Sei arrivato da un paese dell’Africa occidentale passando per la Libia. Sei sbarcato nel 2017 a Lampedusa stremato. Poi ti hanno portato a Mantova in un Cas della Prefettura. I tuoi compagni del “campo” (così molti di voi, ragazzi africani, chiamate in modo significativo i centri di accoglienza straordinaria) ti vedevano piangere isolato dagli altri. Non parlavi volentieri con nessuno, stavi chiuso nel tuo dolore, nella memoria dei traumi che avevi subito nel tuo paese e in Libia, nei maledetti lager che contribuiamo a finanziare con i ‘nostri’ contributi alla Guardia costiera per bloccare gli arrivi. Quanto tempo sei rimasto davvero in quell’inferno? Cosa hai subito a Saba Shirine dove vi compravano, vi costringevano a lavorare come schiavi, vi torturavano e uccidevano chi cercava di scappare?  Ma a chi importa? Tu non hai nessuna voglia di parlarne, ma si sa quasi tutto di quanto accade dove tu sei stato.

Hai voglia di lavorare, ma non di imparare la nostra lingua abbandonando l’ultimo legame con le tue origini. La lingua, la parola. Parli la lingua del tuo paese e un inglese piuttosto fluente, come molti dei giovani che hanno la tua provenienza ma l’italiano dici che ti confonde.  Sei dolce, educato, forte ma più di sette anni di attesa di un permesso di soggiorno ti hanno logorato, col timore di non farcela mai. Una volta hai perso il controllo, sembravi impazzito, hai rotto tutto quello che ti veniva in mano nell’appartamento in cui vivevi con altri cinque ragazzi africani. Pronto soccorso. Farmaci. Interruzione del lavoro agricolo nel quale fino a quel giorno rendevi molto. Hai cominciato a fare il volontario in un mercatino solidale. Tutti hanno apprezzato la tua precisione e la tua onestà.  Ma il passato ti corrode l’anima e il silenzio ostinato comprime dentro di te il ricordo delle umiliazioni e del dolore. Il tribunale e la questura continuano a tacere. Che destino avrai?  In questi anni i tuoi coinquilini hanno ricevuto tutti qualche forma di protezione internazionale. Tu no. Il tuo silenzio equivale al silenzio delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerti? Solo un operatore e un educatore sono riusciti a farti parlare un po’, a farti distrarre un po’ dai tuoi pensieri ossessivi, dai ricordi devastanti, dalla paura del futuro.

Una sera eri da solo a camminare per il centro della città e di nuovo la rabbia ha preso corpo e ancora una volta sei finito al pronto soccorso. Una notte di attesa in mezzo a tanta altra gente dolente. Non lontano da te un uomo, forse mediorientale, sembrava sprofondato nel silenzio e poi nel sonno. L’hai guardato a lungo, hai preso un foglio e una penna e hai fatto il suo ritratto. Era forse il ritratto del tuo dolore e della tua stanchezza? L’ uomo dormiva ripiegato su se stesso. Con imprevista maestria hai dato corpo alla bellezza e al dolore. Chi poteva immaginare che in te ci fosse anche un artista?  Ma già poco tempo dopo hai cominciato a dire che tu non sai disegnare, quasi ti imbarazza ancora oggi vedere quel disegno. 

Francoise Sironi, fondatrice della psicologia geopolitica clinica, afferma che per chi è stato vittima di tortura il ricordo della voce del torturatore affiora spesso:

Sono parole che tormentano e rendono questi pazienti muti, ripiegati su se stessi, bloccati, spesso irritabili e sempre stanchi, incapaci di pensare o anche di ricordare con precisione”.

Il tuo silenzio si interrompe qualche volta, in momenti di piccola convivialità, soprattutto con pochi bianchi adulti, allora lasci affiorare frammenti di ricordi sereni, di momenti vissuti da ragazzo con alcuni amici vicino al mare, nel tuo paese d’origine. Li racconti in un italiano assolutamente comprensibile, la lingua che poi dimentichi di saper usare. La dimentichi soprattutto quando alcuni ‘specialisti’ cercano di incoraggiarti a studiare l’italiano perché solo così potrai affrontare un progetto psicoterapeutico fondato sullo scambio di parole (solo in italiano? Basato solo sulla parola?).

Ma secondo la psichiatria di oggi un rimedio c’è sempre: i farmaci antipsicotici, ad esempio. Il depo ti ha sicuramente calmato, ma ti senti insonnolito, stanco, intontito, privo di desideri. Ti vediamo triste e isolato più che mai. Eri un ottimo calciatore ma dici che sei troppo stanco per giocare a calcio; facevi tenacemente il volontario, ma ora lo fai raramente. Lavori e dormi, parli poco. Preghi ogni mese per evitare la famosa puntura di depo (che chissà perché spesso chiami “puntuale” invece di puntura).

Una volta ho sentito l’etnopsichiatra Roberto Beneduce dire a una conferenza che i farmaci sedano ma non curano. Niente di più vero. Serve in effetti sedarti, tranquillizzarti pieno di angosce e di ansie come sei. Ma sarebbe ben più importante far affiorare all’interno di un patto terapeutico i sentimenti e i ricordi profondi, aiutarti a elaborarli e a condividere quello che tu ti senti di esprimere, nei modi che possono esserti congeniali. Servirebbe aiutarti a essere te stesso, a ritrovarti.

Ma la questione non riguarda solo te, ragazzo immigrato di pelle scura. La questione è antica e radicata nella bella e colta Europa.

Nel 1991 uno psichiatra/psicoanalista che ora non c’ è più -e che ho stimato, amato e sposato- scriveva a un collega:

Il contenimento è un concetto complesso e un’operazione dalle molte facce. Purtroppo in psichiatria il problema delle contenzioni, se si ha onestà intellettuale di fronte alle evidenze e alle durezze di alcune situazioni estreme con cui si ha a che fare, non può essere posto nei termini semplicistici del “legare sì o no”, ma in quelli più sofferti, problematici e incerti: “Contenzione fisica o camicia di forza chimica?”.

La prima è più esplicitamente violenta e più memore della legge del 1904, certo costringe l’Altro che però conserva la capacità di guardarci in faccia, di inveire, di gridare contro l’autorità che in quel momento lo reprime. L’altra, quella chimica, è più asettica, più subdola, più paralizzante e più distruttiva, anche a livello fisico, dell’identità e della soggettività del paziente: rende il nostro potere sui soggetti molto più insidioso perché più occulto e assegna di fatto alla follia quello “statuto di entità naturale” che io, almeno quanto te, rifiuto.

Tutt’altro che rimpianto della contenzione fisica. Solo un richiamo a vigilare sulle nostre coscienze prima di scivolare nelle scorciatoie rassicuranti di un neopositivismo clinico, psichiatrico, farmacologico, comportamentistico.

Riguardo a questo, come ad altri problemi, non ti nascondo che la mia formazione psicoanalitica ha inciso fortemente nella mia pratica psichiatrica: non posso non vedere in ogni persona, soprattutto in coloro che abitano nel manicomio, storie e memorie individuali, bisogni, desideri: la materialità del profondo, insomma, che fa le loro vite irripetibili e diverse, non omologabili a modelli da calare sulle loro teste.

Vigilare sulle nostre coscienze, vedere quanto le vite sono “irripetibili e diverse, non omologabili a modelli da calare sulle loro teste.”

 Sono parole di sconcertante attualità.  Era il 1991. E oggi? La non omologabilità è una questione ancora più grande: nelle scuole, sul lavoro, nella cultura così come nella medicina, soprattutto quella psichiatrica. Chi si interroga veramente su chi è l’Altro da noi e su chi siamo noi, da quale storia veniamo?

Una delle cose che più mi preoccupano è la scarsa conoscenza del mondo da cui arrivano tante persone con background migratorio, della ricchezza culturale di questi mondi e delle ragioni che inducono a lasciare il paese d’origine. Spesso chi dovrebbe curare i traumi legati a queste fughe non sa quasi nulla delle vicende e degli squilibri geopolitici da cui la gente parte, né è davvero consapevole della violenza dei percorsi migratori che i loro pazienti hanno dovuto affrontare.

Mi hanno colpito alcuni dati pubblicati nel saggio di Anna Maria Petta Indagine sui bisogni sanitari e di salute mentale dei rifugiati e richiedenti asilo ospiti dei centri di accoglienza nel territorio di Roma (2019).

Vi si trovano dati statistici interessanti. Ne riporto solo alcuni

Tabella 5.5: Principali paesi di provenienza dei beneficiari che hanno ricevuto una diagnosi psichiatrica

n (%)

Nigeria 24 (18,18)

Gambia 19 (14,39)

Senegal 11 (8,33)

Pakistan 10 (7,58)

Costa D’avorio 9 (6,82)

Egitto 9 (6,82)

Guinea 6 (4,55)

Mali 6 (4,55)

Eritrea 5 (3,79)

Ghana 5 (3,79)

Bangladesh 3 (2,27)

Marocco 3 (2,27)

Somalia 3 (2,27)

Venezuela 3 (2,27)

Afghanistan 2 (1,52)

* Le percentuali sono state calcolate sul numero di utenti che ha ricevuto

una diagnosi psichiatrica nel totale dei centri (N=132).

Provieni da uno dei paesi che hanno il maggior numero di persone con diagnosi psichiatriche, vero?  Quando starai meglio cercherai di aiutarmi a capire come mai tante persone arrivano proprio da lì?

Però una cosa posso dirtela io: nello stesso rapporto la ricercatrice precisa che la stragrande maggioranza di coloro che hanno avuto problemi psichiatrici non aveva un permesso di soggiorno sicuro: 47% diniegati e ricorrenti; 19%richiedenti asilo; 25% con permesso umanitario (oggi sparito e sostituito dalla Protezione speciale che il cosiddetto Decreto Cutro/ Decreto Piantedosi ha praticamente cancellato). Tu sei tra queste persone che a causa di ritardi, errori burocratici, manovre politiche, indifferenza vivono nel limbo dell’attesa.

Rispondi col silenzio, ma a volte la tua testa esplode. Mi dici: “Penso, penso, penso troppo”. Lo capisco. Anch’io penso troppo, mi logora vigilare sulla mia coscienza di cittadina italiana, cerco di non cadere nella cecità e nel conformismo che omologano le persone azzerandone l’identità; voglio vedere, insieme ad altri, agli amici della mia associazione, la tua singolarità, la tua soggettività complessa, la tua persona ricca di cuore, di bellezza e di angoscia e aiutarti a trovare la forza di resistere per avere una vita migliore.

A logorare la mia coscienza c’è anche l’uccisione di pochi giorni fa, a Verona, del giovane maliano Moussa Diarra. Schivo, depresso e introverso come te, con un passato in Libia simile al tuo e anche lui con un permesso di soggiorno precario.  In un raptus ha mostrato un coltello a un agente della polizia ferroviaria che ha risposto con tre colpi di pistola che hanno stroncato la sua vita. Una manifestazione a Verona sul luogo della sua morte. Le parole di un ministro che ha dichiarato che gli italiani non lo rimpiangeranno. Poi il silenzio.  

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