All’interno di un libretto di Jeanne Hersch, Tempo e musica, c’è un Saluto di Czeslaw Milosz che, in poche pagine, rimanda alla figura di questa grande pensatrice del Novecento e ne delinea il carattere. In particolare:

Ciò che davvero la distingue e ammiro in lei è una qualità rara tra gli intellettuali: Jeanne Hersch è una persona pia. Tendo a separare il termine “pio” dalla fede religiosa e ad applicarlo a tutti quelli che s’inchinano di fronte al mistero dell’universo e della condizione umana. La pietà di Jeanne si esprime nella riflessione sull’enigma della nostra esistenza, fondamentalmente contradditoria perché vissuta nel tempo e, tuttavia, chiamata a trascendere il tempo.[1]

Nata a Ginevra da madre polacca e padre lituano, ebrei giunti in Svizzera a cercare la libertà, studiò ad Heidelberg sotto la guida di Karl Jaspers, come Hannah Arendt. Da piccola visse in casa l’esperienza del ‘Bund’, un partito socialista che, a partire da una concezione laica dell’ebraismo, aspirava alla giustizia sociale, alla libertà democratica e alla solidarietà internazionale. Nella tradizione culturale che si esprimeva nella lingua Yiddish, sperimentò la forte valenza pedagogica dell’impegno bundista, caratterizzata dall’altissima valenza intellettuale, dal disinteresse e dalla semplicità comunicativa.

Distrutto poi dall’avvento del nazismo, di quell’esperienza rimasero pochi testimoni dopo la guerra.

Negli anni trenta, Jeanne Hersch, che era nata nel 1910, conobbe la realtà sociale e politica della Germania in cui si era trasferita per motivi di studio e anche della Polonia in cui accompagnava la madre dai parenti durante l’estate.

Al momento dell’accordo russo-tedesco, il patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939, si trovava proprio a Varsavia.  Il padre la richiamò con urgenza assoluta a Ginevra, consapevole del fatto che poco dopo ci sarebbe stata l’occupazione della Polonia e l’avvio della guerra. Così Hersch, che aveva quasi trent’anni, tornò a Ginevra e visse come tutti coloro che abitavano in Svizzera, vicini agli avvenimenti ma contemporaneamente protetti. Pur partecipando a iniziative destinate ai rifugiati e avendo chiara la scelta politica da compiere, ebbe l’impressione di essere vissuta, in quel periodo, in totale assenza dal mondo, divorata dalla propria vita personale, mancando l’appuntamento con la storia e aprendo un problema di difficile soluzione, quello del rapporto tra il lato personale dell’esistenza e la ‘grande storia’ umana.

D’altra parte era stato proprio l’incontro con Jaspers a portarla all’idea di limite, al senso della condizione umana sulla finitezza, oggetto costante del suo pensiero, quello che lei chiama l’‘irriducibile’. Da una parte la vita è soggetta alla causalità della natura e del mondo, dall’altra è aperta a ciò che è altro dal mondo, e diventa soggetto di libertà. Si tratta di accettarne il compito, dice Hersch, soprattutto nel presente, in cui è necessario prendere coscienza di una dimensione di potere, data dagli strumenti elaborati con i quali si prolunga e si moltiplica la presenza umana nel mondo. Ed è così che sorge nelle persone un sentimento nuovo della libertà, della responsabilità, della finitezza e della sua estensione. Le nuove forme di comunicazione rappresentano una sorta di vittoria sul tempo e sullo spazio, con la conseguente trasformazione della condizione umana. Da una parte questo non muta i problemi fondamentali della libertà, ma moltiplica le responsabilità.

La condizione umana si legge nella realtà stessa dell’uomo. Lo spirito più semplice immagina l’uomo come un essere composto da un corpo e da qualcosa in più che non il corpo, qualcosa che si definisce anima, anche quando non si sa né quale sia la modalità secondo la quale esiste, né cosa sia. L’anima, in senso generale, è ciò che nell’uomo non è mai dato alla maniera di un oggetto sociale. Alcuni dicono che non esiste nel reale, altri che esiste nell’irreale, o in un reale che non è il reale umano, e quelli che dicono che essa non esiste parlano soltanto del dato senza dirlo. Il corpo è dato se l’anima lo afferra, l’uomo non può farci granché; è dato come strumento alla forza incarnatrice che non può esistere senza il suo strumento. L’anima senza corpo non è più l’anima, e il corpo senza anima non è più il corpo, poiché è l’incarnazione da compiere che dona a essi realtà. L’uomo è una creatura incarnata, che non può compiere nulla di reale, se non incarnando. I suoi sogni reclamano dei gesti, le sue volontà degli atti.

Proprio perché l’arte è un’incarnazione perfetta, compiuta, definitiva, avrà qui un posto privilegiato.[2]

Parte integrante della condizione umana è dunque la riflessione sull’arte. Alla domanda di Gabrielle Dufour “In che cosa l’opera d’arte esprime la condizione umana?”, Jeanne Hersch risponde:

In certo qual modo per differenza, in quanto esprime ciò a cui tende la condizione umana: un essere compiuto, in cui verrebbero a coincidenza l’essere e il senso, la pienezza e il desiderio. Si tratta di un’aspirazione impossibile. Gide ha giocato proprio su questo, ma non è vero che basti coltivare il desiderio. Ciò che noi vogliamo è la pienezza.[3]

Poco sopra aveva detto:

Mi sono spesso chiesta quale sia la differenza tra una crosta e un bel quadro. Pensi alle nature morte di Chardin, paragonate a certi quadri che si vedono nelle trattorie di campagna: è molto difficile dire perché i primi siano dei capolavori e i secondi delle croste. A volte la differenza è quasi indefinibile. Essa attiene in generale alla facile rassomiglianza della crosta, mentre nell’opera d’arte autentica è stato superato un rilevante diaframma tra forma e materia, portando a evidenza l’incarnazione.[4]

Sono questi i termini attraverso i quali Hersch si smarca dall’identificazione con la filosofa di professione e si definisce soltanto ‘una presenza al proprio tempo’. Infatti la sua produzione, davvero notevole, riguarda molti campi, ma il senso profondo dell’essere ‘presenza al proprio tempo’ indica una partecipazione ai problemi tesa a catturare la labilità del presente che rapidamente si eclissa; è in fondo la tormentata elaborazione di un modello complesso che consente il passaggio dalla vita alla filosofia.

Nel 1966 venne chiamata a dirigere la Divisione di Filosofia dell’Unesco, appena istituita e subito avviò l’opera monumentale Le Droit d’être un homme, destinata a celebrare il XX anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Al fondo di questo grandioso esperimento storico sta la questione se il concetto stesso di diritti umani sia culturalmente relativo o no. Chiese ai rappresentanti di tutti i paesi di inviarle testi tratti dalla loro tradizione e anteriori al 1948, testi che in qualunque modo mostrassero attinenza coi diritti dell’uomo come tale. Se ogni cultura può recare le tracce del riconoscimento di quanto è dovuto a ogni essere umano in quanto tale, può essere possibile superare il rischio di una visione occidentale che si spalmi su tutto il mondo riproducendo il metodo imperialistico.

Il grande libro non contiene alcuna dottrina, si limita a mostrare ideali nelle loro più nobili espressioni e contemporaneamente avverte che là dove i diritti sono calpestati regnano il silenzio e l’immobilità che non lasciano alcuna traccia nella storia. La storia registra soltanto le parole e i gesti di coloro che sono capaci di impadronirsi della propria vita, o almeno di tentare di farlo. Ma vi sono moltitudini di uomini e donne e bambini che, per terrore, miseria, deprivazione, non riescono a far riconoscere questa dignità. È il peso dei crimini ai quali dobbiamo i nostri privilegi.

Come conciliare il riconoscimento universale dei diritti umani con la loro universale violazione? Jeanne Hersch ci guida a considerare come sia necessario cercare nella libertà umana tanto il fondamento dei diritti umani quanto la causa della loro inefficacia; ogni cultura, nelle sue tradizioni e nella sua religione, porta in sé una valenza anti-ideologica, una libertà ‘morale’ da difendere politicamente, capace di sacrificare la vita per qualcosa di più prezioso: il suo senso, le sue ragioni, il suo dio.


[1] J. Hersch, Tempo e musica, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2009, pp. 61-62.

[2] J. Hersch, Essere e forma, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 33-34.

[3] J. Hersch, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce. Conversazioni con Gabrielle e Alfred Dufour, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006, p. 99.

[4] Ivi, p. 99.

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