Invito i lettori a mettersi a specchio con
Quello che le cose chiedono, di Maria Luisa Bompani, incontri editrice, Sassuolo (Mo), 2024
Come tutti i testi di Bompani, è difficile da collocare in un genere questo libro. Di narrativa? Certo, racconta, e si divide in sezioni, capitoletti, in qualche modo –provvisoriamente – conclusi e autosufficienti, ma non è narrativa, come non lo era Noi viaggiamo vicino e Infanzia dea. E non perché il contenuto –certamente narrato – non sia comunque passibile di tale nominazione, strettissimamente connesso com’è con la biografia dell’autrice; eppure, meno che meno si tratta di qualcosa pertinente al diaristico o al memoriale, nonostante l’onnipresenza discorrente, scrivente, riflettente e riflessa, cogitante criticante e autocriticante dell’autrice. Per quelle forze centrifughe, credo, che tanto per cominciare limitano questo ego al ruolo di un personaggio oggettivo, anzi no, al ruolo di un ‘oggetto’, osservato neutramente sotto lente da un occhio osservante che, alla fine, è quello che sta di là, quello delle cose. E poi per quella costante, anche scostante appunto, ironia che non solo spiazza ogni gesto, pensiero, proposito, pentimento del soggetto, ma lo relega in uno spazio di pensiero dove il sacro dubbio del ‘sapere’ domina e dirige a quelle complessità di riflessione che in genere sono pertinenza della filosofia o dell’etica o dell’etologia. Un saggio, allora? Nemmeno, o almeno non alla maniera classica, quanto piuttosto a quel modo, abbastanza frequente ai tempi nostri, di pensare e far pensare a fondo ma in un apparente raccontare che insieme intrattiene con piacevolezza leggera, fa sorridere o piangere, trascina fantasiosamente. Comunque lo si incaselli, lo consiglio caldamente, garantendone divertimento e saggezza, soprattutto a chi ha un rapporto consapevolmente complicato con le cose.
La vicenda occasionale è la necessità di sgombrare una casa di tutte le cose, gli oggetti che ospita: è la casa dove si è vissuti e dove hanno vissuto fino alla fine i propri cari. Tutti elencati, gli oggetti, descritti, raccontati, avvicendati nei vari destini. I cui stati-atteggiamenti più frequentemente loro connessi sono: chiedere, lamentarsi, esigere, ammalarsi, essere dimenticati, essere curati, salvarsi, rovinarsi. Nell’intreccio si evidenzia quanto già noi sappiamo e cioè a qual punto siamo reificati, sia perché siamo consumisticamente travolti da cose, sia perché siamo esistenti necessariamente attraverso le cose con cui veniamo in contatto – nel niente non saremmo. Ma qualcosa, molto qualcosa in più, alla fine ci viene da questa lettura, o meglio, da questa esperienza-lettura.
Emerge subito dalla “Nota dell’autrice” iniziale, dove si scusa “con le cose della casa, piccole e grandi” che mai compaiono nel libro, un fondo sotteso a tutta la vicenda, che proprio esplicitato pienamente non sarà mai, nonostante il frequente tornare dell’autrice su questo ‘rovello’, con una raggera molto interessante di riflessioni a risposta, che risposte chiuse non sono mai. Penso che questo sia un pregio del libro, in quanto conduce il lettore, attraverso l’induzione di un suo personale senso di colpa, a un’attenzione interiore importante. Con domande e – forse – risposte. Io ne ho provvisoriamente adottata una, che paleserò alla fine di questo itinerario tra le cose di Bompani. L’autrice, comunque, non chiede scusa alle cose non menzionate perché ritenga che, se fossero state esse ‘scritte’, le avrebbe potute salvare dal perire nella dimenticanza: infatti, dice, esse restano comunque “dentro di me”, in una permanenza che supera la casualità con cui la memoria “dispettosa” le richiama “quando le pare”. C’è inoltre, in questo apparentemente involontario tralasciare, l’intervento di un inconsapevole bilanciere etico: certe cose, infatti, ‘meritano’ più di altre di avere qualche parola più che “sottovoce”. Ma si tratta di un’etica che appartiene alla particolarissima dimensione magico-fatata che è spesso la cifra principe della scrittura di Bompani: ma non si intenda la dimensione delle favole, quanto quella dello sguardo ‘maravigliato’ di una bambina che si fa catturare dall’esibizione della vita, colta nella sua straordinarietà proprio dentro quegli aspetti che in genere sono considerati non eccezionali, comuni, banali. Proprio come quei viaggi brevi in paesini collinari vicini del libro precedente, paesetti che niente avevano da esibire di turisticamente rilevante, ma molto di sorprendente all’occhio di Bompani.
La prima, brevissima, sezione è all’insegna di una fretta ansiosa: i cibi non sono cose, e bisogna toglierli di mezzo “subito”, perché “si ammalano” a causa del loro legame con gli esseri viventi (dagli umani ai topi, agli insetti e a “quant’altro vive”), legame ben più “stretto di un tavolo, di un cappotto”. Ma c’è di più in questo dover far passare il cibo “direttamente nelle nostre [dell’autrice e del fratello, n.d.r.] bocche, o almeno in quelle dei nostri animali”. Attraverso l’introiezione di quel cibo è come provvedere a un ricovero sicuro per questo resto quasi sacro dei “genitori e dello zio”; in fondo un modo non così diverso dal rito con cui in passato certe vedove indiane accoglievano nel loro ventre le ceneri del marito defunto; e nemmeno così lontano –sia detto senza blasfemia – dall’ingerire nell’ostia il corpo di Cristo. Non a caso il vino, duraturo e ancor più simbolico, sarà “religiosamente” conservato per essere bevuto pian piano in seguito col dovuto rispetto.
Poi comincia l’immersione in apnea nella massa delle cose da sgombrare. Che provoca ansia, e non soltanto per la quantità, quanto per la portata dei rapporti ‘cari’ in esse incorporati. Intanto “si fanno guardare” nella frenetica constatazione d’inventario – casuale, disorganizzato, sgomento – del soggetto che apre cassetti sportelli, e si muove per la casa quasi inebetito, mentre le cose, “incredule, chiedono una sorte”. Addirittura, alcune la pretendono speciale, che rispetti la loro importanza, funzione, fatica, mansuetudine, fedeltà. Il soggetto inventariante crede di gestire con ordine la gran confusione, inventandosi categorie, funzioni, destinazioni, tempi programmati precisamente; in realtà si perde in miriadi di prospettive che alimentano l’entropia cosmica: “lascio per aria, per non prendere una decisione affrettata, lascio lì (…) architetto un destino per ogni cosa che mi capita in mano”. Fino a entrarci, in quel disordine, per realizzare l’“incontro” e la “cura”, per “trascinare dolore gioia malinconia tristezza follia dentro ogni cosa”.
Quindi cominciano singole vicende di raggruppamenti cosali omogenei (“fazzoletti da mettere in testa e foulard”, “straz e stazaz”, cuscini lenzuola coperte imbottite materassi pedane, ecc.), tutti rigorosamente descritti, nominati col loro vero nome o soprannome dialettale, tutti destinati a qualche tipo di salvazione (nuovi ruoli, nuovi usufruttuari, mescolamenti intriganti con le proprie cose di casa propria) e solo raramente – per non dire: mai gettati via – devoluti alla fine. Che non è per forza una distruzione, quanto piuttosto la degradazione a nessun possibile ulteriore utilizzo, quindi nessun rapporto, nessun movimento nel mondo, nessun senso all’esistere. Intanto, man mano che si fanno più precise, personali le aderenze passate alla vita, capita che con i pezzi si risolidifichino le passioni state, i lunghi tempi catturati, gli amori e i divertimenti incamerati, fino a mostrare inattese misteriose lacune nella loro distribuzione temporale; o nella loro sparizione, quando la presenza assente, pure se fantasmatica, c’è in tutta la sua denuncia di vuoto incolmato.
Ci sono poi cose, come la toeletta, che, con la potenza della memoria non solo incamerata, ma irraggiata continuativamente intorno, sono capaci di imporsi al soggetto sgombrante. Infatti, del tutto inutilizzabile, la toeletta finisce comunque in un luogo ‘sicuro’, il garage della scrivente. A compenso essa apre l’accesso ai suoi tesori, come la scatola di ottone della madre, con cui permette al soggetto una nuova chance, una nuova scelta:
“Non ricordavo più di averla presa dopo la sua morte né dove fosse finita (…) Mi viene in mente quando l’avevo (…) aperta e poi subito richiusa. Come se ci fosse dentro qualcosa di vivo che poteva scappare e perdersi del tutto. Adesso che (…) è in garage decido di fare i conti con quel nido privato di mia madre.” (pp.46-7)
E quanto emerge dalla scatola è molto più di un ritratto, di un ricordo: è la madre fatta dalle sue cose, intatta, cosa lei stessa, cosa viva tra le sue cose vive: uno dei più vitali ritratti che io ricordi di avere letto:
“è ancora lì l’odore, improvviso, di cipria e di stantio. (…) molti oggetti per capelli: becchi, mollette in alluminio per fare onde, mollette nere, un cordino blu, alcuni pettinini curvi di osso. E poi una scatolina rotonda con cipria e piumino per distribuire la cipria sul viso, uno specchio rotondo doppio da borsetta con due immagini femminili identiche. E un fazzoletto quadrato, con bordo doppio di pizzo industriale rosa, che sicuramente proviene da una bomboniera. Mia madre lo usava per tamponare gli eccessi di rossetto. Lo stendo e vedo tante impronte della sua bocca. Tanti baci, dati al fazzoletto.” (p.47)
Nel frattempo, come il fratello, solo accennato all’inizio, è diventato più presente – ma quasi con una funzione di contraddittorio che dà maggiore spessore al soggetto scrivente – , così compare a lampi – che sono vere e proprie gag fulminanti – quel compagno di vita che avevamo già conosciuto nei viaggetti del libro precedente, e che anche qui come là svolge spesso il ruolo rassicurante di un deus ex-machina – ma emergente dalla concretezza terragna – che trova sovente l’ultima parola per definire una porzione di realtà, altrimenti a rischio di infinita indefinitezza e sospensione da parte del soggetto scritturale: che vuol dire cioè, per qualche cosa, un aggiustamento opportuno, o l’assegnazione decisa di un ruolo nel riciclaggio, o l’accogliente adozione tra cose proprie. Più lui, alla fine, che lei-soggetto, fa sì che “le cose di incerta proprietà” diventino “nostre”. Lei le stipa nel garage della sua casa altra, lui le colloca al loro esatto, logico,nuovo posto della sua-nostra casa.
Certo, capita che siano proprio le cose a darsi una nuova possibilità: si impongono, magari “chiedono” come dice il titolo del libro, ma in verità chiedono regalmente, come sovrane assolute e concedono –regalmente– i loro doni, quando non li impongono come la mela fatata di qualche strega: “mi sono presa tutti i calzini che ho voluto, ebbra, come se mi fossi impossessata di tutti i gioielli e i tesori di famiglia”. Tanto che, ad un certo punto, il soggetto narrante sente l’esigenza di costruirsi uno spazio proprio intimo, personale, da provare a sottrarre alle cose, tutto suo, in cui esistere oggettivamente soggettivo, indipendente, dove pensare “sottovoce” tutti i ‘forse’ che gli pare, senza che esse, le cose, gli piombino addosso a dirigere le sue scelte:
“forse quei libri del nonno non li voglio vedere, mi costringerebbero a chiedermi: che farne? E invece nella loro bara di cartone, tutti insieme, stanno bene (…) finché il mondo non cambierà a tal punto che verrà qualcuno a bruciarli perché nessuno vorrà più un libro da leggere (…) forse però non faccio male, intanto, a conservare i libri del nonno (…) mentre tutto il resto, tutte le cose e le persone e gli animali e la Terra scappano ammalati dall’impermanenza, e io con loro, così mi dimentico che ci sono, i libri, là nella cantina, e amen.” (pp.70-71)
La pandemia arriva inaspettatamente e incide il distacco, la forzata separazione dalla casa da sgombrare. Il soggetto scrivano vive col compagno nella casa del compagno. Per usare il tempo, lui va riordinando le proprie cose e, qualcuna, gliela regala:
“è così bello che queste cose non siano mie, né dei miei parenti. Le tratto con cura, ma posso pensare di regalarle, non fanno storie, non si lamentano come fanno le mie. Sono limpide e trasparenti, scatenano in me una curiosità leggera, un sottile piacere di invadere la vita di un altro, maneggiando gli oggetti della sua vita precedente al nostro incontro.” (p.85)
Al punto che:
“mi accorgo all’improvviso che potrei vivere senza tutte le cose dei miei che sono là, nella casa. (…) Abbandonare quelle cose che si trascinano dietro i corpi dei miei morti facendomeli credere un po’ vivi e dare spazio a cose più leggere (…) La loro compagnia si annuncia con la leggerezza del nuovo.” (pp.85-6)
Qualcosa è avvenuto: il distacco pandemico ha contornato il distacco dal passato. Non a caso la sezione successiva che adesso si apre dice: “Fuori tutto, ultime cose”, che sarebbe quasi l’annuncio di un bel lietofine, se non fosse che siamo appena a metà del libro. Il distacco si sente: come in un elenco le varie “ultime cose” (l’appendiabiti a muro, il mobiletto del telefono, il cestino dei giochi, ecc.), pur descritte con precisione notarile, stanno non-vive come in una fotografia, e il soggetto narratore onnisciente si fa sicuro esecutore del loro destino, privo di dubbi, padrone del futuro. Addirittura viene compilato un preciso, esaurientissimo inventario delle cose che finiscono in discarica. Con lucido, freddo abbandono:
“Se ho dimenticato di chiamare qualcuno, ditemelo. Poi andiamo.
Pssst… Potremo tornare indietro?
No, da là non si può.” (p.100)
Sono elencate con precisione anche le cose assenti, quelle che non ci sono proprio e dovrebbero invece, descritte minuziosamente, ma non come negli avvisi che si appiccicano ai pali per strada per un cane o un gatto smarrito. Perché è come se qui non ci fosse affezione, come quando si trova qualcosa per caso e ci si accorge che:
“Il ritrovamento fortuito mi rende felice ma allo stesso tempo mi inquieta. (…) quello che per me è importante è prendere le cose, non averle. (…) Facciamo che io mi dimenticavo di tutte le cose della casa (…) facciamo che mi rotolavo per terra disperata perché non trovavo più niente (…) Facciamo che poi tornavo a casa mia e mi bloccavo sulla soglia vedendo che invece le cose della casa dei miei erano lì, portate da me, proprio tutte (…) proverei una grande gioia, che però si spegnerebbe (…) sarei presa dall’enorme sgomento di avere in casa tutto e di non potermi più muovere. (…) Io, molte cose, non so più di averle, bisogna che lo ammetta. (…) Se le ripongo e le inscatolo, le cose non esistono più (…) se non gli dedichi un po’ di parole scritte, le cose non ci sono.”
È qui evidente, forse il punto più intimo e profondo del libro, che le cose stanno per quel groviglio interiore che sono gli affetti ancorati al passato, dentro ricordi-emozioni che vanno e vengono, si perdono e riaffiorano, fanno piacere e fanno male, in un alternarsi di nostalgia urticante e desiderio di abbraccio del nuovo, del presente, del possibile futuro, anche a costo di sensi di colpa, per colpe che non sono colpe.
Arrivano capitoletti dove le cose che ancora ci sono, nella casa, usate o inutili, continuano a rievocare brani forti della vita passata personale, intima, affettiva, ma contemplati con distacco di saggezza, senza attaccamento ossessivo, dove anche la conservazione comincia anch’essa ad essere oggettiva, faccenda del tempo che passa, dell’esistere. Magari da “godersi”, nell’“attesa di niente e di nessuno”. Non è che sia venuto a mancare l’interesse o un rapporto significativo del soggetto con le cose, quanto piuttosto è maturato pian piano una sorta di diverso rapporto con la finitudine in genere, con la morte in particolare. Sono parole di consapevolezza da dirsi non solo sottovoce, ma nella forma della poesia:
“ora nelle nostre case di parenti quella zia / che possiamo indossare e leggere e lavare / e aprire e chiudere e guardare giovane sul muro, / quella zia solida e colorata che ci accompagna ancora / nell’armadio in cucina nel comò, fa il dolore più mansueto, / e noi lo appendiamo ad asciugarsi all’aria, al sole” (p.115)
Come se adesso si potesse affrontarle in massa, ecco che altre tantissime cose, recuperate, regalate, conservate, compaiono tutte insieme, come nello scorrere di un flusso di coscienza inarrestabile, appiccicate a brandelli di esistenza come non potessero più esserne disincagliate, in un diacronico bergsoniano perdurare, che davvero mostra la coesistenza, anzi no, la co-essenza di tutti col tutto. Alla fine di quello che è “un po’ come un tema libero”, alla ribalta di questo teatrino non sono venuti solo il soggetto scrivente e la sua famiglia, comprese situazioni limitrofe come la scuola e il restauratore, ma è comparso il mondo largo, dal motorino Piaggio alla santeria cristiana, dall’artificeria Capodimonte a Gandhi: un grande presepe laico e sacro che ricostruisce la vita in un perenne presente.
Infine, quando la casa – muri, tetto, stanze, scale – se ne va ad un altro possesso, si spalanca di colpo il vuoto della perdita. Per quanto l’ironia eviti l’esibizione del sangue dalla ferita, comunque proprio nella “follia” di certi propositi del soggetto narrante emerge qualcosa che è molto più sensato di quanto l’autrice pensi:
“i materiali da costruzione di una casa lo sanno, di essere benvoluti e poi bistrattati, ben assemblati e riveriti e poi strapazzati, sbriciolati e, solo se va bene, usati per nuove costruzioni. (…) Davvero non capisco perché uno non possa staccare quelle parti che dopotutto erano state scelte dai padroni (…) Eppure, anche se sai che chi compra cambierà tutto, non scardini quelle cose, le lasci lì (…) allora spero che un’altra divinità scorra tra le venature del legno, e porti sogni difficili a chi ha osato macinare, o bruciare addirittura, quelle belle asce che, chiudendosi e aprendosi, ogni giorno generavano le piccole, piccolissime, a volte invisibili, sorprese della vita quotidiana.” (pp. 130-131)
Credo che, al di là dell’amore per la casa, sia evidente qui l’osservazione critica, non così frequente, di un tipo di spreco che oggi è comunemente praticato, ad esempio sotto il nome di ‘ristrutturazione’, ‘riqualificazione’, là dove molto spesso è il capriccio o la moda e non una necessità basilare a dettare l’abbattimento di strutture in edifici o spazi privati e anche pubblici. Comunque, per evidenziare il punto cruciale, l’autrice convoca lo spirito –giapponese – delle cose, un’anima degli oggetti, buona o cattiva a seconda di come sono stati trattati. Pur nell’ironia, la scrivente si interroga seriamente se sia più attendibile una sorta di animismo orientale o una cultura consumistica dello spreco.
“Ascolto voci che mi nascono dentro, mentre guardo le cose (…) tocchi un comodino: è solido, servizievole, arreso. Cosa fai? Se non lo ascolti ti senti un verme (…) E ti si fa vicina anche un poco la materia di cui è fatto, che può (…) scoprire radici e ferite.” (p.137)
Ed ecco perché le cose che vanno al riuso o in discarica, diventano “roba che non vive più” e che perciò “ti lacera l’anima”. Come in un orfanatrofio, con attive tutte le sindromi dell’abbandono, le ansie e le paure del possibile futuro. E con il gran senso di colpa della scrivente e del lettore – non certo innocente. Tanto da accettare, meritata, la fatale maledizione della radiolina del Mulino Bianco:
“Dal fumo nocivo che genererò io vi guarderò sempre e conficcherò in voi una spina, tutte le volte che dovrete prendere la decisione di buttare le migliaia di cose di cui vi circondate, che vi uccideranno prima o poi” (p.146)
Forse per questo altri oggetti o insiemi di oggetti prendono a rivivere la loro storia, in un intreccio di passato e presente, di vita non sempre attiva, con le trasformazioni della vecchiaia; arrivano ad annullare il soggetto ascoltante onnisciente, per proporsi in prima persona, narrando la loro nuova condizione esistenziale – e magari in nuove forme come i dialoghi da copione teatrale delle tre madonnine –, oppure arrivando a scrivere una supplica al Presidente del Centro del riuso perché trovi per loro “persone sagge”, che sappiano guardare ed abbiano la capacità di cogliere il loro “profumo di cosa”.
L’ultima sezione ha un titolo molto impegnativo: “Far durare le cose”. Perché, se non altro, comunque lo sappiamo che alla fine è l’entropia che vince. Non a caso la scrivente, per i dubbi, le recriminazioni circa il significato del suo libro (libro-cosa!), si sdoppia nella scrittura, vero alter-ego con cui condividere una disamina metalinguistica, nella ricerca di una verità più vera della Verità –metafisica o scientifica che sia questa maiuscola. Una verità, minuscola, in cui può anche sminuire o annullare il ruolo di questo libro ormai quasi compiuto, perché le cose possono anche solo risuonarle dentro, autonome, bastanti a sé stesse. L’autrice ha infine capito che “tra il distruggere (…) e l’immobilità, il non fare niente, il bloccare la vita, mia e delle cose” in un libro, “c’è sempre un’altra possibilità, quella di prendersi cura, di me e delle cose”, cioè di vivere, e vivere bene, scrivendo solo per gioia, muovendosi anche verso degli altrove, lei e le cose. L’eternità evocata nel titolo della sezione viene ridefinita:
“la nostra eternità è qui, e si mostrerà solida finché gli esseri umani continueranno ad avere occhi e orecchie, a essere corpi che sfogliano i libri e li tengono nelle loro mani. (…) Per sempre non esiste, per adesso è più bello.” (p.171)
Non poteva mancare a questo punto una dettagliata riflessione su quell’istituzione che per eccellenza si offre alla funzione di conservazione curata e consapevole: il museo. Vengono passati in rassegna vari tipi di museo o pseudomuseo per le cose dismesse: siano mostre di oggetti particolari o ricostruzioni di culture o conservazioni variamente orientate; non mancano ipotesi dell’autrice più o meno utopiche, magari sulla scia del Museo dell’innocenza, realizzato dallo scrittore Ohran Pamuk in connessione con l’omonimo romanzo, in merito al quale lei si interroga sull’effetto che potrebbe avere l’irruzione della vita vera nell’arte. Alla fine l’autrice si convince che il luogo-museo più autentico è casa sua, stipata della sua vita nelle varie età, dove “niente è vero” e “tutto è vero”.
Segue poi uno scambio esperienziale con amiche e amici, concernente soprattutto i rapporti che si intrecciano con le cose, col portato di vita che esse hanno assorbito.
La fine del libro, si sente, fa fatica a venire. Lo confessa la scrivente stessa: “Non ho voglia di mettere il punto.”. E così assistiamo a una improvvisa ribellione alla parola “reliquia”, se attribuita, incarnata alle cose, se addirittura sospettata di conservare, più che una memoria, un senso di colpa. Innocente, ma ineliminabile:
“le lenzuola, su cui si dorme si ama si muore, forse sono reliquie che stringono a me l’ultimo verbo, e la colpa di non averlo saputo allontanare dalla vita della mia famiglia.” (p.195)
Finché, invece, molto semplicemente arriva a cogliere l’essenza delle cose che ci vengono dai nostri cari: “l’affetto per le cose” è “una religione che sa come tenere in vita chi non c’è più”.
Nell’ultima parte del difficile distacco dal libro, in diverse forme (piccolo racconto, brano diaristico, testamento, poesia) è messo in scena il trapasso degli oggetti ad altro che se stessi, per mutazioni di forme e di rapporti, ma che è anche il trapasso, la cessione di alcune importanti cose – tra cui la scrittura – dalla autrice ad un oltre-se-stessa, oltre la morte, affidandosi a quanto di sé seminato nel mondo dei successori.
Con le poesie si guardano varie possibilità di vecchiaia, ognuna incarnando un diverso rapporto con le cose tanto amate, manovrate, pensate nelle pagine precedenti.
E ritorno a quel chiedere scusa dell’inizio alle cose dimenticate o non nominate. Vero che non è possibile ricordare ogni singolo oggetto divenuto cosa nel rapporto con noi, cioè praticamente ogni gesto di ogni singolo istante del nostro vivere, ma non solo per un problema di numero. Se è difficile tornare su ogni singolo momento vissuto senza quel sottile, quasi impercettibile fondo amaro di colpa, è perché ci accorgiamo di averlo lasciato passare senza dargli la dovuta importanza – di irripetibile, di unico, di eccezionale –, senza averlo centellinato, assaporato, goduto prima di perderlo per sempre. Perché si vive sprecando il tempo e le cose, come se fossero lì per sempre, e noi con loro. E non è possibile diversamente. Sennò saremmo incapaci di vivere la nostra impermanenza.
E A PROPOSITO DELLA TRAMATURA DELLE COSE:
la mostra Cambi di scena di Giorgio Bellini, presso la Sala Grande del Palazzo Municipale di Quingentole (MN)
11 gennaio – 9 febbraio: sabato 16-18, domenica 10.30-12, 15 -18; in altri giorni apertura su prenotazione (349 118 2888)
Insieme al libro di Maria Luisa Bompani Quello che le cose vogliono, andava allestendosi la mostra di opere di Giorgio Bellini che, come ci dice nella presentazione del catalogo Tiziano Lotti , Presidente di Civiltà d’abitare, l’associazione che propone l’evento, è un artista che“ lavora con materiali di scarto, quelli che vengono gettati perché non più funzionali, dismessi, rotti, inutilizzabili (…) vede infatti nell’oggetto abbandonato, calpestato, messo in disparte, una possibilità di rinascita con nuova funzione. Nascono così le sue sculture, i suoi quadri, le installazioni. Le forme che assumono non consentono alcun rimando al figurativo (…) lasciano piuttosto allo spettatore curioso una aperta possibilità di interpretazione”. La mostra è davvero incredibile: già la collocazione in magnifiche sale affrescate cinquecentesche (sale anch’esse salvate dall’abbandono e offerte ad un ‘ri-uso’ culturale e comunitario) mostra un abbinamento che sa e vuole dare valore al presente, costruire prospettive di futuro, senza interrompere l’eredità del passato; ma assistere alla magia per cui ‘pezzi’ di ‘robe vecchie’, messi bizzarramente insieme, diventano cose che aprono della vita, dei giochi, dell’oltre, dei sentimenti, degli incontri, della natura, svelamenti sfuggiti all’occhio distratto del quotidiano, aperture a pensieri impensati, prospettive impreviste, be’ questo è ricchezza. Quella strana ricchezza che sbuca dalle rive del Po, cresce selvatica in arbusti, alberi matti, robinie, e si mescola al fango per far nascere quell’odore bagnato di fiumara in cui si muovono e si incontrano artisti come Umberto Bellintani, Italo Lanfredini, Ornella Fiorini, Stelio Carnevali, Franco Piavoli, Elia Malagò, Alberto Cappi, Franco Bertone. E quegli altri, non dimenticati, ma solo difficili da nominare tutti. Non ultima, Clelia Marchi di Poggio Rusco. Se non la conoscete, andate a vedere – che si può fare di una casalinga cosa.
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