Esce, per le Edizioni della Enciclopedia delle donne, un volume che raccoglie poesie dal lager femminile di Ravensbrück. È l’occasione per dire qualcosa di quel campo in prossimità del giorno della memoria 2025. È vero che le date istituzionali rischiano di far perdere il valore profondo delle questioni, di allontanarsi, nella routine, dall’idea che le ha generate. Tuttavia, nel tempo attuale, anche aggrapparsi a una data, alla legge che istituisce il giorno della memoria, può avere qualche senso.
Boschi cantate per me è il volume curato da Anna Paola Moretti e il titolo è tratto dalla poesia Attimo della paura di Zofia Górska, resistente polacca, arrestata dalla Gestapo nel 1941 e deportata a Ravensbrück nel 1942; riuscì a fuggire nell’aprile del 1945 durante una delle terribili marce della morte.
…
Apritevi muri per me!
Spezzatevi cardini!
Coprimi acqua,
boschi cantate per me!
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Sono circa un centinaio le poesie scelte, scritte da donne di diverse nazionalità. Per ogni autrice una scheda biografica ricostruisce la vita, prima e dopo il lager, dove possibile, con i pochi elementi a disposizione, perché, “dalla pluralità dei vissuti si disegna in filigrana anche il reticolo degli sconvolgimenti provocati dalle guerre del Novecento”. Una corposa postfazione, Memoria di Ravensbrück, assegna a questo volume lo statuto di libro di poesia e storia insieme, non solo perché i testi narrano le vicende del campo e le vite delle donne in esso recluse, ma anche per l’ampia riflessione conclusiva di Paola Moretti che attinge alle grandi voci femminili della testimonianza sui lager, Ruth Klüger, Germaine Tillion, Margarete Buber Neumann, Lidia Beccaria Rolfi, Giuliana Tedeschi e altre.
D’altra parte solo la poesia trae dalla parola tutta la profondità che racchiude, solo la parola poetica riesce a illuminare l’oscuro che avvolge la vita. Lo aveva ben intuito e poi espresso Maria Zambrano che auspica il recupero della unità originaria di poesia e pensiero.
“La poesia, umilmente, non si autopose, né si auto fondò, non cominciò col dire che tutti gli uomini ne avevano naturalmente bisogno […] La sua unità è così flessibile, così coesa che può piegarsi, dilatarsi e quasi sparire; discende fin nella carne e nel sangue, perfino nei sogni. Per questo l’unità alla quale aspira il poeta è così lontana da quella a cui tende il filosofo. Il filosofo vuole l’uno, assolutamente, e lo vuole al di sopra di ogni cosa”.
La poesia che leggiamo in questo libro è stata prodotta nel campo di concentramento, in quel
laboratorio in cui gli aguzzini sperimentarono i limiti della sopportazione degli internati e delle internate alla tortura, alla denutrizione, alla permanenza in condizioni igieniche spaventose e alla perdita di ogni diritto, primo tra tutti quello di essere riconosciuti come esseri umani; divennero la pietra angolare di un aberrante progetto di ricerca sulla soglia della disumanizzazione.
Germaine Tillon, organizzatrice della resistenza francese, all’interno del Musée de l’Homme con cui collaborava come etnologa, venne arrestata nell’agosto del 1942 e deportata a Ravensbrück nell’ottobre dello stesso anno. Lì rimase fino all’aprile del 1945, quando la Croce rossa portò in salvo lei e altre trecento compagne di lager in Svezia. Nella popolazione del lager Germaine era segnata dalle due N di Nacht und Nebel, “Notte e Nebbia”, apparteneva cioèal gruppo di quelle che non dovevano assolutamente sopravvivere. “Se sono sopravvissuta”, ha scritto, “lo devo anzitutto al caso, e poi alla collera, alla volontà di svelare quei crimini e infine a una coalizione dell’amicizia. I legami di amicizia spesso sembravano sommersi dalla nuda brutalità dell’egoismo, ma in realtà essi si snodavano fitti, invisibili nel campo. … Ci furono delle catene di solidarietà che superavano le differenze nazionali, facevano circolare osservazioni, deduzioni e, in partica, l’amicizia”. Ecco, su questa “amicizia” può forse fermarsi l’attenzione. Molte delle testimonianze femminili che cominciarono a comparire dall’inizio degli anni Novanta sembrano confermare la tesi secondo cui le prigioniere, all’interno del lager si sarebbero comportate diversamente dagli uomini, per una diversa capacità di preservare la speranza, di dominare gli istinti, di mantenersi solidali.
I temi legati alla violazione dell’intimità corporea, dalla costrizione alla rasatura e alla nudità, al continuo dileggio da parte degli aguzzini dinanzi alle diverse forme del pudore violato, dalla natura orrifica degli esperimenti “scientifici” di cui erano oggetto privilegiato le donne insieme ai bambini, alla tragedia delle gravidanze e delle maternità stroncate, dovrebbero essere visti alla luce di un diverso orizzonte di conoscenza. L’intensificazione della percezione della corporeità, anche come spazio simbolico di cura e di preservazione di un’immagine esteriore di sé, tanto più tenacemente protetta quanto più presaga di quella nullificazione a cui l’incuria l’avrebbe ridotta, condusse paradossalmente all’attivarsi di una diversa conoscenza di sé e del mondo.
In molte delle testimonianze femminili, si addita come ‘salvifico’ l’esercizio di una immediata e diffusa solidarietà, di aiuto reciproco, di volontà caparbia di dialogo e di ascolto, insieme a piccoli gesti che restituivano l’illusione di una forma di dignità, di creazione di una fragile sponda di quotidianità. Nel desolato limbo del campo, nonostante le enormi difficoltà, le donne rinominarono il proprio ruolo nel segno di una condivisione che riguardava non solo la cura, lo scambio di informazioni e di oggetti, ma anche gli esperimenti di animazione con canti, recite e lettura di componimenti propri e altrui.
Si trattava di qualcosa di imperscrutabilmente vitale, una sorta di fede in un contesto in cui gli statuti della comunicazione, della relazione e del confronto potevano ancora rivelarsi come generatori di trasformazione e resistenza.
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