico, certo, quello delle altissime velocità, delle microparticelle, ma anche quello che – per quanto ora ne sappiamo – costituisce la grana di tutto quanto l’universo, quindi il fondamento certissimo – almeno questo – dell’universale sororità. Comunque, dalla meccanica quantistica in poi sappiamo che l’osservatore influenza l’oggetto che osserva; che l’oggetto in questione si comporta in un modo se osservato, in un altro se ignorato – come se lo sapesse! –; che “il solo fatto di osservare” è “sufficiente a modificare la realtà.”[iii] C’è poi uno strano fenomeno che si chiama entanglement (aggrovigliamento, garbuglio), per il quale la “relazione fra due oggetti non è qualcosa che sia contenuta nell’uno o nell’altro: è di più. Questa interconnessione fra tutti i componenti dell’universo è sconcertante.”  Se si pensa che ogni atomo del nostro corpo si è “allacciato con miliardi di altri atomi sparsi nella galassia…”, c’è da sentirlo “mescolato col cosmo”, dice Rovelli; comunque la realtà è che “due oggetti hanno –insieme – più caratteristiche dei due oggetti separati.” [iv]. C’è chi, come il fisico Federico Faggin[v], inventore dei microprocessori, partendo da qui, dall’entanglement, osa allargare la ricerca al mondo interiore umano, alla coscienza, all’identità, con esiti molto interessanti, interrompendo finalmente un diffuso atteggiamento riduzionistico e deterministico di molti scienziati e studiosi, incredibilmente chiusi in comportamenti e convinzioni da positivismo ottocentesco.
Eppure siamo nel tempo in cui, contro ogni ragionevole razionale storica prospettiva umanistica, rinascono da ogni parte affermazioni contro l’esistenza stessa del libero arbitrio, quindi della ‘scelta’, dell’impegno morale ed etico, della responsabilità; equiparazioni tra il cervello e l’intelligenza artificiale, per cui l’identità cosciente umana sarebbe solo una funzione per collegare le altre funzioni o comunque solo l’effetto del loro funzionamento, destinata a cadere col loro spegnimento e, tutto sommato, inutile e illusoria. Addirittura, negli ultimissimi tempi, quest’intelligenza artificiale è talmente sbandierata nei suoi esiti plurimolteplici, da avere provocato un diffuso timore sociale, serpeggiante per i social e i talk show, che ricorda certe opere di fantascienza alla Isaac Asimov.
Ma, peggio ancora, assistiamo al sorgere di nazionalismi, alla creazione di confini sacri da contendere con la guerra, al diffondersi di ideologie che si incentrano sui concetti di razza, etnia, popolo, persino natalità, tutti schierati contro l’altro-diverso, quindinemico, pericoloso antagonista, ladro temibile di risorse e situazioni, veniente da fuori: migrante extracomunitario.
“L’incapacità di sentire l’altro è sempre più alla ribalta dell’epoca contemporanea.”[vi]
Eppure la nostra è l’epoca in cui abbiamo osato superare gli antichi schematismi piramidali degli esseri presenti nell’universo, in nome di un concetto nuovo: interconnessione. Tra le tante acquisizioni, ci si sono aperti gli occhi sulle piante, la loro complessa vita, così diversa dalla nostra da farcela sentire aliena, come mai avevamo immaginato, nemmeno gli ufo. La botanica è una delle branche di ricerca tra le più rivoluzionate dai nuovi studi e osservazioni. Da un ruolo assolutamente passivo imposto dalla cultura umanistica, da un abuso arboricolo sterminante delle ‘civiltà’ moderne, siamo arrivati oggi alla ritardataria consapevolezza che gli enti vegetali, i più antichi del globo, hanno avuto un ruolo essenziale per la vita: sono proprio loro che hanno terraformato il pianeta, quale ci ha poi permesso, a noi animali, di avere vita ed evoluzione; peraltro ingegnandosi ad elaborare raffinatissime forme di ricarica riproduttiva direttamente dall’energia presente in forme naturali, quando noi siamo ancora qui ad arrabattarci con la scienza per tentare di domare l’atomo senza autodistruggerci.Sono loro inoltre – lo sapevamo, ma senza saperlo davvero – che ci garantiscono il fiato, ripulendo ogni giorno l’aria dall’anidride carbonica. E abbiamo scoperto che comunicano, fanno scelte, si organizzano, collaborano strettamente con specie animali, pur senza cervelli o apparati neurologici. Di colpo siamo stati trascinati da ricercatori e divulgatori scientifici vegetalisti, divenuti presto acclamati e ricercati come star del rock, e quindi onnipresenti presenzialisti in talk show, inchieste ecologiste, convegni, conferenze, nonché firmatari di bestseller e documentari. Fenomeno che qui non si vuole attaccare nei suoi aspetti più materiali come il business, quanto sottolineare per mostrarne il carattere di novità rivoluzionaria trascinatrice, stupefacente, fascinosa. Vero è che motrice della ricerca e dell’interesse è stata anche la scoperta di potere trasportare nella produzione industriale alcune tecniche e strutture del mondo vegetale molto proficue (chi non ha in casa uno straccetto in microfibra?), nonché, certamente, la preoccupazione per la situazione disastrosa dell’ecologia planetaria e l’accorgerci di dipendere soprattutto dalle piante per respirare. Un po’ più indietro, ancora, il terzo ambito, quello minerale, molto spesso ancora relegato nella categoria dei ‘non-viventi’, morto, mortissimo, inerte. Anche quando i saggisti lo includono nelle premesse generali, poi lungo i capitoli se ne dimenticano, e di fatto restano nell’osservazione solo animali e vegetali. Non fosse per certe categorie di studiosi virgolettati (quelli che affiancano gli oroscopi con le pietre dei segni zodiacali – io ho gli opali –, quelli che ne scrutano le proprietà taumaturgiche, quelli che li classificano portatori di bene o di male – me li hanno rovinati, gli opali, dichiarandoli portatori di sfortuna –  o di altre  capacità umanoidi, ecc.) o, ben diversamente, di grandi artisti che sanno sentire e vedere e mettere a nudo l’anima dentro la pietra, l’aria, l’acqua, la creta, la luce, il mondo interconnesso ( da Michelangelo a  Maria Lai, a Pinuccio Sciola, a Italo Lanfredini, a Silvia Guberti, tra i primi artisti amati che mi vengono in mente, ma subito accanto ai pittori tutti che con la materia ‘inerte’ come i colori bucano l’apparenza e osano l’oltre; e non dimenticando i musicisti che dell’aria e del silenzio fanno bellezza anche nel dissesto disarmonico; e nemmeno i poeti che la parola fanno divenire canto del tutto mescolato insieme; e… basta!, sto esondando), se non fosse per loro, questo terzo settore dell’esistente sarebbe ancora abbastanza abbandonato  alla mortifera inerzia. A onor del vero io credo che i ‘paleolitici’, magari non ancora proprio del tutto homo homo – praticus, intendo –, avessero con il mondo minerale – con l’intero mondo, a dirla tutta – un rapporto di rispetto conoscitivo molto più avanzato del nostro: penso ad esempio alle pietre megalitiche di Stonehenge, trascinate lì da lontano e non da cave vicine, perché i costruttori sapevano che solo quel certo tipo di pietra poteva veicolare i segni che loro volevano trasmettere; penso alle statuette di sasso della Grande Madre che osavano incarnare il divino come le kachine Hopi, o l’acqua in fondo al pozzo sacro dove il sole o la luna venivano una, due volte l’anno a ripristinare il tempo.
Comunque, in un modo o nell’altro, il mondo ha smesso di essere schematizzato in regni separati, ordinati in una piramide con l’homo sapiens sapiens assiso sulla punta imperiale.  Impossibile oggi concepirsi “al di fuori di un rapporto di continuità tra il nostro io e l’io degli altri, tra la vita umana e la vita non umana, tra la vita e la materia del mondo.” Nascere significa portare “sempre qualcos’altro oltre me stesso. (…) che si tratti di parole, di odori, di visioni o di molecole. (…) Io veicolo un passato ancestrale e sono destinato a un futuro inimmaginabile (…)l’io non è che un veicolo: qualcosa che trasporta sempre qualcun altro oltre sé.”[vii] L’interrelazione è per Coccia allora una forma continua di metamorfosi, cioè una “condizione che obbliga a covare [mia la sottolineatura] l’altro in sé (…) avere in sé qualcosa che viene da altrove (…) Portiamo in noi i nostri genitori, i nostri nonni, i loro genitori, le scimmie preumane, i pesci, i batteri, fino ai più infinitesimi atomi di carbonio, di ossigeno, di azoto, ecc.”[viii]. Peccato che la condizione metamorfica descritta non gli sembri positiva: essa “obbliga”, ed in modo tale che non si possa “mai essere interamente sé stessi”, né “fondersi interamente nell’altro”, così che quanto “viene da altrove” è “qualcosa di estraneo [mia la sottolineatura]” – e ci risiamo – “che ci spinge a diventare ogni volta estranei a noi stessi. (…) Non saremo mai omogenei, trasparenti, perfettamente riconoscibili.”. “Proprio in quanto libera, questa forza circola da un corpo all’altro, è a disposizione di tutti, soggetta ad appropriazione da parte di ognuno di essi. Ma così come appropriarsi di un virus significa contaminarsi, trasformarsi, metamorfizzarsi, appropriarsi del futuro significa esporsi a un cambiamento irreparabile.”[ix] Fuori contesto, potrebbero essere anche le parole di un politico di oggi, preoccupato che le immigrazioni non controllate possano stravolgere la proporzione etnica tra autoctoni e non. Anche il finale, apparentemente rassegnato, resta molto inquietante: “L’avvenire, in fondo, è la malattia dell’eternità. (…) Non è una malattia da cui dobbiamo proteggerci. (…) Sarebbe inutile. La nostra carne non smetterà mai di cambiare. Dobbiamo ammalarci, ammalarci gravemente. E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso.”[x] Sic.
Molto più positivamente Letizia Tomassone ci indica nell’ambito della riflessione religiosa e di donne, una consapevolezza forte del cambiamento in atto della weltanschauung ed una volontà di non perdere l’occasione che si offre per indirizzarlo, anche praticamente, verso la ricerca di un “nuovo clima di giustizia”. Per Rosi Braidotti[xi] “dobbiamo allargare il nostro senso di empatia fuori dei confini umani e fuori dai confini della specie: raggiungere una perdita del senso di sé antropocentrico, per affrontare il futuro che ha bisogno di un’immaginazione diversa (…) Zoe è una forza trascendente da cui bisogna farsi portare, perché qui stanno la forza e il segreto per costruire un mondo diverso, un senso più grande di sé, che renda partecipi e non dominanti o accentratori. (…) la brasiliana Gebara[xii] afferma che la coscienza umana dovrebbe recuperare [mia la sottolineatura]la consapevolezza di non essere separata dal resto della natura. “Dobbiamo trovare una nuova comprensione della nostra personale esistenza nel largo sé che è il Corpo Sacro del mondo” scrive Gebara”[xiii]; “La prospettiva ecofemminista, secondo Gebara, ha proprio, come scopo, quello di aprire l’umanità contemporanea all’importanza di questo corpo più vasto di cui siamo parte. La nozione di comunione con, piuttosto che di conquista, dovrebbe quindi influire sui nostri rapporti con la terra e con lo spazio.”[xiv]. L’interconnessione e la reciproca trasformazione sono nuovi paradigmi che non possono separarsi dalla necessità di un diverso mondo sociale e politico, dove le disparità, le sopraffazioni, le ingiustizie globali e locali attuali devono essere abolite, insieme a quell’uso-consumo del globo che ha sradicato l’umanità stessa dalla terra, dalla sua stessa possibilità di sopravvivenza.
Non ci sono segnali, però, che le nazioni del mondo intendano affrontare alla radice i mali dell’Antropocene, dal sistema economico di produzione e consumo allo sfruttamento indiscriminato delle risorse, al mantenimento – anzi all’aggravamento – delle differenze tra potenti e sottomessi sulla terra.
Mentre solo ci si riempie la bocca con la parola interconnessione.
Parola di per sé eccessiva: da ‘connettere’, derivata dal latino cum-nectere, dove già nectere, e anche connettere, significa legare, incatenare, annodare, mettere insieme; parola sorella degli ‘iper’, ‘extra’, ‘mega’, ‘super’, ecc. che ci invadono quotidianamente, dalle misure dei vestiti ai luoghi deputati a gestire i bisogni e i desideri della gente, come i grandi magazzini e le discoteche; dalla connotazione di esperienze o abilità o caratteristiche di persone e cose alla definizione di luoghi, situazioni, emozioni; come se per se stessi non fossero più significanti, come se potessero scomparire senza queste sottolineature, tese a farne comunque delle eccezionalità. Singolari, singolarissime. Altro che interconnessione! Sembrerebbe il frutto di un attaccamento morboso, quindi, alla soggettività, all’individualismo. Ma della sana, normale soggettività c’è solo l’apparenza, mentre dominano i derivati dell’eccesso: l’egoismo, il centrare su sé ogni relazione col mondo, l’indifferenza ai bisogni degli altri e la disponibilità ad usarli per fini solo propri, da una parte; e dall’altra una vuotezza interiore da creare una dipendenza quasi assoluta dall’esterno-di-sé per darsi consistenza: così la costruzione di propri immaginari avatar sui social, la subordinazione feticistica alle mode, alle griffe, a gruppi-gang di appartenenza, ai modi gergali nuovi del linguaggio, a gestualità e comportamenti copiaincollati dai media. A meno che non si veda nella diffusa competitività tra singoli l’attuale forma dell’interconnessione, senza trascurare la connessione all’altro patita in senso negativo, oppositivo, bellico; mentre si registrano sempre notevoli difficoltà per le aggregazioni con fini di solidarietà, scambio, conoscenza, lotte sociali.
In questo impersonale catastrofico, pure consapevole della nuova veltanschauung copernicana, ci sono anch’io, coi piedi saldamente piantati in un ipersupermercato tolemaico, magari scuotendo la testa nel venir via dalla cassa, e mormorando: eppure, eppure…


[i] Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p.XXI

[ii] Ivi, p.XXV

[iii] Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano, 2020, p.42

[iv] Ivi, p 103. “Nella fisica dei quanti, si chiama entanglement il fenomeno per cui due oggetti distanti tra loro, per esempio due particelle che si sono incontrate nel passato, conservano una sorta di strano legame, come potessero continuare a parlarsi [mia la sottolineatura]. (…) Restano, si dice, entangled, allacciati. È un fenomeno ben verificato in laboratorio. Recentemente scienziati cinesi sono riusciti a mantenere entangled due fotoni a distanza di migliaia di chilometri l’uno dall’altro. (…) due fotoni entangled hanno caratteristiche correlate: cioè se uno è rosso, anche l’altro è rosso; se uno è blu, anche l’altro è blu. (…) La stranezza nasce se la coppia di fotoni (…) è in una sovrapposizione quantistica (…) di una configurazione in cui sono entrambi rossi, e in una in cui sono entrambi blu. Ciascun fotone può rivelarsi tanto rosso che blu al momento dell’osservazione, ma se uno si rivelerà rosso, anche l’altro – lontano – farà lo stesso. (…) fino al momento in cui non lo guardiamo, ciascuno dei due fotoni non è né definitivamente rosso, né definitivamente blu. Il colore si determina in maniera casuale solo nel momento in cui guardiamo.” (pp.100-101) Non può trattarsi di una comunicazione tra loro, perché, data la lontananza dovrebbe superare la velocità della luce e si dovrebbe definire uno strano concetto di simultaneità. Come fanno allora? Non si sa.

[v] Si veda l’interessante libro di Federico Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, Milano 2022

[vi] Laura Boella, cit., p.XXI

[vii] Emanuele Coccia, Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita, Einaudi. Torino 2022, p.19

[viii] Ivi, pp. 42-3

[ix] Ivi, pp.42-3; p.179

[x] Ivi, p.179

[xi] Filosofa italiana, laureata all’Università di Canberra (Australia), ha conseguito il dottorato alla Sorbona, ha diretto la Scuola olandese di ricerca in Women’s studies, insegna all’università di Utrecht.

[xii]Ivone Gebara, di origini siro-libanesi, nata in Brasile nel 1944, teologa cattolica, ma nel solco della teologia della liberazione, monaca agostiniana, condannata dal Vaticano per le critiche alla Chiesa e le sue posizioni sull’aborto. 

[xiii]  Letizia Tomassone, Crisi ambientale ed etica. Un nuovo clima di giustizia, Claudiana, Torino, 2015, pp.56-7

[xiv] Ivi, p.101

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