Margherita Porete.
Colta. Non solo per la consuetudine con la cultura cortese, ma per la conoscenza diretta delle Sacre Scritture e di grandi dottori del pensiero religioso, ortodossi e non, competenza assai rara per le donne del XIII secolo, anche di rango elevato (ipotesi che potrebbe esserle pertinente), di cui puntualmente riferiscono i commentatori, in primis la ricercatrice storica Romana Guarnieri che nel 1946 l’ha identificata quale autrice di Lo specchio delle anime semplici.
Con probabili trascorsi di beghina, quantomeno di stretti rapporti col beghinaggio; anche se al tempo del processo, iniziato nel 1308, che la portò al rogo a Parigi, in plâce de Grève, nel 1310, quasi di sicuro non vi fosse più coinvolta attivamente, ma fosse invece legata ad un proprio (piccolo?) seguito di uomini e donne a cui predicava e insegnava il percorso del Mirouer des simples ames. Una testimonianza della pubblica esecuzione parla di una ‘folla commossa’.
Di un’originalità singolare, soprattutto se confrontata con l’esperienza di altre mistiche del Medioevo; e di una profondità che non solo la avvicina alla sensibilità di importanti dottrine del suo tempo, ma anche la ipotizza ispiratrice di alcuni tratti mistici di Meister Eckhart.
Di una fermezza senza scalfitture che le fa rifiutare ogni minima o massima abiura della sua esperienza spirituale, anche a costo di affrontare, viva, il rogo in quanto eretica relapsa.
Non troppo vecchia né troppo giovane, sennò “i cronisti l’avrebbero precisata”, l’età – dice Guarnieri –, quindi probabilmente nata intorno al 1260. Probabilmente di Valenciennes, capitale della marca di Hainaut, nel Nordest della Francia. Probabilmente scritto prima del 1290 in volgare piccardo, il Mirouer, se la prima condanna del testo – un testo, quindi, che doveva essere abbastanza diffuso e conosciuto per attirare l’attenzione dell’Inquisizione – rientra certamente nell’arco d’anni 1296 -1306.
Anche se privo della corretta attribuzione, il testo condannato come “pestiferum, continentem heresim et errores” ebbe ampia diffusione, tradotto in latino, in antico francese, tedesco, inglese, e testimoniato nelle tracce di importanti movimenti spirituali.
Francesco Roat, Senza più io né mio. La mistica di Margherita Porete, Le Lettere, Firenze, 2024.
È una bella presentazione e disamina del testo di Porete. Illustri studiosi, prima di Roat, hanno già commentato il Mirouer: ad esempio, con lucida ed abile sintesi, Guarnieri, affiancata dalla meticolosa esegesi di Marco Vannini; credo che sia importante, per un testo come il Mirouer, una larga coralità di analisi. Anzi, necessaria, anche perché, con tutto l’entusiasmo di un lettore del terzo millennio, a meno che non sia un esperto di linguistica e semantica medievale, il Mirouer è difficile da comprendere nella sua piena complessità. Nel lavoro critico di Roat ho trovato appunto alcuni caratteri che mi hanno non solo illuminato laddove le mie dis-conoscenze mi annegavano in vortici bui, ma anche aperto a riflessioni ed emozioni che facevano/fanno incontrare il suo tempo –di Porete – e il mio, il suo straordinario porsi in relazione con Dio e il mio problematico perderlo. Ho apprezzato certamente, di Roat, come in altri suoi saggi, la puntualità con cui entra nelle parole del tempo per ricondurle a quella cultura, quell’uso, quella concezione del mondo, ma anche per sviscerarne le origini aurorali, la radice prima, il preciso particolare delimitato ambito esperienziale d’inizio, che affonda in un via via più denso spessore, fino a spalancare aperture di senso anche ulteriori, eccedenti l’uso comune. La differenza, per me, rispetto a una consueta precisazione etimologica, come potrebbe sembrare, è che Roat me la propone laddove un’usura della consuetudine o un’indifferenza abitudinaria o una vera e propria ignoranza lasciata a galleggiare nell’apparente controllo semantico, mi (ci?) ha fatto perdere, di qualcosa che è/dovrebbe essere essenziale, una direzione di senso che quel qualcosa vivifica, salvifica, mi (ci?) salvifica. Cioè, non è indifferente il quando Roat mi (ci?) offre la pancia di un concetto. Ad esempio. Il tema delle ‘virtù’ è molto importante nel Mirouer, e giustamente Roat precisa il senso stretto che aveva per Porete, rispetto al senso largo che ha per noi. Ma poi ci ricorda che ‘virtù’ ha una matrice nel latino vis-vires, ‘forza’, ‘vigore’, che confina/s-confina con ‘violenza’, ‘prepotenza’, con quell’hybris tracotante degli eroi greci, tanto colpita dal fato e dagli dei, quanto ammirata, amata, esaltata sui palcoscenici del nostro moderno sentire. Ho capito di colpo tante cose, di Porete e mie. Inoltre Roat compie frequentemente connessioni tra certi punti del Mirouer e grandi Maestri/e del pensiero sia moderni/e che contemporanei/e, quanto antichi/e e culturalmente lontani/e da noi, attraverso brevi citazioni. Non lo fa, penso, per una sorta di sincretismo culturale. Le citazioni, infatti, possono avere nel sistema di pensiero originario più che sfumature diverse da quelle emergenti nella connessione con Porete, in quanto proposte non per suggerire corrispondenze, derivazioni, adiacenze teoriche precise tra due sistemi di pensiero, quanto per mettere a disposizione del lettore uno di quei grimaldelli luminosi che dalle opere dei Grandi si sono forgiate per togliere ombra e dare un particolare colore a un elemento un po’ nebbioso, non facilmente definibile, e questo indipendentemente dalle sinapsi che li connettono rigorosamente all’originaria costruzione sapienziale. Qualcosa di analogo al modo con cui Eliot in La terra desolata qualifica la “gran folla che fluiva sopra il London Bridge”: “so many/ I had not thought death had undone so many. (“così tanta,/ Ch’i’ non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta.” Inferno, III, vv.55-57)”: la desolazione infernale degli ignavi si posa sull’anonima folla moderna, senza che venga coinvolto tutto il sistema teorico-strutturale del canto e della concezione dantesca. Le citazioni, comunque vengano considerate, per me hanno avuto anche la funzione di far superare al Mirouer una stretta adesione al suo tempo storico per meglio connetterlo al tempo attuale, a mie/nostre questioni/domande.
Alcune riflessioni
Per una sintesi del Mirouer, propongo la concisione di Guarnieri:
“l’‘io’ dell’Autrice sembra sparire dietro le personificazioni dell’Anima (…) che insieme ad ‘Amore’ è tra i principali interlocutori dell’opera condotta a mo’ di dialogo a più voci. Senonché, a guardare più addentro scopriamo nel didattico Mirouer una vera e propria autobiografia mistica. (…) L’illuminazione da lei sperimentata si verifica di regola allorché l’Anima, meditando sulla propria totale “mauvaistié”, ossia corruttela, (…) rimette il suo libero volere nel volere di Dio: da quel momento perde la propria identità, ormai non c’è più differenza tra lei e la Divinità: non può che volere la volontà divina, non può amare che Dio in Dio, e con Dio, quel che Dio ama. Cessa pertanto ogni necessità di mediazione ecclesiale e non hanno più ragion d’essere le opere, i sacramenti e quanti li amministrano, addirittura l’amore verso Dio, essendo lei stessa divenuta, per grazia, tutta amore e in questo identica con Dio (…), tant’è vero che l’Anima non ama più sé in sé, né sé in Dio, né Dio in sé, ma Dio in Dio. E questo è il ‘puro amore’.” (Margherita Porete e il suo Miroir des simples ames, in Romana Guarnieri, Donne e Chiesa tra mistica e istituzioni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2004, p.251 e p.266)
Personalmente, seguendo l’itinerario critico di Roat, mi fermerò solo su alcuni punti che mi hanno colpito più degli altri; non quindi sulla base di un giudizio di rilevanza, ma di un mio particolare sentire.
Mi piace molto che Roat sottolinei come la necessità dell’umiltà, a cui Margherita Porete (nel testo introduttivo in versi presente solo nella versione in antico francese) avverte i lettori di attenersi, sia l’indicazione “imprescindibile” per chi intenda seguire il suo percorso spirituale; non tanto e non solo per quell’originarsi dell’umiltà dall’humus-terra e/o per quella fatidica damnatio materica (pulvis eris et in pulverem reverteris), quanto per chiarire da subito quanto è primariamente necessario all’inoltrarsi nel Mirouer: abbandonare la pretesa di già sapere una qualche verità assoluta. Così per chi scrive, così per chi legge il Mirouer. E per Margherita questa umiltà non è certo un retorico exergo, data l’impresa a cui si appresta: indicare un percorso che, nonostante i numerosi “nient”, è corredato di rigorose tappe di riflessioni, di negazioni e affermazioni incontrovertibili, di contraddizioni che non lo sono. Margherita si affida ad un dire che non è mai separato da un sentire in Amore, un dire che è a partire da e dentro- insieme a un fare esperienza di Dio. Amore è Dio, infatti, ma solo se e finché avrà bisogno di definirlo con un nome. Amore-Dio che è man mano incontrato, percepito, perso e ritrovato in sé, fino a sentirne scomparire l’alterità in una fusione identitaria che giunge ad essere assolutamente ulteriore. In chi legge resta l’intuizione di quella forza, quell’energia, che tutto dantescamente “move”, comprende, è: un tutto che è nulla, se la nientificazione significa l’accoglienza/compresenza che nulla lascia fuori di sé. Un dire, quindi, quello del Mirouer, per Fede: una Fede, però, che non è ‘credenza’, ma affidamento. A Dio, alla vita.
Riconoscendosi di terra, dalla terra, il lettore arriva a superare quell’orgoglio tipicamente umano-sapiens di possedere o potere arrivare a possedere un sapere definitivo, basato sulla Ragione, come quello che oggi, pur avendone messo in luce l’oggettiva relatività,ancora veneriamo col nome di ‘scienza’. O un sapere rivelato,basato su dogmi aprioristici che con la pretesa di decifrare univocamente l’ulteriorità, tracciano confini di separazione e sbarre di potere.
Margherita si identifica quasi sempre con Anima, il cui primo requisito è di essere libera. Prima di tutto dal proprio egocentrismo egoistico, che non si manifesta solo nella cattiva influenza di desideri senza fine, impulsi istintuali, e pretese e arroganze e violenze e sopraffazioni a danno altrui e proprio, ma – quasi kantianamente– anche nel fare il bene (quel ‘mercanteggiare’ con le ‘opere’ contro cui anche Meister Eckhart si scagliava), perché comunque l’io, quell’io comunemente manifesto nel mondo, vi immette una pretesa/aspettativa di proprio vantaggio, fosse anche solo il desiderio di meritare il Paradiso, di seguire i dettami religiosi. Sia per le Virtù che per le Opere vige, infatti, una direttiva esterna (si tratti di Chiesa o Legge o Regola) che promette salvezza se la propria particolare interpretazione del ben-fare, ben-essere è accettata ciecamente. Invece, per Margherita, tale guida non è necessaria all’Anima ‘annichilata’ nella grazia di Dio, quando è divenuta capace di una Carità/ liberalità che è libertà dall’“io” e dal “mio” – come annuncia il titolo del saggio roatiano –, cioè assenza di bisogno, di aspettative/ricompense, e più in generale superamento di honte (disonore), di paour (paura), di mesaise (indigenza). Per qualche tratto questa Carità non è lontana da quell’economia del dono di cui ogni tanto si parla (si fa utopia) nel nostro attuale convivere. L’Anima che vive nella “paix de charité en vie anientie” (“pace di carità nella vita annichilata”) non soltanto non dipende da guide, ma nemmeno da alcun dover-fare-opere per salvarsi, in quanto totalmente affidatasi a Dio e da Dio guidata nel volere; solo lei in se stessa: seulement,cioè senza bisogni obblighi desideri connessioni a lei esteriori, cioè senza che possa fare o tralasciare di fare qualcosa di essenziale in nome di direttive che danno Dio come motivazione, senza che le manchi di sapere qualcosa o le possa venir meno qualcosa, senza che debba usare la sua volontà, perché ha tutto in Dio, è tutt’uno con Dio. Come dice Roat, la volontà è per quest’Anima annichilata “senza intenzionalità, di generosa e gioiosa disponibilità nei confronti di tutto quanto esiste, a cui si vuole esser prossimi” (Senza più io né mio, cit. p.38). Quindi anche alla Natura, alle cui necessità l’Anima annichilata non si esime di rispondere – fraintese, queste necessità, non a caso, dagli inquisitori, così lontani e ‘ignoranti’ di humus e Nature. La volontà al bene non è voluta, meditata, decisa/scelta: per la Carità/liberalità che le viene da Dio, è spontanea, istintuale, con–naturata, compiuta. Perché mai dovrebbe quest’Anima tenere per sé quanto è necessario al suo prossimo, e che, perciò, è suo (del prossimo)? Anzi, è senza “scrupoli” che questa Anima prende quanto le abbisogna se la necessità lo chiede. Chi lo vuole? La “perfection de paix de charité dont elle vit du tout”, Amore, Dio. (cap.17). Quindi non solo la condizione di annichilimento di quest’Anima non è quella d’indifferenza all’altro, al suo stare bene o male, non è d’isolamento in una sorta di spirituale torre d’avorio, ma è libertà senza vincoli, naturale, al ben-fare. Il mio è strabismo, se ci vedo/sento un che di rousseauiano, di marxiano perfino, di eversivo? Non a caso questo punto è una delle 15 proposizioni, stralciate dal con-testo del Mirouer, per cui i giudici la dannarono al rogo.
Quest’Anima è spesso connotata dalla solitudine: è “seulement” (sola, in condizione di solitudine) nell’amore, è “seule en luy” (sola in sé stessa), “seule en Dieu”. Non ha nulla a che fare, ci avverte Roat, con qualche forma di “emarginazione” o di “assenza di contatti umani”, quanto piuttosto con la condizione del simplex. Non dimentichiamo che il Mirouer, lo Speculum è per le anime dei semplici. La prima radice di simplex, mi dice il Calonghi Georges, sem, viene dall’indoeuropeo, e denota l’uno (cfr. il latino semel, una sola volta); è poi unita alla radice di plecto, intrecciare, intessere. Il senso originario è quindi di: consistente di una sola parte, di un solo elemento, non mescolato, puro, unico, uno, non complesso. Mi sono chiesta se questo essere sola e semplice dell’Anima del Mirouer non si avvicini a quella qualità della coscienza intima di sé che ci fa sentire tanto incomunicanti quanto irripetibili, tanto isolati quanto unici/preziosi tra gli esseri del mondo, tanto parte limitata quanto parte partecipante e partecipata dell’Essere Tutto. Margherita, infatti, da una parte ci dice che quest’Anima non solo riceve, accoglie Dio, ma diventa essa stessa Dio: Roat ci offre una citazione da Angelo Tonelli, secondo me illuminante: è un traboccare
“in un Oltre che è interiorità profonda del singolo che si rovescia in profonda cosmicità del medesimo: coscienza oceanica, luogo in cui il singolo coincide con l’Uno, o meglio in cui l’Assoluto che è nel singolo è ipso facto l’Assoluto che è nell’Uno e di cui l’Uno è nome, perché dell’Assoluto non si può predicare nulla.” (Senza più io né mio, cit. p.58)
Ma Margherita dice anche:
“Ed è [l’Anima n.d.r.] così ebbra per la conoscenza dell’Amore e della grazia della pura Divinità, che è sempre ebbra di conoscenza e ripiena della lode dell’amore divino. E non tanto ebbra solamente di quello che ha bevuto, ma molto ebbra e più che ebbra di quello che mai ha bevuto né berrà. [mia la sottolineatura]” (cap. 23)
Con un’inquietante apparenza ossimorica, in quest’Anima – “ebbra”, “piena” – si apre un vuoto una mancanza un’assenza, un’impossibilità conoscitiva, un abisso insondabile che con Dio fa sprofondare nell’inconoscibile anche se stessa che quel vuoto abissale contiene. Ma al contempo la tensione, la passione che a quella mancanza si protende, che quell’insondabile assenza avverte sente conosce, è come se ne costituisse il riempimento, di quel vuoto, così che non è più necessario che sia riempito (adesso), essendo già colmato dal solo saperlo. E amarlo.
“Preferisco troppo di più, centomila volte contro una, gli abbondanti beni che hanno dimora in lui, piuttosto che i doni che ho e avrò in possesso da lui. E dato che preferisco quanto in lui è al di fuori del mio intelletto, anziché quanto è in lui e nel mio intelletto, per questa ragione è più mio quanto egli conosce e io non conosco affatto, che non quanto ne conosco ed è mio; poiché là dove c’è il più del mio amore, là c’è il più del mio tesoro. E poiché preferisco il più di lui, che mai conoscerò, anziché il mio, che conoscerò, questo è più mio, per il più del mio amore, secondo la testimonianza di Amore stesso. È questo il compimento, dice l’Anima, dell’amore del mio spirito.” (cap.32)
In questa “pienezza del vuoto”, come Roat la definisce, l’Anima si è fatta consapevole che “ogni stato [condizione n.d.r.], qualunque sia, non è che un giocare a palla e un gioco da bambini in confronto alla stato sovrano del niente volere” (cap. 57), che è la condizione raggiunta della “libertà assoluta”, il superamento della “frammentazione” monadica, la “ricongiunzione col Tutto”, con Dio. E proprio qui Margherita attribuisce a Dio un ulteriore nome: “Loingprés”, Lontanovicino. Perché Lui si fa cogliere in un rapimento estatico, che può durare solo un lampo, di “pace più pace d’ogni pace” (cap.58). Molto significativa la citazione di B. McGinn che qui Roat ci propone:
“la percezione della centralità della fusione degli opposti nell’anima che giunge alla coscienza immediata di Dio rappresenta l’origine del nuovo nome da lei assegnato a Dio, il Loingprés. (…) combinazione di due aggettivi senza sostantivo, indicando così che Dio non è una cosa, bensì deve essere inteso come una “relazione” o una “presenza” dialettica, infinitamente distante e sconosciuta e proprio per questo più presente “qui” nella sua assenza.” (Senza più io né mio, cit. p.74)
Roat ci ricorda un’affermazione lapidaria di Meister Eckhart nel Libro della consolazione divina: “si possiede Dio più nella privazione che nel possesso”. Se non solo, ma anche per questo, di Dio, niente si può dire, anche da parte dell’Anima Eletta. Tutto quanto gli umani ne vanno dicendo, affermando o per via negationis, è relativo agli umani, non a Lui. Di Lui, se ne può solo tacere.
Propongo, a tal proposito, le parole di Clarice Lispector, al termine del suo percorso-passione, perché le sento profondamente intrecciate alle parole del Mirouer:
“Infine, infine si era davvero spezzato il mio involucro e io ero senza limite. Non essendo, io ero. Sino alla fine di ciò che non ero, io ero. Ciò che non sono io, io sono. Tutto sarà in me, se io non sarò; poiché “io” è appena uno degli spasmi istantanei del mondo. (…) E consegnandomi con la fiducia di appartenere all’ignoto. Siccome posso pregare soltanto ciò che non conosco. (…) Il mondo non dipendeva da me – questa era la fiducia cui ero arrivata: il mondo indipendeva da me, e non capisco ciò che vado dicendo, mai! mai più comprenderò ciò che dirò. Perché, come potrei parlare senza che la parola menta per me? come potrò dire se non timidamente: la vita mi è. La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro……………………………………………………………………………………” (La passione secondo G.H., Feltrinelli, 1991, pp.163-4)
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