
La prima parte del 2023 è stata caratterizzata, nelle nostre sale più indipendenti e appartate, da una bella vitalità del giovane cinema europeo. Tra i vari titoli apparsi, due opere prime (The Quiet Girl e L’amore secondo Dalva) e un’opera seconda (Close) hanno affrontato il tema dell’adolescenza con sensibilità straordinaria e cifra stilistica così matura da lasciar presagire un futuro luminoso per il cinema franco-belga e irlandese. Ma vediamo le opere nel dettaglio.

Close di Lukas Dhont
Léo e Rémi, tredicenni inseparabili, vivono il loro tempo giocando e correndo a perdifiato nelle campagne fiorite dei Paesi Bassi. Anche a scuola non si separano mai, finché una ragazzina (e con lei il gruppo) non chiede a Léo se i due “stiano insieme” alludendo a una loro omosessualità. Pur trovando le risposte giuste di replica, Léo sente il peso del giudizio altrui e comincia a prendere le distanze dall’amico. Dopo un litigio, Rémi non partecipa a una gita al mare; al rientro, Léo apprende dalla madre che l’amico si è tolto la vita. La scuola è sconvolta: gli psicologi e i docenti cercano di aiutare i ragazzi ad elaborare il lutto mentre Léo, apparentemente freddo, cerca di avvicinare la madre di Rémi per avere dettagli e forse allontanare il senso di colpa. Alla fine le confesserà quanto successo, trovando un abbraccio “forse” liberatorio.
Che l’adolescenza non fosse l’età dorata ce lo aveva già detto Truffaut nel fermo immagine conclusivo de I 400 colpi, ma in questo bel film del nuovo secolo Dhont non attacca il mondo degli adulti borghesi ma rimane incollato al suo protagonista adolescente, seguendo le dinamiche di un’amicizia tormentata dalle convenzioni sociali e dalla forza emarginante del gruppo. Con grande precisione di tratteggio comportamentale e assecondato da un giovane attore in stato di grazia (Eden Dambrine), il regista trasmette la vitalità dell’infanzia e l’elegia del momento di passaggio, quando l’identità di genere diventa inquietante metro di giudizio e rispecchiamento, e il gruppo rischia di trasformarsi in un tribunale occulto capace di lasciare ferite profonde. Nell’ultima inquadratura, Léo guarda indietro verso la casa di Rémi che i genitori hanno abbandonato: immerso nella bellezza dei campi fioriti, sembra assaporare la prima vera esperienza della perdita. Poche volte abbiamo visto l’elegia, l’emarginazione e la colpa dell’adolescenza rappresentate con tale forza espressiva.

The Quiet Girl di Colm Bairéad
Irlanda rurale, estate 1981. Càit è una bambina di nove anni che vive in una famiglia povera, quattro sorelle e i genitori. Silenziosa e fragile, si isola sia a casa che a scuola, dove viene spesso derisa dai familiari e dalle compagne. Mentre il padre le mostra l’amante senza tanti scrupoli, la madre in attesa di un nuovo bimbo chiede a una lontana cugina di “ospitare” Càid per la durata dell’estate, a scuole chiuse. La bambina così compie nella nuova casa un percorso di formazione diverso: dopo iniziali diffidenze, scopre l’affetto dei coniugi Kinsella, che hanno perduto un figlio e che le dimostrano attenzioni mai provate. Lei li conquista con i suoi silenzi e un’educata sensibilità, scoprendo anche la meschinità di un mondo adulto che a volte perpetua l’immaturità adolescenziale. Quando riaprono le scuole, Càit deve tornare dalla sua famiglia naturale: un ritorno che porterà alla luce i nodi affettivi.
Tratto dal romanzo Foster di Claire Keegan, proiettato in un formato 1.33.1 che delimita gli spazi ma non la meraviglia di una fotografia luminosa nel cogliere i cieli d’Irlanda, il film di Bairéad è un sorso di quell’acqua fresca che Càit va a bere dal pozzo dei Kinsella, un piccolo gioiello che commuove col miracolo di una narrazione mai indulgente o ricattatoria. Mostra i fatti, esalta i silenzi e le immagini come il cinema dovrebbe fare con l’essenzialità semantica del mezzo, e ovviamente con la naturalezza di interpreti in grado di fare la differenza, come la piccola Catherine Clinch nel ruolo decisivo di Càit. Ed è con la forza di questa essenzialità che The Quiet Girl si imprime nello spettatore, ricordandoci che se il mondo è un pascolo di fragilità e ferocia, i veri padri sono quelli che decidono di esserlo, ci riconoscono per essere a loro volta riconosciuti.

L’amore secondo Dalva di Emmanuelle Nicot
Su segnalazione del vicinato, Jacques e Dalva vengono prelevati in casa e separati dalla polizia. I due in realtà sono padre e figlia e vivono da tempo una relazione incestuosa. Sapremo che l’uomo ha sequestrato la ragazzina e l’ha trasformata in una sorta di amante concubina, allontanandola dalla madre che aveva percepito la natura soffocante del rapporto malato col marito e si era rifatta una nuova vita. Con Jacques trasferito al carcere di Reims, Dalva viene inserita in un istituto rieducativo dove inizia un percorso per uscire dalla manipolazione paterna che ne ha fatto una donna vissuta e recuperare l’adolescenza mancata. Dopo molte fughe e resistenze, per fortuna aiutata dalla compagna di stanza Samia e dall’educatore Jayden, Dalva riuscirà a riprendersi la propria vita affidandosi all’affetto sano della madre.
Diciamolo subito: Dalva è una straordinaria opera prima che ha il merito di osare nella rappresentazione di un raporto incestuoso e di vincere la scommessa, grazie a una messa in scena di rara forza ed essenzialità, che riesce a trasformare un penoso fatto di cronaca in una sorta di thriller psicologico sulla manipolazione di un’identità. Contando su interpretazioni efficacissime (a cominciare da quella di Zelda Samson, impressionante la sua Dalva) e su un’attenta, quasi clinica progressione psicologica della storia, la regista sa tenerci incollati al suo personaggio delimitando gli spazi nel formato 1.33.1 e potenziando l’inquadratura attraverso i corpi. In questo senso appare più giusta che mai la scelta di non doppiare gli interpreti, che avrebbe tolto forza e credibilità all’eccellente lavoro attoriale, capace di raccontare lo sforzo di una rinascita e la fatica immane di una rieducazione sentimentale.
Tre opere profonde: un’importante opportunità didattica
I tre film analizzati aprono a uno spazio di riflessione tutt’altro che banale su temi che costituiscono pane quotidiano dell’attività didattica nella scuola, in particolare nel primo biennio delle scuole superiori ma non solo. Se in The Quiet Girl è il significato e il ruolo della famiglia ad essere oggetto di indagine e messa in discussione, Close e L’amore secondo Dalva riflettono sul tema dell’identità sessuale e dell’amicizia, mettendo a nudo il fattore dominante dell’immaginario sociale. Mentre in Close è una cultura colpevolizzante a infrangere il rapporto tra Léo e Rémi determinando scelte tragiche, ne L’amore secondo Dalva è ancora una cultura deviata e persistente a fare di Dalva una donna/bambina manipolata: in questo caso l’amicizia con Samia risulterà addirittura taumaturgica, come lo è sempre quando riesce a strappare il velo delle convenzioni sociali per guardare in faccia l’anima dell’individuo. Queste tre opere hanno il coraggio di affrontare temi scomodi con grande delicatezza, pari a una forza espressiva non comune: risorse che partendo da un’educazione all’immagine possono condurre a una più ampia educazione alla comprensione di sé e degli altri.
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