Erano cinque i film italiani in concorso e solo Vermiglio ha guadagnato un premio (e che premio!).  Un verdetto forse doverosamente attento a distribuire riconoscimenti seguendo criteri geo-politici il più ampi possibile, valorizzando diverse cinematografie che onorano con la loro presenza un festival internazionale. Tuttavia, a mio parere aver ignorato completamente Queer è stato davvero riduttivo. Senza scombussolare troppo l’ordine internazionale vorrei tranquillamente affermare che l’interpretazione di Daniel Craig non è certamente seconda a quella del francese Vincent Lindon che ha certamente retto il suo film ma ha mostrato il suo miglior talento e costruito la sua bravura e fama precedentemente. Ma dobbiamo accettare le decisioni della Giuria e commentare i film. Tratto dal romanzo omonimo di William Burroughs, scritto nel 1952 ma pubblicato solo nel 1985, il film di Luca Guadagnino si concentra sullo scrittore William Lee, benestante quanto basta per godersi (si fa per dire) una vacanza in Messico dove poter trovare soddisfazione al suo famelico desiderio di corpi giovani e maschili lontano dalla pruderie del suo paese. Il suo è un peregrinare tra una fumata e l’altra da un bar all’altro finché non si imbatte in Eugene Allerton, interpretato da Drew Starkey, giovanotto che non si dichiara gay e si fa vedere spesso in compagnia di una ragazza, ma inevitabilmente finisce nel letto dello scrittore. Il loro rapporto tuttavia non sazia l’ansia di totale conquista del quarantenne yankee, intenzionato a possedere oltre che il corpo, anche la mente del suo giovane amante. E per questo intraprende un viaggio nella giungla sudamericana alla ricerca di una misteriosa studiosa che si dice abbia trovato il segreto della telepatia. Il regista inscena la sua personale lettura del romanzo dedicando l’attenzione maggiore agli “spostamenti progressivi del piacere” che a ben vedere sono più mentali che fisici, pur mostrati con coreografico “realismo poetico”. Realismo e immaginazione che si contendono continuamente il primo piano del racconto dividendolo quasi a metà tra civiltà e foresta. Equilibrio non facile ma cinematograficamente perfetto. Evidenti echi fassbinderiani e svoli fanta-scinetifici colorano la fotografia sottolineata da commenti musicali sofisticati e molto ben inseriti.

Daniel Craig dà volto, corpo e movenze a un personaggio che lo strappa dall’iconico virile 007 che lo ha fatto conoscere all’universo mondo, e lo mostra capace di un mimetismo che non concede nulla ai luoghi comuni coi quali il cinema spesso raffigura gli omosessuali, e disegna un uomo consapevole della propria mascolina diversità, priva di ogni ridondante o peccaminosa sovrastruttura culturale.

Per restare in ambito liberatorio e libertario vale la pena segnalare Diva futura, denominazione dell’agenzia di pornostar creata da Riccardo Schicchi e Ilona Staller nel 1983. Il film, diretto da Giulia Louise Steigerwalt , è sostanzialmente una commedia che ripercorre la parabola della factory raccontata da Debora Attanasio, interpretata da Barbara Ronchi, che pubblicherà proprio nel 1983 il libro “Non dite alla mamma che faccio la segretaria”. Titolo e affermazione esplicitamente ironica che ricorda (almeno a me) la Giuni Russo di Alghero, dove andava in vacanza con uno straniero all’insaputa della genitrice. Devo dire che non conoscevo la storia, ma posso dire che il film si vede con discreto divertimento e inconsapevole leggerezza, accontentandosi di quanto mostrato: un tuffo in un passato veramente passato, quando si respirava un’aria di ribellione e liberazione impensabile oggi. Oggi nessuno più sfida la morale, il bigottismo forse anche perché questo Occidente decadente digerisce tutto. Quindi ho guardato al film come a un piccolo documentario che all’epoca mi ero perso, attratto come non ero da quel mondo di erotismo e “pornografia” così lontano dai miei interessi socio-politico-culturali che mi dirigevano prevalentemente sul cinema “impegnato”. Cosa mi sono perso! E a cosa è servito tanto rigore se oggi la vera pornografia governa, non solo culturalmente, questo paese e buona parte del mondo. Lo so, non ho parlato molto del film, ma se volete anche voi fare un tuffo nel passato e riemergerne comunque intonsi, buon divertimento.

Potrebbe risultare certamente più interessante e con una tematica decisamente più drammatica, affrontare Iddu – L’ultimo padrino dei registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Il racconto si ispira liberamente alla vicenda del lungo-latitante Matteo Messina Denaro, cui presta anima e corpo l’ottimo Elio Germano, in rapporto epistolare con il personaggio di un Preside, di ambigua emblematicità democristiana, non a caso appena dimesso dal carcere dopo alcuni anni di detenzione, guidato e ricattato dai “Servizi” (segreti), cui dà vita e spessore Toni Servillo, dall’enigmatico volto e sempre al top delle prestazioni. Il film si muove su un registro inevitabilmente grottesco e sembra sempre sul punto di risolvere la sua funzione narrativa, invece mi lascia sempre un po’ a bocca asciutta. Si respira infatti un senso di incompiutezza che impedisce al racconto di decollare e mancare quel legame, forse cercato, coi drammi alla Petri del cinema politico degli indimenticabili anni ’70. Ma è anche vero che un film non può certo porre certezze e conclusioni che la realtà storica di questo Paese non ha certamente rivelato, al massimo può provare a illuminare qualche zona di buio. Ma la notte italiana è davvero, purtroppo, spesso impenetrabile.

Ci prova Gianni Amelio a mettere lo spettatore davanti a una realtà ormai acclarata storicamente: il dramma dei militari mandati e ri-mandati al macello sui fronti di guerra. Una esecuzione a scopo dimostrativo nei confronti di un soldato presunto simulatore autolesionista è chiara anticipazione di quel Campo di battaglia che si prolunga e invade anche un ospedale, che sul finire della Prima Guerra Mondiale, nelle retrovie Veneto-Friulane, ospita giovani feriti, speranzosi di poter far ritorno a casa, grazie proprio a quelle ferite. Tra le corsie insanguinate operano due medici: Stefano, interpretato da Gabriele Montesi, estremamente diffidente sull’origine e sulla gravità delle condizioni dei ricoverati e ossessionato dal pensiero dell’autolesionismo procurato proprio per scampare di nuovo alla trincea, e Giulio, interpretato da Alessandro Borghi, invece molto sensibile a quelle sofferenze e pur combattuto dal dubbio, disponibilissimo ad aiutare quei giovani ad essere dispensati dal servizio. Tra loro si inserisce la figura di Anna, collega di università cui è stata negata la laurea perché donna e costretta a ripiegare sull’assitenza infermieristica, cui da corpo Federica Rosellini. Il film si apre con una simbolica sequenza che esplicita il tema del film: da un cumulo di cadaveri si apre un varco una mano spalancata che reclama di vivere. Personalmente trovo il film molto rigoroso nel restare lontano dal fronte ma dentro al conflitto. Forse non si ritrova il forte potere di denuncia di memorabili Uomini contro perché l’obiettivo è stato spostato, diretto stavolta a mostrare la distruttività della guerra sull’umanità, intesa proprio come corpi fisici, persone in carne e ossa, al pari delle malattie, delle pandemie. Il film precisa infatti il contesto temporale: l’Autunno 1918, il finire della guerra che coincide con l’ondata più letale dell’epidemia di Spagnola, che provocò tra i 500 e i 600 mila morti solo in Italia, (milioni nel mondo). L’originalità del film è anche riportare questa coincidenza tra le due calamità, quella sanitaria e quella bellica, che raramente o forse mai, a mia memoria e conoscenza, sono state mostrate dal cinema con questo efficace parallelismo.

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