Nata a Parigi sul nascere del XX secolo da genitori agnostici, Simone Weil (1909-1943), sia pur riconoscendosi fondamentalmente cristiana, non aderirà mai al cattolicesimo preferendo rimanere: “sulla soglia della Chiesa”, come ebbe a scrivere nel 1942 in una lettera all’amico padre Perrin. Ma nella sua sete d’assoluto, refrattaria a ogni dogma, la scrittrice francese fu al contempo attratta dalla spiritualità orientale, specie quella indiana, a cui rivolse la propria attenzione negli ultimi anni della sua breve vita, interessandosi sia all’induismo sia al buddhismo. Schematizzando potremmo dire quindi che, secondo l’ottica weiliana, alla base d’ogni tradizione e/o credo religiosi vi siano elementi comuni, la cui autenticità è espressa dalla mistica, la quale consiste nel fare esperienza dell’unità, nello spirito, tra la dimensione umana e quella divina.
Molto si è detto e scritto intorno a quest’eccentrica figura d’intellettuale: tanto poliedrica quanto refrattaria a ogni collocazione ideologica, politica o religiosa. Di lei non pochi critici hanno sottolineato la contraddittorietà delle sue scelte: come quella d’esser passata dall’estremismo della militanza anarchica a una conciliante posizione riformista, oppure quella d’un radicalismo pacifista che non le impedì di schierarsi a fianco del Fronte Popolare durante la guerra civile spagnola o ‒ come s’è accennato ‒ quella di dichiararsi senz’altro cristiana pur non aderendo/conformandosi minimamente al cattolicesimo, cui pure si sentiva vicina. Certo, il suo cammino esistenziale non fu mai lineare. Dalla cattedra liceale di filosofia la vediamo passare a una penosa esperienza di lavoro in fabbrica; dagli scritti e dalle prese di posizione polemiche in ambito sociale eccola poi approdare a uno sbocco mistico e quietistico. Fu quindi singolarmente anticonformista Simone Weil. Sia come intellettuale che come donna estremamente religiosa.
Una considerazione sulla “sventura” (malheur) mi sembra tuttavia possa rappresentare la cifra cruciale del pensiero di Simone. Sventura come emblema del limite, della vulnerabilità e della finitudine propri di ogni umano. Secondo Weil però l’accettazione di qualunque dolore, sconfitta e/o perdita ‒ nella nostra vita che comporta sempre, presto o tardi, il venir meno ‒ rappresenta la chiave utile a spalancare la porta su una dimensione altra: quella spirituale; l’unica in grado di consentirci di non disperare dinnanzi al malheur ma di assumerlo come necessità ineludibile e di trasformare tale consenso in una sorta di sublime/gioiosa libertà. Non a caso l’attenzione della Weil in quanto sedicente cristiana si sofferma più sulla passione che sulla resurrezione di Gesù, giacché la croce simboleggia per lei l’accettare/il patire totalmente l’esistenza prima ancora che la speranza in una vita oltremondana. Croce da cui fu gridata/denunciata dal Figlio l’assenza del Padre (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”). Assenza che in un certo qual senso ha inizio nel momento stesso della creazione, allorché Dio abbandona mondo e creature alla dura legge della necessità.
Ma è bene, secondo la Weil, accogliere un tale abbandono, farlo nostro attraverso un’autentica sequela Christi, rinunciando all’io, all’egoismo e a qualsivoglia pretesa volontaristica/velleitaristica. Una rinuncia egoica totale che ricorda molto la gelassenheit: l’abbandono a Dio di Eckhart. Ma ricorda anche lo stoicismo, il buddhismo e in generale il misticismo d’ogni epoca e latitudine, che fa della meditazione intorno alla morte il primo compito da affrontare per chi voglia aprirsi al divino. In quanto, paradossalmente, solo attraverso la morte ‒ secondo la Weil ‒ l’uomo potrà accedere all’immortalità. Il riscatto dalla sventura quindi passa per l’annichilimento dell’io e della tendenza accentratrice/predatrice. Perdita che sola ci consente di aprirci a un’ottica trasfigurata affinché possiamo cogliere la nuda bellezza del mondo universo.
E quantunque normalmente ognuno sia portato a colonizzare/dominare l’altro da sé cercando di allargare sempre più la propria influenza sulle cose e sugli esseri, resta che questa brama si rivela puntualmente illusoria, se non altro perché al tempo (e all’exitus) non si può sfuggire. Stante tutto ciò, appare davvero suasivo l’invito weiliano a smettere di proiettarci nel futuro e di rimpiangere (o biasimare) il passato, badando a rimanere nella dimensione dell’hic et nunc, qualunque cosa accada, imparando a vivere senza angoscia l’ineluttabile. È questa la contemplazione del mondo auspicata dalla mistica Simone, che si/ci chiede: “Quale dono più grande della morte poteva esser fatto alle creature?” ‒ E risponde umilmente ‒: “Soltanto la morte ci insegna che non esistiamo, se non come una cosa tra molte altre”.[1]
Alludevo sopra al credo cristiano di questa pensatrice, il quale è comunque assai peculiare e sempre molto poco ortodosso. Non fosse altro per il fatto che Weil ritiene di cogliere nel cristianesimo dell’origine lo spirito espresso nei sommi vertici della speculazione e dell’arte dell’antica Ellade, nonché per la scelta, fatta da Simone, di leggere il Nuovo Testamento alla luce del pensiero dei Presocratici, dell’orfismo, dei Pitagorici e infine della mistica platonica piuttosto che della Bibbia ebraica, ritenendo ella il Vangelo − paradossalmente ma non troppo –: “l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco”.[2]
Ed è giusto Platone, a suo avviso, a scoprire “l’unica prova legittima” dell’esistenza di Dio: una prova basata sull’osservazione della bellezza del mondo, la quale è in grado di ispirare un amore che non può avere la mera materia come oggetto, ma quel bello-bene assoluto (kalokagathia), espressione del divino. Così: “L’anima in cerca del piacere – nota poeticamente la Weil – incontra la bellezza divina, che quaggiù appare, sotto forma di bellezza del mondo, come una trappola a lei tesa”.
Ne consegue fatalmente che: “Col favore di questa trappola Dio s’impossessa dell’anima, lei malgrado”. E se nei dialoghi platonici Simposio e Filebo si allude a ciò, è nel Timeo che il filosofo ateniese annuncia a chiare lettere come la sostanza basilare del mondo universo sia costituita dall’amore. Altra idea di fondo del Timeo, per Weil, è che la realtà mondana rappresenta lo specchio di quell’Amore con l’iniziale maiuscola, chiamato da noi Dio, di cui l’uomo risulta l’immagine.
Prendere a modello quell’Amore ‒ sempre secondo Simone ‒ comporta però un’accoglienza/accettazione di tutte le ferite prodotte in noi dagli eventi. Si tratta perciò di disporsi a un sì incondizionato nei confronti di qualsivoglia perdita, dolore o offesa. Un sì che rappresenta l’amor fati, l’accondiscendere al destino e alla cruda necessità alla quale siamo sottoposti in quanto creature limitate e precarie. È, questa dimensione religiosa mistica, l’approdo cui ben presto giunge la navigazione weiliana tra le isole della creatività letteraria e filosofica greca. Un misticismo che comporta – nella prospettiva d’aprirsi all’amore – il venir meno dell’egoità, dunque la: “rinuncia al potere di pensare tutto in prima persona”, che altro non è poi che l’abbandono di ogni cosa per seguire Cristo: il verbo incarnato o il logos, per dirla col quarto evangelista. E, scrive ancora Simone: “logos è il nome anche del nostro amore più ardente. L’amore che san Giovanni portava a colui che era suo amico e signore, quand’era reclinato sul suo petto durante la Cena”.
Rinuncia, accettazione e obbedienza a Dio, chiede quindi la Weil agli uomini suoi contemporanei nella distretta tragica del secondo conflitto mondiale. Potrà a molti sembrare assurdità, oppure pietistica ingenuità; non lo è affatto qualora si ritenga − come lei e i mistici di ogni tempo e luogo, greci inclusi – che: “consenso è l’amore soprannaturale, è lo Spirito di Dio in noi”.
Pare a me semmai provocazione: scandalo nell’accezione più autentica del termine il ritenere ogni sofferenza/avversità quasi dei doni da accogliere di buon grado. Ma se ben meditate, le parole di questa grande mistica, al contempo poeticissime e spiritualmente pregnanti, possono farci comprendere come: “Ogni specie di sventura ben sopportata fa passare dall’altra parte di una porta, fa vedere un’armonia sotto il suo vero volto e lacera uno dei veli che ci separano dalla bellezza del mondo e da quella di Dio”.
È significativo come per Weil il dramma della croce cristica, mutatis mutandis, vada rivissuto da ogni individuo che intenda accettare la realtà esistenziale, intessuta di finitudine e di precarietà. Scrive a tale proposito Armida Pezzini:
L’evento della Croce, tuttavia, restituisce all’uomo il vero significato racchiuso nell’accettazione del dolore stesso, e cioè il libero consenso alla donazione di sé. “Obbedire” al proprio carico di sventura, al peso della necessità, nel pensiero weiliano diventa quindi la convinzione per rendere possibile il processo di spoliazione del proprio sé, di annullamento di quella separazione tra l’uomo e Dio determinata fin dall’atto creatore.[3]
In tal modo la sventura si fa occasione redentrice, tramite un processo chiamato da Simone discreazione o decrazione (décréation), con cui l’uomo imita Dio ‒ che ha rinunziato ad esser tutto mediante l’opera della creazione ‒ rinunciando a essere qualcosa, in un annullamento del proprio io che non è atto negativo o spiritualmente suicidario, bensì la massima espressione possibile d’elevazione. La: “Discreazione” ‒ dunque, precisa Weil, consiste nel ‒ “far passare qualcosa di creato nell’increato” [4]; essa però non equivale alla mera “distruzione” (destruction), che è invece: “far passare qualcosa di creato nel nulla. Ersatz [surrogato] colpevole della discreazione”; da cui la preghiera: “Dio mio, concedetemi di diventare nulla”.
Detto con parole semplici ma pregnanti, insomma: “Bisogna sradicarsi. Tagliare l’albero e farne una croce; e poi portarla tutti i giorni”.
Par di leggere Eckhart, allorquando poi la nostra mistica francese afferma: “Così, solo il distacco perfetto permette di veder le cose nude, fuor della nebbia di valori bugiardi. Per questo ci son volute le ulcere e il letame perché a Giobbe fosse rivelata la bellezza del mondo. Perché non c’è distacco senza dolore. E non c’è dolore sopportato senza odio e senza menzogna senza che vi sia anche distacco”; ‒ e inoltre ‒ “Accettare quel che è amaro; non bisogna che l’accettazione si rifletta sulla amarezza e la diminuisca, altrimenti l’accettazione diminuisce proporzionatamente di forza e di purezza”.
Infine par di trovarci di fronte ad uno dei detti dei padri del deserto quando Weil ci ricorda come: “Bisogna essere in un deserto. Perché colui che dobbiamo amare è assente”.
Da sempre d’altronde, per i mistici, è necessario abitare il vuoto: abolire pensieri, parole, desideri, volontà. Solo allora ‒ dice bene Silesius: “Il nulla è il miglior conforto: se Dio spegne il suo lucore / Dovrà essere il puro nulla il tuo conforto nello sconforto”.[5]
Per concludere ‒ permettendomi un’autocitazione ‒ ecco in breve una possibile ricetta della mistica:
Nessun sostegno da cercare, nessun aiuto da invocare: tutto in una tale prospettiva sembra risultar vano, futile, inutile, ma l’invito, per quanto sembri assurdo, è proprio quello di rimanere nell’assenza di prospettiva, nella privazione d’ogni luce, nel vuoto d’ogni significato. Se saremo capaci di tanto, in grado cioè di sopportare/ospitare il nulla, sarà esso ad assurgere a nostro conforto, l’unico conforto, in modo da vedere il vuoto farsi pienezza, il niente quale altra faccia del tutto e l’assenza di Dio divenire paradossalmente sua unica possibilità di presenza.[6]
[1] S. Weil, Quaderni. Volume Quarto, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 335.
[2] Questa e le citazioni seguenti, sino a nuova e diversa indicazione, sono tratte dal volume antologico: S. Weil, La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014.
[3] A. Pezzini, Pensare la soglia. La riflessione di Simone Weil tra filosofia e mistica, Cantagalli, Siena 2007, p. 56.
[4] Questa e le citazioni seguenti, sino a nuova e diversa indicazione, sono tratte dal volume antologico: S. Weil, L’ombra e la grazia, trad. di F. Fortini, Bompiani, Milano 2014.
[5] A. Silesius, Cherubinischer Wandersmann (Il pellegrino cherubico), Libro II, 6. (Trad. mia).
[6] F. Roat, Beatitudine. Angelus Silesius e Il pellegrino cherubico, Àncora, Milano 2019, pp.78-79.
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