Finalmente la tregua. E non aggiungo commenti. Ma un altro titolo Leviano che non ho mai inteso parafrasare perché per me sacro, mi pare inevitabile per raccontare ciò che ho visto ieri sera. Non è stata una sorpresa, ne ero e ne sono consapevole da tempo, ma ritrovarselo davanti in un film che non è documentario, non è fiction, ma pezzi di vita vera che non ti lasciano scampo è uno shock che paralizza ogni altro pensiero. Un pugno negli occhi che ti fa ribellare dentro, perché il sentimento di impotenza che si prova è paralizzante. Lo stesso senso di impotenza che strazia un popolo oppresso, minacciato, continuamente decimato, abbandonato dalla cosiddetta comunità internazionale, tanto impegnata ad esportare democrazia e soprattutto armi. Da oltre settant’anni una feroce e crudele occupazione costringe gli abitanti di antichi villaggi palestinesi all’esodo, all’espulsione dalle proprie case, alla perdita delle proprie radici storiche, culturali, sociali.

No Other Land è il titolo di un film realizzato da Basel Adra (giovane avvocato palestinese, attivista e figlio di un resistente non violento all’occupazione israeliana) e Yuval Abraham (giornalista israeliano) insieme a due collaboratori: Hamdan Ballal e Rachel Szor. Tutti appartenenti a un collettivo pacifista. Insieme hanno raccolto una enorme documentazione (materiali girati nel corso del tempo con telefonini, filmini famigliari, riprese televisive, frammenti di notiziari di varie emittenti televisive) che ricostruisce la storia di un villaggio storico, quello di Masafer Yatta, non lontano da Hebron, nella Cisgiordania occupata. Il villaggio è famoso per le sue grotte (un po’ come i Sassi di Matera). Ebbene la politica di espansione degli insediamenti (illegali) del governo israeliano per alloggiare un numero sempre crescente di coloni arriva a dichiarare quel territorio zona dedicata alle esercitazioni militari. E arrivano le ruspe scortate da soldati armati e bardati come extraterrestri che nemmeno nei più truci film di fantascienza, ad abbattere case, scuole, pollai, e distruggere misere infrastrutture vitali: le scene dello scarico di una autobotte che riempie di calcestruzzo l’unico pozzo dell’acqua, quelle di soldati che con motoseghe tagliano tubi dell’acqua, di ruspe che divelgono condutture idriche, ed energetiche, gridano vendetta. Ma quegli abitanti non imbracciano armi, non possono che urlare la loro disperazione, i bambini piangono la loro scuola, il loro “parco giochi”, la morte di alcuni piccioni sepolti sotto le macerie. Un giovane palestinese che tenta di sottrarre un generatore di elettricità dalle mani dei soldati israeliani viene colpito da una raffica e rimarrà paralizzato dalla testa in giù. Al ritmo di una casa alla settimana ridotta in macerie senza spesso nemmeno il tempo di salvare i contenuti essenziali, gli abitanti sono costretti a ritornare nelle grotte. Ma nessuno si arrende, di giorno le donne ricostruiscono, di notte lavorano gli uomini ma è una lotta impari. Quando non arriva l’esercito ci pensano bande di coloni armati del vicino insediamento a completare l’operazione, a terrorizzare e ammazzare, sempre però scortati e protetti dall’esercito a garantire soprusi e violenze anche letali.

Ė una storia di resistenza senza fine perché è senza fine l’occupazione. I giovani si interrogano se partire o restare, sognano mondi lontani, ma partire significa regalare la terra, rinunciare alla propria storia, e allora restano, chiusi in gabbie a cielo aperto dove non puoi nemmeno muoverti perché la tua auto ha la targa verde, mentre le macchine degli israeliani hanno la targa gialla e possono circolare ovunque: un altro tassello di quell’apartheid che isola ogni giorno di più. Mi chiedo come possano continuare a vivere in quelle condizioni. Io non so se ne sarei capace. Provo un senso di ammirazione sconfinata. Mi torna alla mente il libro di Nathan Thrall: Un giorno nella vita di Abed Salama e guardo questo film che non sa finire perché per i palestinesi sembra che non ci sia una fine se non quella della loro distruzione, e forse lo sterminio. Quella che la tregua non fermerà.

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