Anatomia di una caduta – Il film inizia in un salotto di uno chalet di montagna. Siamo sulle Alpi di Gernoble e una studentessa sta intervistando un’affermata scrittrice. Il dialogo è cordiale ma viene disturbato da una musica a volume piuttosto alto proveniente dal piano di sopra. È il marito della scrittrice che ri-ascolta un brano piuttosto roboante, e subito non capiamo il perché di quell’evidente disturbo che porta all’interruzione dell’intervista. Intanto Daniel, figlio della coppia, porta a spasso il cane su campi innevati. È il bambino che al ritorno a casa scopre il corpo del padre esanime sul terreno proprio sotto la finestra della soffitta dove ascoltava la musica. Subito dopo lo spettatore viene posto di fronte al dubbio: incidente, suicido o omicidio? Dubbio che sarà motore della storia che prende corpo in un’aula giudiziaria dove si svolge il processo a carico della moglie, sospettata di quella caduta fatale. Il racconto si colora quindi di giallo, dove la parola assume un ruolo prevalente anche sulle stesse immagini. E il fatto che lo spettatore sia rapito più dalle parole che dalle immagini è perfettamente coerente con la natura dei personaggi: sono scrittori, lavorano con le parole. Dialoghi serrati, litigi, sono gli strumenti per indagini interiori sui personaggi. Si apprende così che la famiglia è arrivata in quella casa per volontà del marito, che in crisi di ispirazione spera di risvegliare la propria creatività lontano dalla confusione di una metropoli. Ma l’uomo soffre anche di un tragico senso di colpa per aver involontariamente provocato un incidente in seguito al quale il figlio è diventato ipovedente.
La moglie invece, di origine tedesca, ma perfettamente a suo agio con l’inglese che ha frequentato sempre prima del trasloco è più in difficoltà col francese, la lingua locale (doppiata), trae dalla propria esperienza personale il materiale per scrivere i propri romanzi. “Per scrivere bisogna basarsi sul proprio vissuto”. Dichiara alla studentessa. E questo sarà uno dei temi trattati dal e nel processo. Al bambino è riservata l’esperienza più dolorosa. Per sua volontà assiste a tutte le fasi processuali e i suoi ricordi e il suo equilibrio vengono messi a dura prova. La caduta, la morte avvengono fuori campo. Il film mostra il dopo, le tracce della caduta, gli schizzi di sangue. Tutto comincia dopo, quando inizia il tempo del ricordo di quella caduta e di tutta ciò che l’ha preceduta. Il racconto della trama si ferma per forza qui.
Anatomia di un film – Ci troviamo di fronte a un film di stampo classico, di raffinata eleganza formale. Si direbbe composto su una sceneggiatura di ferro, molto ben scritta, con un montaggio chiaramente lineare, interrotto in maniera evidente da un lungo importante flash-back che ci riporta a un litigio avvenuto tra moglie e marito. E il litigio è l’espediente più classico per “smascherare” i personaggi e farli conoscere agli spettatori. Perché è nel rivendicare i propri punti di vista, le proprie visioni e versioni della vita che i personaggi si scoprono per quello che sono. In più il flash-back è collocato giusto nel mezzo del film, perché costituisce il clou del racconto. Il punto più alto della tensione, quello che riattiva e ravviva l’attenzione. Altro elemento che non può sfuggire la scelta di casting. I personaggi cosiddetti cattivi sono brutti, un po’ viscidi. Insomma il PM che rappresenta l’accusa è decisamente antipatico. Invece i personaggi buoni, a partire dalla studentessa, dall’avvocato difensore sono tutti piuttosto gradevoli. Siamo comunque lontani dal Perry Mason di televisiva memoria. Il presente irrompe con i mass-media alle porte del tribunale, i gossip dei talk-show. Il ritmo è sufficientemente frenetico per mantenere vivo un interesse nell’arco dei ben 150 minuti di durata. Questo sì che si discosta un po’ dai classici hollywoodiani e dalle produzioni televisive che rispettano solitamente standard intorno ai 90-100 minuti. Ma in questo caso direi che non c’è un minuto di troppo. Siamo in pieno cinema moderno davanti a un tema divenuto anch’esso classico da Blow-up in poi: l’ambiguità del reale, la percezione parziale delle cose. Una scrittrice che fa dell’autobiografia materia fondante della propria creatività ed invenzione, evidenzia inequivocabilmente la finzione che si fonde con il reale. Il racconto si fa spietato là dove tratta il personaggio infantile. Daniel, volendo assistere a tutte le fasi del processo, sembra voler uscire in fretta dall’infanzia che peraltro aveva già subito il trauma della sua semicecità. Quella caduta lo scaraventa definitivamente fuori da quella condizione.
Anatomia di una visione – Non so voi, ma io tenevo per la protagonista fin da subito. E questo tenere per lei fin da subito non è una libera scelta, è una induzione provocata dalla regia. E i modi per indurre questa simpatia sono convenzionali. Il personaggio come già anticipato dev’essere di aspetto gradevole. Nel cinema classico capita raramente che i buoni non siano belli o che i cattivi non siano brutti. Certo ci sono i tipi affascinati perché anche il male ha il suo fascino ma entriamo nel cinema di genere o nella filmografia di qualche autore maledetto.
Le inquadrature sono ravvicinate: si privilegia il Primo Piano, anche l’angolazione è importante, possibilmente deve rispettare e utilizzare la posizione degli altri personaggi che interagiscono. Cioè si posiziona la macchina da presa al posto dell’interlocutore del protagonista in modo che la sua visione coincida con quella dello spettatore. In gergo queste inquadrature si chiamano “soggettive”. Ma a parte questi dettagli tecnici la visione di questo film non è leggera e comporta una adesione emotiva piuttosto coinvolgente. Siamo costretti a “prendere parte” non solo nel senso di schierarsi ma anche di “partecipare” alla storia riflettendo, considerando l’eventuale nostro ruolo in quel contesto. Scopo del film, a ben guardare, non è scoprire l’assassino, ma la messa in scena dei rapporti umani e più nell’intimo i legami tra i famigliari o le persone che più sono vicine. E anch’io, spettatore interessato, cado nel gioco e mi lascio coinvolgere.
Mentre guardo, mentre ascolto, la scena mi rimbomba dentro, penso a me, ai miei legami, alla mia vita che fortunatamente non vive quei traumi, ma che in relazione col prossimo c’è. I legami famigliari o amicali riguardano tutti e non c’è bisogno del morto per rifletterci su. Però il cinema ti dà quella spinta che a volte trascureresti volentieri. È questo il bello del buon cinema e forse anche di tutto il cinema, perché non c’è bisogno del capolavoro per riflettere su un’esistenza che capolavoro non è.
PS – Ho valutato molto attentamente la parola anatomia ma penso di aver assistito piuttosto a una vivisezione.
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