
È passato un anno esatto da quando il gigante della dissidenza russa è stato ucciso in una remota colonia artica. Si chiamava Alexei Navalny, aveva solo 47 anni, e da sempre lottava per il suo popolo contro l’autocrazia repressiva di Vladimir Putin. Un omicidio autorizzato nell’accidia generale su cui, dall’alto del suo potere, il presidente russo ha sempre confidato, di conseguenza agito. La pena da scontare, l’ultima di tante, era di 19 anni di reclusione, con un’accusa di estremismo politico. La versione ufficiale fu di morte improvvisa da causa ignota. Il suo corpo venne consegnato alla madre per la sepoltura, dopo quasi un mese dal decesso, proibendo il rientro dall’Europa della moglie e dei figli. Fu l’ultimo oltraggio alla sua vita, dato che nella cultura russa alla fine della vita, lo spirito rimane all’interno del corpo.
Il mondo è stato il grande spettatore. Chiunque sapeva che era solo questione di tempo: la fine di Alexei era certa, già scritta nella storia ancor prima di arrivare. Era anche una questione di stile, dato che i mezzi scelti da Putin sono sempre stati “ingegnosi”, sottili, perfidi. Niente spargimenti di sangue, perlopiù raccapriccianti calcoli di dosi letali.
Non è certo l’unico caso di martirio politico al mondo, dato che c’è una ricca offerta di barbarie e repressioni, le maggiori delle quali a noi comuni mortali totalmente sconosciute. Unica però, per come la premeditazione si sia sviluppata lentamente nel tempo, a rate, anzi, a colpi di avvelenamenti. Nessuno sperava nella sua sopravvivenza nel 2020, dopo i pesantissimi danni neurologici da agenti nervini sull’aereo che lo portava dalla città siberiana di Tomsk a Mosca. Quella volta, il calcolo del veleno nelle cuciture interne delle mutande, si rivelò di poco sbagliato. Errore che non si ripeté, verosimilmente, il 16 febbraio 2024. Indelebili nella mente, le terribili condizioni fisiche in cui versava nell’ospedale tedesco, dove fu salvato da morte certa.
Alexei Navalny è riuscito a far conoscere la potenza della sua fede politica al mondo, condividendo nelle piazze e nei social media, la sua visione di una “bella Russia del futuro”, dove i leader fossero eletti liberamente ed equamente e le istituzioni democratiche funzionassero. Aveva carisma e un umorismo inossidabile, che attiravano attivisti giovani ed energici al suo fianco nella lotta al regime.
Ora si teme che il suo nome venga condannato all’oblio. Dice Oleg Ivanov, un sostenitore che ha lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, e vive a Los Angeles: “La morte di Navalny è stata “un punto di non ritorno” e ha lasciato un vuoto impossibile da riempire”. La vedova Yulia, coraggiosa e stoica donna che ha sempre lottato al suo fianco, continua a sostenere la lotta per la Russia libera, quella che il marito sognava. Ma è difficile mantenere viva la tensione sulla lotta per la libertà e democrazia, in un paese governato da un regime che si basa sulla paura.
Manca un leader forte, capace di resistere alla pressione psicologica metodica e guerrafondaia di Putin. La repressione continua, ci sono millecinquecento prigionieri politici nelle galere del vasto territorio russo. E ora la Russia si sta macchiando di crimini contro l’umanità, con la guerra in Ucraina. Eppure, vediamo continui tentativi in Occidente di interagire con Putin, di negoziare con lui. La sua potenza è ancora tutta lì.
La dignità del sorriso di Navalny, i suoi bellissimi occhi azzurri pieni di una fiducia surreale, le sue frasi ironiche, sono tornati a farci visita ieri. Sulla sua tomba, centinaia di persone, tra loro diplomatici stranieri, si sono radunati per rendergli omaggio. I sostenitori hanno deposto fiori sulla tomba, mentre la polizia filmava tutto. Un uomo politico libero, riconosciuto, ma ugualmente condannato.
Nel 2021 Navalny è stato insignito del premio Sacharov per la libertà di pensiero.
Il diario Patriot, scritto dall’attivista a partire dal 2020, ricostruisce la sua storia di vita e di lotta.
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