L’ho conosciuta. L’ho incontrata più di una volta. Già molto avanti negli anni, già molto avanti nel cammino verso la fortissima riduzione della vista. Ma ancora immersa nei suoi ritratti. Minuta, gentile, elegante nelle maniere, nella voce, nel porgersi, eppure l’impressione che lasciava era di una forza straordinaria. S’imprimeva dentro subito, accolta con stupore, ma senza resistenza. Un’autorevolezza naturale, semplice ed immediata, che poteva anche intimidire, ma come quando ci si trova di fronte alla grandezza e ci si rende conto di essere compresi per caso in quella eccezionalità. I suoi ritratti (allora solo alcuni visti da me e forse in una piccola mostra oltre che in una plaquette), come è sempre capitato a tutti quelli che ne sono venuti in contatto, ti si spalancavano davanti con un’evidenza di ‘verità’ – la verità che non copia una visione, ma la sventra, la afferra all’intimo, la svela e hai l’impressione di essere di fronte alla parola della Pizia – una ‘verità’, dicevo, che sbalordiva e trascinava. Per me come entrare di colpo nei Misteri di una qualche Eleusi. Se posso dire di amare moltissimo l’arte figurativa e di frequentarla per il mio più possibile, è comunque certo che non ne sono una critica, non conosco abbastanza né di tecniche, né di espressioni linguistiche, per calarmi nei significati del farsi dell’opera. Ma a modo mio qualcosa dei ritratti di Clara vorrei dire. A volte Clara sceglie in modo preponderante pochi velocissimi tratti neri, a disegno, su una base più spesso colorata ad acquarello – colorata mossa, sfumata o composta o contrapposta – con cui già definisce in modo irrevocabile un’espressione intima, un’individualità precisissima, una personalità, ma spesso di colpo, come una macchia di colore che si stacca dal resto, un particolare è messo in rilievo, a volte a completare, a volte a contraddire quanto già mostrato. Una vera e propria epifania. Oppure qualcosa è svisto, come cancellato, o meglio: non veduto e/o non mostrato, facendo così perforare all’occhio lettore la superficie bidimensionale per andare più in là, più dentro. A volte, invece, sono soprattutto i colori a fare l’emozione, la storia interiore, dove i segni sono solo il bastone che tasta al cieco il mondo. Comunque, quale che sia la tecnica, quei ritratti a me danno la percezione subitanea di una persona viva; non solo, ma di captarne alcuni segni singolarissimi della vita, come tratti della sua vicenda emergenti a fiato e sangue, anche se per tessere musive isolate che non vogliono porgere un quadro logicamente definito. Il particolare che de-forma – o meglio: in-forma – il completo.  Ci si rende conto di un’immediatezza, in effetti, che deve essere stata una forma vera e propria di necessità per Clara, come davanti a una visione del sogno o dell’oltre, che può svanire da un momento all’altro, che ci si deve affrettare a fermare perché potrebbe dissolversi senza traccia. Giuliano Della Casa, artista di Modena di rilevanza internazionale, dopo essersi immerso nell’epifania di segni e colori della mostra postuma del 2019, dice che i ritratti attuano un insieme che avvolge e cattura, in un rimando degli sguardi, tale che qualcosa c’è in ogni singolo ritratto che ritorna negli altri e li accomuna tutti. Dicono di lei i figli e coloro che l’hanno conosciuta al lavoro: ritraeva tutti, all’impronta, amici, parenti, passanti, negozianti, viaggiatori incrociati in treno, ragazzi, vecchi, bambini. Soprattutto donne. Ma anche insetti. E Cristo in sofferenza. Ovunque andasse si portava sempre dietro una borsa con alcuni ritratti, non si sa mai chi potesse incontrare da farglieli vedere; ma soprattutto si portava le basi dei ritratti, nonché pennelli, matite, gessetti, perché se incontrava qualcosa – chiunque, qualunque cosa fosse, dovunque si trovasse – che la ispirava, lei non esitava a mettersi a ritrarlo, sull’istante. Le basi, lei le preparava tutte diverse, con tenui stesure ad acquarello, le faceva asciugare, le metteva in una cartellina e se le portava dietro ovunque andasse in giro, così che quando incontrava il soggetto che la interessava, cercava la base secondo lei più idonea e si metteva a lavorare con quello che aveva sottomano, anche solo penne o matite. Mai ha usato l’olio. A volte faceva le basi su carta non proprio la più buona, sia per la necessità di averne sempre comunque a disposizione, sia perché veniva da un tempo che detestava lo spreco e non amava ‘spendere’ troppo per la sua passione. A lei bastavano i segni e i colori.  La necessità era un’altra. “Sto viaggiando in treno e all’improvviso – dice Clara – la persona che è seduta davanti a me mi comunica un’idea. Lo ha fatto inavvertitamente, magari con una smorfia della bocca o con uno sguardo particolare. E allora non resisto e le chiedo di posare per me, anche se non la conosco, anche se non l’ho mai vista.”  Dietro a questa sua parola, ‘idea’, io credo non ci fosse un ragionamento vero e proprio, una qualche forma di astrazione, quanto, piuttosto, un entrare di colpo in sin-tonia con l’altro, una capacità di sum-pàtheia che si esprimeva nell’abbraccio della mano alla forma che plasmava.

Clara Malavasi nasce a Novi di Modena, nel 1918. La sua ascendenza è certamente significativa per la sua formazione. Mario, suo padre, viene da una famiglia di ceto basso, ma è riuscito a diventare uno stimato avvocato: è socialista. La mamma, Maria Garuti, a sua volta viene da una famiglia garibaldina e libertaria. Per quanto i famigliari di Clara definiscano quei genitori ‘molto occupati’ per darle una formazione non tradizionale, alla luce di quello che poi seppe essere lei, io credo che profondamente abbiano radicato nella figlia il senso vivo di una irriducibile libertà, intesa come fedeltà a sé e insieme alle proprie scelte, una forza eccezionale che poi seppe mostrare nelle più diverse situazioni. È vero che ebbe un’educazione scolastica consona al tempo, ma, se per una ragazza di famiglia benestante il destino sociale era quello di sposarsi e di essere madre e quindi non necessitava di una formazione scolastica, comunque l’istituto magistrale che le fecero frequentare era già un buon viatico: permetteva un’istruzione di base abbastanza completa ed anche un eventuale sbocco lavorativo, certo, nell’ambito considerato adatto per una donna. Ma in seguito, dal 1938, riconoscendole il talento e il desiderio, le fecero anche prendere lezioni private di pittura da Ubaldo Magnavacca (1885-1957), pittore, incisore, scultore conosciuto ed apprezzato a livello nazionale.
Si sposò nel 1942 con il Dottor Aurelio Righi Riva, che era di famiglia benestante e nell’ordine dei tempi tradizionalista.  Lei non poteva che essere una signora dedita a casa e famiglia, una casalinga. C’era, però, anche la guerra. Dal ’44, Clara, già madre della prima bambina, vive da sola nella villa di montagna a Toano di Reggio Emilia dove sono sfollati, sa arrangiarsi per sopravvivere e sa difendersi dall’arrogante invadenza degli occupanti, non cede, non scappa, pur testimone delle violenze e delle devastazioni dei tedeschi nel paese che fu completamente dato alle fiamme; di più, riesce con la sua prontezza a coprire ‘la clandestinità del marito’, che ha scelto di fare il partigiano. Con il nome di “Barba elettrica”, svolge ruoli direttivi di primo piano nell’area che gravita attorno alla coraggiosa esperienza di Montefiorino, ragione per cui riceverà una medaglia d’argento al valore. Anche finita la guerra, chimico di grande responsabilità per importanti aziende conserviere del paese, sarà sempre impegnato fuori sede per lavoro; vi si dedica, dicono i famigliari, con un’abnegazione ‘folle’. Mentre lui non c’è, è Clara che si occupa dei 4 figli, nati tra il 1944 e il 1952: Teresa, Mariangela, Stefano, Giovanna. È anche una sarta provetta, molto creativa. Si ferma la gente per strada a Milano, dove per qualche anno vive la famiglia, per chiederle chi abbia confezionato quei vestiti ai suoi figli. Intanto le comincia a indebolirsi la vista. Nella presentazione al suo Archivio, dicono del suo ‘istinto materno’ che è ‘potentissimo’; madre forte, a volte difficile. Ha una ‘fede intensa’, tanto ‘tormentata’ quanto ‘tormentosa’, perché ‘piena di interrogativi e di dubbi esistenziali, piena di curiosità e aspettative’. È anche ‘un po’ femminista’, da gentile signora qual è, dicono, forse per le conoscenze soprattutto femminili, ma io credo, al di là delle etichette, che nelle difficoltà e negli impegni e nei ruoli affrontati e condotti a buon termine, lei abbia imparato a conoscere la sua specificità profonda di donna. Nonostante la realtà culturale improntata all’inferiorità femminile in cui è stata educata, nonostante una vita che l’ha limitata in ruoli che non le permettevano la piena espressione di sé, anche se da lei vissuti in modo esemplare, Clara non ha mai smarrito in sé il senso della libertà, della dignità e della sua forza di donna. ‘Femminista’ è un termine forse troppo stantio per lei, troppo storicamente perimetrato, per una donna che, secondo me, semplicemente si muove nel mondo con la magnificenza regale e l’autorevolezza di chi sa guardare con i propri occhi, fedelmente ad essi soprattutto, occhi d’arte, anche quando l’arte è nella forma della cura. Poi Clara avrà anche modo di mostrare al mondo coi suoi ritratti cosa i suoi occhi sanno vedere. Per quante donne, invece, questo sbocco non c’è stato e tutta la loro regalità è restata nell’ombra! Quando diciamo che siamo alla ricerca di una nostra genealogia, noi donne di oggi, anche a questa ombra ci rivolgiamo, rendiamo grazie, prendiamo in carico come eredità da preziosamente valutare. Clara trascorre quasi cinquant’anni tra marito, figli, casa. Poi Aurelio si ammala, è colpito da vari infarti. Clara lo accudisce con un’abnegazione totale, ‘spasmodicamente’, ci dice la figlia Teresa. Muore nel 1992. Lei ha settantaquattro anni.
Senza di lui, di colpo libera dagli impegni della cura, anche i figli ormai autonomi e sparsi per la nazione, Clara si sente spaesata, come persa: sono anni molto difficili, non è facile reiventarsi alle soglie della vecchiaia. La figlia Teresa, allora, c’è un giorno che le compra ottima carta da disegno, pennelli, colori, gessetti, pastelli, matite e le dice: ecco è venuto il momento che tu faccia le cose che ti sono sempre piaciute. Da quel momento è come se il fuoco che aveva dentro si fosse liberato per esprimersi nella pittura. A settantasei anni e mezzo, ricomincia a fare i ritratti, la sua antica passione. Li fa a tutti, come ho già detto, soprattutto a donne. Perché le incontra più spesso, sì, ma io credo anche per una grande curiosità verso di loro. Curiosità d’indagine. Curiosità di genere. In circa 10 anni, fino che le resta abbastanza della vista, dipinge più di 2500 tra acquarelli, carboncini, pastelli, disegni e tecniche miste. Vive tutto con incredibile vitalità, mai stanca, viaggia coi figli, Milano, Reggio Emilia, e Ferrara per le mostre; con la figlia Teresa che là abita, va spesso a Roma, visita mostre e musei con felicità di esploratrice, ha un frenetico bisogno di contatti; quando le si chiede se vuole riposarsi, magari dopo lunghissime camminate, risponde sempre: “Ancora un po’”. Proprio a Roma capita che in via Margutta siano colte, la figlia Teresa ed infine anche lei, dalla stanchezza di un lungo giorno di esplorazioni. In un piccolo andito, ai cui lati si affacciano diversi locali, si siedono su una panca. Da un locale esce una ragazza, le invita a entrare per meglio far riposare la signora anziana, che forse, però, non è la più stanca. Sono 3 o 4 giovani architette. Clara si trova subito a suo agio e tira fuori dalla borsa i suoi immancabili disegni e ritratti: le ospiti ne rimangono molto colpite. Ne tengono qualcuno per farlo vedere ad una famosa gallerista di Roma. Il giorno dopo Clara riceve una telefonata da Mitzi Sotis che la vuole incontrare e vedere altre sue cose. All’incontro parlano a lungo, si trovano in una eccezionale sintonia, piangono tutt’e due per l’emozione. Mitzi Sotis è letteralmente innamorata dei disegni di Clara. Le propone di fare una mostra e le dice che, anche se ha una fila lunghissima di artisti famosi in attesa, lei verrà prima. L’appuntamento è da lì ad un anno, che occorre per la preparazione, il 1999. Fu una magnifica mostra, con un grandissimo successo. Vennero a farsi fare il ritratto da Clara esponenti dell’alta società romana, attori, artisti, personaggi famosi del jet set. E Clara lavora all’impronta, coi suoi gessetti, modesta e semplice come sempre, disponibile, paziente con queste signore ingioiellate, che magari si schermiscono tra scherzosità e reale preoccupazione: “Non mi faccia le rughe!”. E lei risponde gentile, ma ferma: “Guardi che non è una fotografia!”. Dipinge per quasi 10 anni. Ci saranno altre mostre, sempre molto stimata ed apprezzata da importanti critici d’arte, artisti, galleristi.  Poi dovrà molto rallentare e frenare la sua potentissima espressività artistica, perché sempre di più verrà ad affievolirsi la vista. Cosa deve essere stato per lei, finalmente pittrice apprezzata, sentirsi limitare dal suo più vitale strumento di lavoro artistico! Fino agli ottanta anni è ancora del tutto indipendente, una signora intelligente, gentile e carina; ma la vista si attenua sempre di più e lei deve adattarsi ad una signora che l’aiuti, soprattutto negli spostamenti esterni alla casa, una ‘badante’, come diciamo oggi. Accetta con fatica questo affiancamento, come tutte le donne che hanno sempre affrontato la vita da sole, a viso aperto; rimane comunque capace di grande autonomia in casa e resta ancora curiosa di tutto, attenta, vivace. Muore nel 2011, a novantadue anni, col solo rimpianto di non avere vissuto una intera vita di pittrice. Così com’è vissuta, è morta come voleva. Forse anche quando voleva. Da un po’ di tempo non stava bene e rifiutava di nutrirsi, di bere. Finché alle insistenze dei figli un giorno si è messa a canterellare come chi seccato ribadisce qualcosa a chi si ostina a non comprendere: “Ma lo volete capire o no che io voglio morire?”.
Nel 2019 c’è stata una grande mostra postuma alla Redecocca di Modena, nell’ambito del Festival di Filosofia di Modena Carpi Sassuolo, incentrato sul tema della ‘persona’. La mostra ha registrato moltissime presenze, molti apprezzamenti. E tanto stupore.
Chi volesse vedere moltissimi dei suoi ritratti e dipinti, vada all’Archivio on line di Clara Malavasi. Un tesoro. Ma non manchiamo di auspicare al più presto una grande mostra che dal vivo mostri la grandezza di questa artista.

Con minime differenze l’articolo uscì per la rubrica L’occhio alla fine del cannocchiale ovvero Del vedere delle donne del blog Carte sensibili, numero del 28-5-2020

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