In questa lunga estate, di notte le finestre sono aperte sul giardino: c’è un silenzio abitato, un po’ di riflessi di luna fra le piante che odorano di acqua delle innaffiature serali e grilli che senza sosta sono il sottofondo di questo piccolo cosmo. C’è un aperto che allarga e inonda il sentire, ma non riesco ad aderire al torpore perché la mente non si svuota, va alle immagini del giorno, al lutto e al dolore di chi ha il suo piccolo mondo distrutto, all’empatia che come donna ho imparato verso le altre, insofferente della violenza, dell’oppressione, dell’ingiustizia. Leggo e rileggo le parole di chi, attraverso testimonianze antiche, mi porta ad un presente immutato fatto di massacri e distruzione:
“Retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo. Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio dal calendario tenendo il conto dei giorni, mesi ed anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. I 12 mesi di quell’anno si riorganizzarono e turbinarono senza meta nel cuore della Palestina. Gli abitanti di Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di 40 generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri.” È Amal che mi parla dalle pagine di Ogni mattina a Jenin (Susan Abulhawa, ed Feltrinelli). E ancora:
“Mio fratello era un ragazzo che camminava per le colline di Tulkarem e beveva dalle sorgenti di Qalqilya. Giocava a calcio con lo slancio della gioventù sulle pianure di Haifa e si nutriva dal petto di una stirpe antica nella terra dei suoi progenitori. Il suo sorriso ha sciolto molti cuori mediterranei. A dire il vero era il sorriso più bello che io abbia mai visto. Mio fratello è stato ripudiato, incarcerato, torturato, umiliato ed esiliato perché voleva vivere la sua vita ed ereditare il patrimonio lasciatogli dalla storia. Aveva dato il suo cuore ad una sola donna e il suo dolore per lei ha fatto tremare la terra e versare il sangue di quanti lì si trovavano.”
Amal conosce il mondo occidentale, torna dagli Stati Uniti e confida la sua delusione a Fatima, moglie di suo fratello,morta nel campo di Shatila, sventrata con la creatura che portava in grembo:” Quando le confidai la serie di relazioni deludenti che avevo avuto negli Stati Uniti, la sua voce si fece più profonda…” Amal credo che la maggior parte degli americani non ami come amiamo noi. Non è questione di inferiorità o di superiorità. Vivono in sfere sicure e superficiali e raramente spingono le emozioni umane nelle profondità in cui viviamo noi. Vedo che sei confusa. Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per altri è terrore, perché noi ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L’occupazione israeliana ci ha esposti fin da piccoli a emozioni estreme e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema. Le radici del nostro dolore affondano a tal punto nella perdita che la morte ha finito di vivere con noi come se fosse un componente della famiglia che saremmo ben contente di evitare, ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso Amal. È un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita ti ha salvato da una pioggia di bombe o di proiettili che volevano attraversarti il corpo. È un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio”.
Nessuno tornò più ad Ain Hod: “E fu così che otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale dell’esercito del Saladino, nel 1189 d.c., ad Ain Hod non si videro più bambini palestinesi… Yehya calcolò quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro ed ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo che si sarebbe stabilito in quello spazio con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino…”.
La resistenza solidale che mi resta è la scrittura, la narrazione, il coltivare e seminare come attaccamento alla terra che è vita, come ha fatto Youssef Abu Rabie, giovane palestinese che piantava semi a Gaza sotto le bombe, in una terra devastata, anche lui alla fine vittima del massacro. Ce lo racconta Paola Caridi in un suo articolo, Caridi che, nel suo Il gelso di Gerusalemme, ad una storia fatta di sangue oppone lo sguardo vivo del paesaggio che muta all’avanzare della colonizzazione dove l’appartenere alla propria terra da parte del popolo palestinese, si trasforma nella brama del possesso della terra di chi colonizza. “Non è fondamentale utilizzare solo le fonti scritte perché la Storia e le storie abbiano valore…Toglierci dal centro del palcoscenico. Metterci noi umani quanto più ai margini, anche per comprendere la nostra di storia…. Perché c’è una storia che è oltre il passaggio degli umani, a cui gli alberi assistono come testimoni, più spesso come vittime sacrificali e che ci dice altre, diverse cose sulla terra che attraversiamo solo temporaneamente, come individui e collettività”. (Il gelso di Gerusalemme. Paola Caridi, ed. Feltrinelli).
Gli alberi sono i protagonisti del paesaggio palestinese prima dell’occupazione: sambuchi, fichi, gelsi, aranceti, ulivi, paesaggio stravolto dall’occupante che importa specie non autoctone con faraonici progetti di impianto, spesso per coprire villaggi palestinesi cancellati e devastati, ormai vuoti e inabitabili, senza speranza di ritorno per i vecchi abitanti ammassati nei campi profughi. Anche a Gaza c’era profusione di alberi autoctoni prima che i nostri occhi fossero pieni di una sconfinata distesa di macerie, di corpi devastati, di polvere. “I sicomori c’erano prima. Tanti. I testimoni, i vecchi, parlano addirittura di boschi di sicomori, come se Gaza, all’interno della Palestina, fosse diventata con l’andare dei secoli e dei millenni il luogo privilegiato per un albero a suo modo singolare. Un albero sacro, anzi, il principe degli antichi alberi sacri….Per coloro che frequentano la messa il sicomoro è quello su cui salì Zaccheo….salire su un albero per poter vedere Gesù che predicava a Gerico…Per i palestinesi di Gaza è sempre un sicomoro ad ospitare il riposo della Sacra Famiglia…Era il “sicomoro santo” di cui si parlava a Jabalia, il grande albero non lontano dalla chiesa bizantina del 444 dell’era cristiana, appena finita di restaurare e distrutta nella guerra di Gaza del 2023/24.” (il gelso di Gerusalemme, Caridi)
I fichi dei sicomori erano per tutti, per i bimbi, per gli affamati, per i pellegrini: si poteva raccoglierli, ma non portarli via, solo mangiarli sotto le fronde. Il sicomoro fu anche un santuario rurale perché le donne si fermavano a pregare sotto la sua ombra o a chiedere una grazia. Un albero sacro. Una pianta generosa che ha intrecciato la sua storia con quella di un popolo. Ora tutto spazzato via. Se fuori dalla striscia di Gaza si incontra un sicomoro, occorre immaginare il villaggio palestinese che un tempo sorgeva attorno all’albero.
“Le mie braccia cresceranno lungo un albero di sicomoro
Il mio cuore getterà la sua acqua di terra su uno dei pianeti
Cosa potresti essere da morto dopo la mia morte?
Cosa potresti essere da morto prima della mia morte?”
Anche i versi di Mahmoud Darwish sono attorno a un albero nel suo poema Murales.
“Lo vedi? Tutto distrutto. Questa è la mia terra. La vedi? Era piena di alberi di ulivo. Dove sono gli ulivi? Non c’è più nulla. Nulla. Nulla. È l’urlo di Abdallah al Majaida, un bambino di Khan Younis, nel sud della striscia di Gaza, che registra in un videoclip la visita a quella che era la sua casa” (Il gelso di Gerusalemme, Caridi). Quegli ulivi che i coloni da anni sradicano nelle terre dei contadini palestinesi e che sono serviti a costruire i 700 km del muro che divide la Palestina da Israele, valicabile da parte palestinese solo con soste infinite ed umilianti ai chek point.
Con la nascita dello stato d’Israele, cambia il paesaggio, cambiano i tipi di alberi e il loro uso. Vengono piantati milioni di pini di Aleppo. Sono boschi non nativi: il paesaggio deve assomigliare a quello europeo, luogo di provenienza dei nuovi coloni, bisogna cancellare la memoria dei villaggi palestinesi spopolati dalla guerra, prevenire il ritorno dei rifugiati e gli alberi hanno anche questa funzione, di nascondere.
“i paesaggi sono testi, così come i corpi. Sono testi perché attraverso di loro leggiamo narrazioni incarnate di relazioni sociali e di potere, di equilibri e squilibri biologici e della concreta configurazione di spazi, territori, vita umana e non umana” (Serenella Iovino in Il gelso di Gerusalemme).
La colonizzazione d’insediamento che è avvenuta e continua ad avvenire in Palestina è aiutata dal nostro sguardo occidentale che non si libera della idea di supremazia.
Cerco di esorcizzarla portando sulle spalle la resistenza delle donne palestinesi, uno scialle magnifico che Lubna ha ricamato per me. Lubna è una amica che vive in Cisgiordania, in un villaggio sotto gli attacchi costanti dei coloni israeliani. È la compagna di Ahamad, un attivista resistente che ha conosciuto le carceri israeliane, che è nato in un campo profughi e i cui genitori hanno conosciuto l’esproprio della casa e dell’uliveto da cui vivevano da generazioni. Lubna accompagna la resistenza di Ahamad con il ricamo. Con altre donne, tesse la sua di resistenza, silenziosa e tenace che mani femminili hanno saputo tenere viva perché il ricamo palestinese è legato al concetto di libertà e giustizia; è stato un mezzo di espressione politica durante le intifada quando bandiere e simboli erano banditi, diventando così un simbolo di sfida, un’arte, patrimonio della cultura di un popolo per evitarne la scomparsa, un potente simbolo di sopravvivenza.
È conosciuto come “tatreez”, ogni punto e colore ha un significato specifico, legato alla natura, alla religione, alla vita quotidiana.
Nel ricamo della vita ogni punto è una storia, una trama di memorie: sulle spalle delle donne un mare di fiori racconta di terre, di antichi amori. Il verde per le colline, il rosso per il cuore, il nero per la notte. Ogni disegno un canto, ogni filo una voce, nel ricamo si cela la Palestina ed il suo lutto. Nelle mani delle madri l’arte si fa preghiera.
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