Una nuova stagione cinematografica sta per aprirsi e la Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia è da sempre l’anteprima che promuove e suggerisce ciò che nel prossimo futuro vivremo sugli schermi delle nostre città. Venezia 80 è stata un’edizione come sempre molto ricca, ma la particolarità di quest’anno è che i pronostici della critica che nel corso dei 10 giorni di Festival scandivano e aggiornavano la classifica dei preferiti, sono stati ampiamente riconosciuti dalla Giuria deputata ad assegnare gli agognati Leoni. Ebbene sì, la premiazione non ha riservato sorprese. Il favorito della critica ha, direi giustamente, vinto il Leone d’oro come Miglior film. Poor things (Povere creauture – uscirà a fine Gennaio in Italia) che trae origine dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray ci racconta una figura femminile alquanto particolare e il suo percorso vitale lo è ancora di più. La protagonista si chiama Bella Baxter e ha il corpo di una giovane donna più bella del suo nome (Emma Stone). Ma le è stato trapiantato nel cranio il cervello del bambino di cui era incinta, ad opera di uno scienziato, novello Frankenstein, il dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe), che senza alcuna difficoltà si fa chiamare semplicemente God. La cosa appare piuttosto cruda e onestamente lo è, ma il bello deve ancora venire, perché la ragazza ha tutto da imparare. Infatti spiaccica faticosamente qualche parola e ne impara una nuova ogni giorno, fino a che scopre, casualmente, i piaceri del corpo. E qui è meglio fermarsi per permettere al pubblico di verificare di persona cosa accadrà. Il pluripremiato regista greco Yorgo Lanthimos confeziona una esilarante fiaba gotica tra bianco e nero e colore ambientata in un Novecento credibile e surreale allo stesso tempo. Il racconto parte in una clinica nel cui cortile ciondolano animali ibridi: galline con la testa di pecore, caprette con la testa di oche, testimonianze della folle attività del suddetto dottore. Bella lentamente si emancipa dal suo creatore e si lascia sedurre da un focoso avventuriero (Mark Ruffalo) che la strappa al promesso sposo per portarla nel mondo. Lisbona, Atene, Alessandria d’Egitto, Parigi sono le tappe di un romanzo di formazione che sfocia nella completa autodeterminazione della ragazza che si libererà anche dell’amante per affermare il proprio potere sul corpo e sulla vita. Così commenta Emma Stone la sua avventura nel film: L’idea di poter ricominciare da capo come donna, con questo corpo già formato e vedere tutto per la prima volta, provando a capire la natura della sessualità, del potere, del denaro, o delle scelte, con la capacità di decidere di vivere secondo le proprie regole e non quelle della società, mi è sembrata davvero affascinante.
Ryusuke Hamaguchi, già premiato in altri festival per Drive my car e Il gioco del destino e della fantasia si aggiudica il Gran Premio della Giuria per Il diavolo non esiste. Ho molto apprezzato questo film che inizia con una lunga sequenza di un personaggio che raccoglie acqua dalla sorgente di un fiumiciattolo per riempirne taniche da portare al villaggio. Siamo a Mizubiki, non lontano da Tokyo, e sono immagini bellissime che riportano indietro nel tempo, quando anche qui si poteva bere l’acqua appena uscita dalla terra. Takumi (Hitoshi Omika), questo il nome del personaggio, è il tuttofare del paese, ha una figlia Hana ed è vedovo. Un brutto giorno si presentano due giovani per comunicare che una società costruirà nel villaggio un glamping, che spiegano essere un campeggio molto glamour, insomma un posto di lusso per ricchi turisti. Naturale la sorpresa e la diffidenza degli abitanti che scoprono che proprio quell’acqua che bevono rischia l’inquinamento. Storia davvero emozionante che vive dei tempi lunghi della natura e delle inquadrature, ma che sa prendere lo spettatore con la forza della orientale fermezza e tranquillità. La partenza sembra un po’ lenta, invece è il fondamento dell’intera storia, e quando si giunge alla scena dell’assemblea cittadina il film prende il volo. Suggerimento: per non farsi sorprendere dal finale occorre prestare molta attenzione alle parole del saggio Takumi quando parla dei cervi.
La giuria ha poi assegnato un Premio Speciale a Green border (Il confine verde) di Agnieszka Holland. Forse il titolo più duro dell’intera Mostra. Siamo sul confine tra Bielorussia e Polonia, dove i due governi si rimpallano la presenza dei migranti che arrivano dai martoriati territori del Medio Oriente. Girato quasi tutto in notturna è un atto d’accusa potente soprattutto nei confronti dei governi dei due paesi e di quell’Unione Europea che tanto si fregia di difendere i diritti umani e poi lascia morire uomini, donne, vecchi e bambini di là da un filo spinato che segna il confine tra umanità e violenza, tra solidarietà e indifferenza. Difficile definirlo un film bellissimo, date le immagini di documentaria passione e sofferenza, allora meglio dire che è un film importantissimo e imperdibile. Sarebbe forse utile chiudere in una sala tutti i governanti europei, dalla Ursula in giù, con gli occhi meccanicamente spalancati come quelli del povero Malcolm McDowell di Arancia meccanica, e mostrargli ciò che sanno già benissimo ma non muovono un dito per farne cessare lo scempio. Dal 2014 ad oggi, afferma la regista polacca, più di 60.000 persone sono morte su quel confine, e il crimine umanitario è ancora in corso. Anche Matteo Garrone, Leone d’Argento come miglior regista, dedica il suo sguardo al viaggio dei migranti verso un possibile benessere. Si parte dal Senegal, dove due giovani cugini sognano l’Europa per fare la musica che amano, per vedere il mondo. Non capiscono perché lì arrivino turisti da ogni dove e loro non possano fare altrettanto e viaggiare con un passaporto regolare su voli regolari. Per raggiungere la loro meta debbono affidarsi all’inimmaginabile. Insieme attraversano il deserto, restano prigionieri in Libia, nei lager che l’Europa e l’Italia finanziano e poi fingono di non vedere. È un’odissea tragica che il giovane Seydou (Seydou Sarr) accetta di condurre, lui che non sa neanche nuotare, alla guida di un barcone che gli viene affidato perché essendo minorenne non sarà pesantemente condannato dalla “giustizia” italiana. Costretto a fare lo scafista si impone di portare tutti in salvo e al grido gioioso e liberatorio di Io Capitano vedrà finalmente la terra. Garrone pone la sua macchina da presa al servizio del viaggio mantenendosi sul piano realistico e concedendo al sogno e alla fantasia solo poche inquadrature, tanto belle quanto necessarie, perché la fantasia sembra non abbandonare mai la smisurata volontà di resistere del giovane protagonista.
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