L’Istituto Internazionale del Teatro del Mediterraneo – Sezione Italiana A.P.S. ha organizzato, nell’ambito della rassegna Emergenze Mediterranee, realizzata con il patrocinio e il sostegno del Comune e della Provincia di Teramo, lo scorso 8 dicembre 2024, presso il Duomo di Teramo, il concerto Il Mediterraneo canta la pace a cui hanno partecipato i seguenti musicisti provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo:

Jamal OUassini, Marocco, violino, canto, voce, percussioni;
Vaghelis Mercuris, Grecia, liuto, laouto, ciftelia e canto;
Yassin El Mahi, Marocco, percussioni, voce;
Alberto Capelli, Italia, chitarra;
Mamritha Nori, ItaliaI/india, canto;
Feisal Taher, Palestina, canto, voce narrante
Graziella Guardiani, Italia, canto, flauti;
Carlo Di Silvestre, Italia, chitarra;
Guerino Marchegiani, Italia, fisarmonica.
Nel pomeriggio, prima del concerto, abbiamo rivolto loro alcune domande.

LEANDRO DI DONATO:

Tra qualche ora ci sarà il concerto “Il Mediterraneo canta la pace”, titolo che contiene una dichiarazione, una presa di posizione.  La prima domanda che vorrei farvi è: la pace è un’aspirazione, una buona intenzione o, secondo voi, può essere un progetto concreto, un itinerario possibile?

ALBERTO CAPELLI: Io penso che la pace sia una necessità anche se ultimamente mi sembra che la storia stia andando da tutt’altra parte.  Evidentemente non c’è questa volontà di farla, però è ovvio che sarebbe l’unica cosa possibile, l’unica opzione per una vita più equa anche dal punto di vista delle possibilità per tutti i popoli che ci sono.

JAMAL OUASSINI: Io penso che non sia un progetto e che non sia neanche una risposta da dare alla domanda “se possibile”, perché per noi la pace è la normalità, deve essere la naturalezza. Ė la guerra che è l’incidente.  Poi chiederlo ai musicisti: è ovvio! Sono secoli che musicisti, cantanti, poeti si scambiano, collaborano, cantano, dialogano e non vedono mai la guerra all’orizzonte. Per noi è un ostacolo demenziale che non ha senso. Per me la guerra è un’intrusa.

VAGHELIS MERCURIS: La pace non è un diritto umano. La pace se la guadagna qualcuno lasciando alle spalle il passato; soprattutto c’è quando non c’è bisogno di martiri. Se andiamo avanti così non troveremo mai la pace. Lasciando il passato alle spalle è l’unica maniera per ritrovare la pace. Non ce n’è un altro.

YASSIN EL MAHI: Come hanno detto i miei amici e colleghi musicisti la pace è la normalità. Non è un progetto. La pace è una cosa che dobbiamo essere. Noi nel nostro ensemble “Jamal Ouassim ensemble med” siamo diversi. Ognuno ha la sua religione, però abbiamo una cosa in comune che è un linguaggio: la musica. Noi con questo ensemble facciamo la pace e diamo il messaggio di pace.

FAISAL TAHER: Ritengo che la pace per chi non l’ha mai vissuta sia anche un’esigenza: vedere l’altra faccia della vita perché nella vita mia, anche di mio padre, di mio nonno, abbiamo visto solo la guerra. Noi, nel nostro piccolo, facciamo musica, suoniamo e cantiamo la vita. Cantiamo la pace e l’amore sperando che i nostri strumenti siano più potenti degli strumenti di morte che qualcuno, per i propri interessi, per la propria dominazione e per la poltrona, sacrifica i popoli per interessi personali. Finché le cose vanno così, se si producono armi sempre più potenti e se si sentiranno meno gli strumenti musicali, allora la pace Io la vedo lontana per ora. Poi, noi speriamo sempre. La speranza è l’ultima a morire.

CARLO DI SILVESTRE: La pace non è un progetto, ma è un bene comune a tutti i popoli ed è purtroppo in pericolo a causa di alcuni fanatismi. La musica canta la pace, ha sempre cantato la pace e questa sera ci ritroveremo a suonare tutti insieme e a condividere, attraverso questo linguaggio universale, il linguaggio dei suoni, questo fondamentale e importantissimo ideale che è quello della pace, una pace comune.

NAMRITHA NORI: Io ho riflettuto molto sul concetto di pace specialmente negli ultimi due mesi quando sono cominciati i bombardamenti in Libano, che è anche la mia terra acquisita, dove parte dalla mia famiglia è stata sotto i bombardamenti perdendo persone, perdendo amici, perdendo la casa. Sono arrivata ad una riflessione importante: che non può esservi pace senza giustizia. Questo lo abbiamo visto, credo, o almeno io penso di averlo visto, nel corso della storia. Quando c’è stata una pace imposta in realtà è stata una pacificazione non una pace. Se non risiede assieme alla giustizia e anche alla liberazione dei popoli dall’oppressione, oppressione politica, oppressione economica, oppressione di risorse, oppressione sociale, oppressione spirituali, non può esserci la pace. Pace per me si accompagna alla liberazione, a una liberazione che ovviamente deve partire anche spiritualmente, dentro di noi, ma deve anche attuarsi attraverso un progetto, un movimento, spero anche globale, a sostegno di tutte le liberazioni, di tutti i popoli nella vita quotidiana.

 GRAZIELLA GUARDIANI: la pace. La pace siamo noi, no?  Siamo noi questa sera qui la pace. Siamo noi, ognuno di noi che con la sua Identità, con la sua cultura, con le proprie radici si mette insieme ad altri e formiamo la pace perché la pace è armonia, la musica contribuisce a creare la pace tra le persone, tra i popoli e il fatto di poter fare musica con tante persone con le loro storie e con la loro identità culturale e sociale è sicuramente, questa sera, un segno di pace. 

LEANDRO DI DONATO: Spesso quando si parla di questi problemi si sente dire che la pace è un obiettivo molto difficile, che le armi sono più forti delle parole e quindi le persone si sentono in qualche modo piccole e impotenti. Noi, questa sera, con questo concerto, oltre a dire, appunto, che il Mediterraneo canta la pace, facciamo anche un’altra cosa: testimoniamo che tutti possono fare qualcosa per la pace. Vi chiedo: la musica è parte dell’identità dei popoli, delle culture, e in particolare questa sera dimostreremo, dimostrerete, che le identità sono tutte meticce, che non esistono civiltà pure, che non esistono tradizioni pure, che l’incontro è quello che poi determina le varie sintesi. La parola cantata, la musica, l’emozione che trasmettete alle persone e la consapevolezza di un patrimonio culturale che è frutto di questi incontri, possono essere un messaggio forte che aiuta anche a porre in termini diversi l’identità che, spesso in Italia, viene usata come una sorta di scudo dell’io contro gli altri? Sembra una cosa piccola ma il patrimonio musicale e l’insieme delle culture, secondo voi, in questo momento, che contributo possono dare?

ALBERTO CAPELLI: Io credo che al di là di ogni retorica in realtà la musica oggi sta andando tutta da un’altra parte, in un’altra direzione. La musica è diventata commercio e si è appiattita solo sulla compravendita.  Lo vediamo tutti, soprattutto nel nostro Paese, l’Italia. Penso che altri Paesi, anche quelli che magari dal nostro punto di vista, possiamo definire un po’ più indietro, dal punto di vista del progresso, hanno, forse, più la possibilità di godere ancora del patrimonio musicale. Noi purtroppo abbiamo creato i conservatori, abbiamo della bellissima musica, solo dal punto di vista delle élite; poi la musica delle masse sono cose veramente che muovono semplicemente i quattrini, il gossip. E questa musica cosa può fare? Niente! Non è più identità.  A parte che l’identità, poi, è una parola molto carica e anche forse ormai impronunciabile, proprio perché è diventata il grimaldello col quale noi ci sentiamo superiori ad altri. Per cui forse non si dovrebbe neanche più parlare di identità. Però, ecco io sono abbastanza pessimista, soprattutto perché, tornando al discorso di prima, le armi sono molto molto più forti della cultura che noi cerchiamo ancora ostinatamente di produrre. Perché a noi piace. Noi non possiamo vivere senza questa cosa. Però vediamo anche che ai nostri concerti spesso, sempre di più, non ci sono i giovani perché i giovani si stanno un po’ perdendo in altre dimensioni molto più commerciali, così le armi sono molto più forti. Chi produce le armi poi sono i veri responsabili della guerra, perché le guerre si fanno con le armi e coloro che producono le armi sono i nostri Cavalieri del Lavoro, sono le persone più stimate, più apprezzate e portate in palmo di mano dai nostri potenti, da chi ci governa.  E questi dovrebbero essere invece stigmatizzati. Non dovrebbero più produrle le armi.

JAMAL OUASSINI: Non è sufficiente una risposta. Poi qui c’è Vaghelis che ha una montagna di cose da dirti. L’identità per un musicista! Tutto quello che stiamo facendo qui in realtà, le melodie, le musiche e i ritmi e poi gli strumenti musicali sono queste due cose, sono frutto di viaggi e di spostamenti, di incontri di popoli, che vivono insieme, che portano esperienze. Se tu prendi lo strumento che suonava Vaghelis o il violino che suono io o la chitarra, raccontano migliaia di anni di storia ben precisa. Ogni strumento è come un libro di storia e ogni musicista sa com’era la forma precedente, quando ha cambiato le corde, quando è cambiata la vernice, quando hanno aggiunto le corde, quando hanno cambiato le accordature. Lascia stare poi il violino che suono io che viene dal lontano Oriente e nei secoli poi si trasforma nell’attuale violino Poi parlando di Italia, sappiamo che ruolo ha il violino. Basta parlare di Cremona, della grande liuteria italiana. Però per diventare questa forma abbiamo fatto un cammino enorme attraverso lo strumento. Io spesso questo lo faccio con i bambini mostrando gli strumenti in origine. Lasciamo stare i modi musicali che ci scambiamo no? Però i modi musicali che stiamo usando noi, anche per questo concerto, spesso portarono nome dei luoghi. Io vengo da Tangeri e Vaghelis spesso prende un termine che io pronuncio per un modo o per un ritmo, un ciclo ritmico, e mi tira fuori la radice dalla Grecia e mi dice anche come ci siamo incontrati e in quale tempo e come ce lo siamo passati. Tu pensa come poteva nascere la grande musica italiana o la grande musica occidentale. Io penso, poi Vaghelis, me l’aveva confermato, al canto gregoriano non è stato accettato dalla chiesa quando è arrivato qui; è stato rifiutato. Si diceva non cantare. In qualche paese in Oriente ancora si fa. Oggi in Iran se tu hai un flauto a casa devi andare in questura a denunciarlo perché l’arte fa paura, la musica fa paura. Per questo è difficile parlare con un musicista della pace, perché la pace per lui è come una cosa ovvia. Giustamente Alberto è incavolatissimo perché dice “che cavolo stanno facendo con queste armi, con questa tecnologia”?  Ė minacciata? Sì. Noi però continuiamo a cantare per la pace.

VAGHELIS MERCURIS: Io condivido pienamente quello che dicono Alberto e Jamal. La parola identità è veramente carica e strautilizzata da persone che la vogliono utilizzare come un’entità statica.  L’identità è dinamica, cambia sempre. Non si sa cos’è un arabo nel VII secolo e un greco nel XX secolo, non si sa cosa era Alberto quindici anni fa. Già noi cambiamo la nostra identità, le nostre interazioni, le conoscenze, le nostre anche insufficienze. Occorre riconoscere all’altro il valore che ha come musicista, come persona, che cambia. Il contatto ti cambia. Se sei capace a gestirlo.

YASSIN EL MAHI: Aggiungo a quello che hanno detto i colleghi musicisti che la musica è un linguaggio che dà un messaggio.  Noi diamo un messaggio di pace e lo faremo sempre e siamo qua per quello.

FAISAL TAHER: Qui si parla di cultura e la cultura fa paura a qualcuno perché le culture si incontrano e le ignoranze si scontrano. Quindi, avere una cultura di qualsiasi genere fa paura e la persona di cultura musicale, poetica, di qualsiasi campo, fa paura e vengono spesso fatte fuori perché si crea l’ignoranza e con l’ignoranza ci si scontra.

CARLO DI SILVESTRE: La cultura dei popoli è il risultato dello studio e dell’analisi delle diverse entità tradizionali, degli usi e dei costumi che, con il passar del tempo, hanno subito i legittimi cambiamenti dovuti ai fenomeni della modernizzazione, dei flussi migratori e di forme di omologazione. Non esistono tradizioni e identità culturali che non abbiano assorbito da altre culture. Posso fare l’esempio della nostra terra, dell’Abruzzo che è caratterizzata da una eterogenea e ricca cultura di tradizione orale – sia musicale che linguistico-letteraria – che è il frutto di una sintesi delle tante culture provenienti dall’area europea e dal Mediterraneo.

GRAZIELLLA GUARDIANI: partendo dal presupposto che la musica è dentro ognuno di noi, basta ritrovare questa radice all’interno di ogni persona affinché si possa mettere insieme, più che un concetto, un desiderio di pace, di unione tra le diverse culture, i diversi popoli, le diverse identità culturali, sociali e personali. La musica è sicuramente un collante e un potente strumento per poter arrivare alla pace. Dovrebbero esserci più iniziative che mettano insieme le diverse realtà musicali per far intendere a tutti che tutti siamo parte della stessa musica.

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