Joyce Lussu, UNA PROTAGONISTA DEL NOVECENTO
Gilda Traini
Joyce Lussu ha attraversato il secolo appena trascorso, nella sua quasi piena interezza (1912-1998), da protagonista appassionata e in un certo senso inarrestabile, vivendone i momenti più significativi con la partecipazione e la coerenza che hanno caratterizzato la sua lunga esistenza.
Si è soliti semplificare i percorsi della sua vita per brevi definizioni: antifascista militante all’estero e in Italia nella lotta partigiana (medaglia d’argento al valor militare, Gazzetta Ufficiale n. 156, 24 giugno 1957); polemista, storica, autrice di saggi e romanzi di più genere, traduttrice originalissima, poetessa…
Questa sera però vorrei analizzare con voi come la sua visione del mondo – la sua Weltanschaung -, a livello culturale ed intellettuale, abbia compiuto un percorso evolutivo parallelo al variegato succedersi delle tante esperienze che hanno accompagnato il suo cammino.
Cresce in una famiglia speciale. Filosofo positivista il padre, il primo traduttore in Italia di Herbert Spencer, amico e corrispondente di Benedetto Croce, colto ed antifascista (motivo questo del suo essersi allontanato da Porto San Giorgio), di spirito progressista lasciò prestissimo la sua famiglia nobile e di antiche origini ma profondamente conservatrice; la madre, figlia di un ex ufficiale garibaldino e di una nobildonna della colta aristocrazia inglese che a Londra aveva frequentato il circolo di Bloomsbury e forse conosciuto Virginia Woolf, in un viaggio con il padre in Italia si innamorò molto “romanticamente” dell’ex ufficiale garibaldino, che la portò a vivere a Torre San Patrizio nella ex pievania di San Venanzo.
Guglielmo “Willy” Salvadori e Giacinta “Cynthia” Galletti erano una coppia assolutamente non conformista, molto colta ed attenta agli avvenimenti d’Europa, lontana dall’angusto mondo provinciale delle Marche e del Fermano in particolare.
Vissero prima a Firenze (dove Joyce nacque nel 1912) e successivamente per vari anni in Svizzera, un esilio forzosamente scelto dopo una gravissima aggressione di un commando fascista, che Willy subì per alcuni articoli scritti sul giornale inglese “Manchester Guardian”, in cui esponeva le sue critiche al governo fascista. “Violenza autorizzata” la definì Gaetano Salvemini.
Joyce frequentò le prime classi elementari a Firenze, ma nel 1923 i genitori la ritirarono dalla scuola pubblica, non appena introdotta la Riforma Gentile (1923), perché non ne condividevano l’impostazione che ne regolava i programmi.
Continuerà i suoi studi a casa con i suoi genitori, affrontati in modo libero e poco formale, pur se improntato all’apprendimento della cultura classica.
La vita in Svizzera fu austera e poverissima. Joyce tornava spesso in estate a Porto San Giorgio “almeno per mangiare bene”, dirà con sottile ironia nei suoi racconti.
Ufficializzò formalmente questi studi nell’anno scolastico 1930, quando conseguì nel Regio Liceo Classico “Giacomo Leopardi” di Macerata, da privatista, la licenza liceale, prima sessione.
Un anno prima, a 17 anni, Joyce era andata a Napoli, sola, a Palazzo Filomarino per incontrare Benedetto Croce, come già detto buon amico di suo padre. Voleva leggesse alcuni suoi manoscritti (una serie di drammi, racconti, poesie).
Inizia così un’amicizia importante che si protrarrà nel tempo e che si concretizzerà con la pubblicazione nel 1939 (durante l’esilio a Ginevra) del primo libro di Joyce “Liriche”, Edizioni Ricciardi Napoli, patrocinato da Croce stesso.
Intanto Joyce ed i fratelli Max e Gladys dovevano lavorare per vivere ed ognuno di loro seguì la sua strada con vari percorsi.
Subito dopo la licenza liceale Joyce andrà in Africa, e in Libia, a Bengasi, come istitutrice e cameriera presso una famiglia italiana. Sempre nello stesso anno si sposterà ad Heidelberg, dove si iscrive al corso di laurea in filosofia.
Si mantiene insegnando lingue in un collegio di “signorine di buona famiglia”, e tornerà in Italia nel 1932. Nello stesso anno si recherà a Ponza per salutare il fratello confinato nell’isola, che le consegnerà un messaggio da dare al leggendario Emilio Lussu, esule e super ricercato dall’Ovra, che Joyce riuscirà ad incontrare a Ginevra solo l’anno successivo.
“Mister Mill”, nome in codice adottato da Lussu, era nel mirino della polizia fascista a seguito della fuga rocambolesca da Lipari con Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti.
Joyce parla di questo incontro come di un colpo di fulmine, anche se non ebbe, al momento, seguito, perché Lussu era convinto che un impegno sentimentale sarebbe stato un ostacolo insormontabile nella vita di un rivoluzionario militante.
E adesso un colpo di scena: senza ascoltare le riserve dei suoi genitori, nel 1934 Joyce si sposa a Fermo con rito civile con Aldo Belluigi di Tolentino, di famiglia non certo antifascista.
Comincerà la sua vita con lui in Kenya, in un villaggio a 200 km da Nairobi, dove il fratello Max aveva avviato un’azienda agricola che però non ebbe fortuna. Come il matrimonio di Joyce, affrontato forse come rivincita sul rifiuto di Lussu, nell’entusiasmo incosciente di una giovinezza avventurosa. Aveva 22 anni.
In una lettera alla madre del 1936, sappiamo che scrive dal Tanganika, sul lago Vittoria, e parla del Belluigi come “il mio ex marito”. Il matrimonio civile sarà annullato più tardi a San Marino.
Joyce non parlerà mai, né nei suoi scritti né con me e le altre sue amiche più care, di questo episodio. Rimozione di un momento di cui non andava fiera?
Dopo 5 anni riprende i contatti con Emilio Lussu, e proprio in questo periodo (1940-1943) possiamo collocare l’inizio ufficiale della sua vita di fuoriuscita antifascista militante.
A Parigi ormai compagna ufficiale di Lussu, assisterà all’arrivo delle truppe tedesche vincenti (in divise perfette, lucidi stivali e perfettamente allineate in marcia), al comando del Generale Von Kruker. Era il 1940 e l’Italia era allora entrata in guerra al fianco dei nazisti.
In fuga da Parigi occupata, Joyce ed Emilio inizieranno il lungo viaggio, a piedi, nelle strade piene di profughi con carri, masserizie, famiglie, animali…verso il Sud della Francia ancora libera: Tolosa, Marsiglia, poi Pirenei, Portogallo, Lisbona. Una coppia distinta con documenti falsi (poi Inghilterra).
In questo turbinio di arrivi, fughe, partenze, documenti falsi, Joyce però continua a studiare: prima a Parigi, poi a Lisbona; si iscrive alle rispettive università per i corsi di letteratura e filologia portoghese: nonostante i rischi e la provvisorietà della vita clandestina, è più che determinata a portare avanti i suoi studi e la sua vita intellettuale.
Ed andrà anche e soprattutto elaborando l’esperienza terribile delle tragedie imposte alle generazioni di allora, in cui era stata costretta insieme a tanti altri a “fare la guerra contro la guerra” (mandare filmato Joyce).
Durante i lunghi periodi di attesa, che si alternavano alle attività di lotta, veniva riempiendo ogni vuoto stressante leggendo e studiando, e cresceva in lei una posizione sempre più critica nei confronti dei contenuti della sua cultura classica, che all’improvviso, partendo da Omero, sentiva densa di una violenza fortissima.
E si pose il problema se questa cultura non fosse una concausa dei vari processi di regressione ed aggressione della storia e delle terribili giustificazioni per avvenimenti che stavano sconvolgendo il suo mondo.
Si andava sempre più convincendo che i fondamenti della cultura d’élite europea erano da individuare come i maestri della violenza, e spesso dell’oppressione fuori della logica della pace e del diritto dei popoli.
Tornerà in Italia dopo l’8 settembre 1943 per dare il suo contributo, come tutti i partigiani, alla lotta di liberazione nazionale dell’Italia dai tedeschi che con 18 divisioni occupavano il Paese a seguito dell’armistizio di Badoglio.
Sarà Simonetta, nome di battaglia partigiano, in un duro cammino per raggiungere il governo italiano scappato a Sud al quale, sola ed eroica, deve riuscire a consegnare un messaggio del CLN.
Farà festa con tutti gli Italiani dopo il 25 aprile 1945.
Le terribili esperienze vissute hanno segnato per sempre la sua visione del mondo faticosamente rielaborata.
La politica, le appartenenze, le battaglie elettorali si susseguirono ma non la stabilizzarono: Joyce non è donna da farsi catalogare in partiti ed in ordini di scuderia. È ormai una donna libera, cittadina del mondo, in lotta per la pace, alla ricerca di un futuro migliore per il nostro pianeta, da ricostruire dopo due guerre catastrofiche, che insieme ai campi di sterminio hanno sparso nei cieli la luce sinistra della bomba atomica.
Joyce ormai è uscita definitivamente dall’eurocentrismo, di cui aveva messo in discussione anche la cultura. E come a chiudere il cerchio di questo suo percorso di formazione, nel 1958 ad un convegno sulla pace a Stoccolma incontra Nazim Hikmet.
La vita del poeta, le sue lotte per liberare la Turchia dalla dittatura, i suoi esili, la lunga prigionia di carcere duro (17 anni), le sue bellissime poesie crearono una sintonia completa tra i due. E il loro incontro fu amicizia per sempre. “Un vero poeta” – diceva di lui Joyce – “non canta la rivoluzione: fa la rivoluzione cantando”.
Hikmet era venuto diverse volte in Italia e quando venne a Roma nel 1960, Joyce andò a prenderlo alla stazione Termini.
Stavano traducendo insieme le sue poesie usando una tecnica originalissima.
Sarebbe troppo lungo parlarvi con adeguata sistematicità di questa traduzione, dirò solo che Joyce aveva bisogno di avere vicino il poeta vivente per conoscerlo e per tradurlo.
E Joyce era in piena sintonia con il turco Hikmet che aveva lottato per il suo paese, scontato lunghe prigionie e che ora viveva in esilio dalla sua amata Turchia. Le fu facile e naturale capire le sue immagini culturali e poetiche.
Quindi, ignorando il tradizionale lavoro filologico su grammatiche e vocabolari, usarono una lingua comune a loro nota, il francese, perché Joyce non sapeva il turco ed Hikmet non parlava l’italiano. Arrivavano così a capirsi dove il francese non arrivava, utilizzando circonlocuzioni, altre lingue comuni, gesti delle mani, oggetti da indicare definendo così parole e pensieri in italiano.
La disponibilità geniale di entrambi farà sì che il mondo poetico di Hikmet ne uscisse presente e vivo in una lingua italiana poetica e fedelissima.
Tra una traduzione e l’altra Joyce trovò doveroso visitare insieme angoli pittoreschi e monumenti famosi.
Girando Joyce parlava, da Marco Aurelio a Giordano Bruno, dal Vaticano ad una sezione socialista, dal Palatino ai nuovi quartieri in costruzione. Si sforzava di presentargli Roma con la diligenza di una guida autorizzata.
Hikmet taceva fermamente e mentre Joyce lo riteneva immerso nei cumuli di storia che gli sfilavamo davanti, lui era semplicemente di cattivo umore.
Il terzo giorno, finalmente, Hikmet parlò e bruscamente risentito, anche se a bassa voce, le disse che gli aveva rovinato Roma, che l’avrebbe sempre vista con i suoi occhi e le sue infinite e noiose spiegazioni.
Insomma gli aveva negato di scoprirla attraverso le sue reazioni e sensazioni. Joyce, risentita, gli ribatte’ che nessuno gli negava di guardare Roma a modo suo.
Hikmet chiuse l’animata e agitata conversazione dicendo che non sapeva che farsene degli antichi romani e del nostro luminoso Rinascimento: lui, barbaro venuto dall’oriente non aveva nulla in comune con la nostra cultura classica di cui l’occidente si sente erede.
Joyce riuscì a non reagire e il giorno dopo, calmatisi i bollenti spiriti, promise che si sarebbe limitata agli indirizzi del buon mangiare romano, dove si spendeva poco (sottesa e sottile ironia??).
Finirono per pranzare da Paolo l’amatriciano, dietro a Santa Maria della pace e Joyce tento di non reagire alle provocazioni del suo amico che esaltava le melanzane dell’Anatolia, a scapito di quelle degli orti romani.
Joyce meditò a lungo sulle parole di Hikmet e sul fatto che era figlio di un’altra cultura completamente estranea al pensiero di un Occidente sempre convinto di Nazim Hikmet.
essere superiore in tutto.
Precorrendo il futuro, Joyce, a questo punto, sentì l’eurocentrismo come un limite al rapporto pacifico tra i popoli. Se non ce ne fossimo liberati, aprendo al “diverso”, ci saremmo definitivamente chiusi nel nostro arido isolamento.
Perché la pace, diceva, nasce soprattutto da questa visione utopica che, se realizzata, non potrà che generare armonia.
Il turco Hikmet fu per lei tutto il resto del mondo che ha altri miti, altre storie, che ignora le nostre e non si cura di ignorarle. Scriverà la storia degli umili, dei poveri, dei contadini, delle donne, tradurrà la poesia di popoli in lotta contro il neocolonialismo che non hanno niente a che fare con noi.
Da adesso in poi Joyce si occuperà del “diverso”, degli emarginati da culture aggressive, cancellati dalle storie ufficiali di guerre e distruzione, condotte dalla legge del più forte.
Ed è stato bello ascoltarla e fare nostro questo suo sogno.
LA CASA DI JOYCE
Luisa Serroni
Il Centro Studi Joyce Lussu si sta impegnando da oltre due anni -esattamente dal 7 giugno 2022 – nella battaglia per l’acquisto pubblico della casa di Joyce sita a San Tommaso di Fermo, reputandola fondamentale per la sua stessa missione.
Questa donna – figura imponente e indimenticabile – che ha attraversato da protagonista quasi tutto il Novecento (antifascista, partigiana, capitana delle Brigate Giustizia e Libertà, medaglia d’argento al valor militare nel 1961, femminista, poeta, scrittrice, traduttrice, storica, ecologista, attivista a sostegno dei movimenti pacifisti e di liberazione dal neocolonialismo), ha fatto della casa di San Tommaso (che era stata rifugio di ufficiali e militari alleati durante la Resistenza) il suo “buen retiro” dalla morte del marito Emilio Lussu (1975) fino alla sua (1998), e ciò fa sì che oggi questa casa non sia semplicemente un luogo fisico attraverso il quale richiamare la memoria di Joyce, ma sia un potenziale centro vitale per lo studio e il dibattito culturale.
Quando più di due anni fa la famiglia Lussu ci ha comunicato la sua intenzione di vendere la casa di Joyce, come Centro Studi ci siamo attivati immediatamente per chiedere all’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini di promuovere l’acquisto pubblico della dimora, ma per avvicinarlo ci siamo avvalsi di canali non ufficiali, e pertanto non sappiamo se il Ministro abbia mai ricevuto la nostra lettera. Sta di fatto che non abbiamo mai ricevuto risposta.
Contestualmente, abbiamo contattato anche il Sindaco di Fermo, dal momento che la casa di Joyce insiste nel territorio extraurbano del fermano, e Calcinaro si è dichiarato favorevole ad un acquisto pubblico, purché “in cordata” con lo Stato e gli Enti territoriali marchigiani (Regione e Comune).
Per oltre un anno non è accaduto più nulla, finché nell’estate del 2023, in parte in virtù dell’uscita del libro “La Sibilla” di Silvia Ballestra, e in parte in virtù del successo di una petizione lanciata il 24 agosto 2023 su Change.org dalla giornalista sarda Federica Ginesu, buona amica del Centro Studi, l’opinione pubblica si è vivacemente interessata alla vicenda del destino della casa di Joyce, come dimostrano le quasi 24.000 firme raccolte.
Sempre il 24 agosto 2023, gli Onorevoli Francesco Verducci, Irene Manzi e Valdo Spini insieme alla Professoressa Urbinati, docente di Scienze Politiche alla Columbia University di New York, hanno rivolto un appello al nuovo Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per chiedere di tutelare la casa di Joyce.
Da quel momento, si è succeduta una serie di iniziative politiche che hanno fatto aumentare la pressione per l’acquisto pubblico della casa di San Tommaso, affinché la memoria di Joyce, che è memoria della nostra storia nazionale ed espressione di una delle voci più originali e vivaci del nostro patrimonio culturale, venisse preservata.
Ricordiamole, nell’ordine: il 30 agosto 2023 la mozione presentata all’Assemblea Legislativa delle Marche dal Consigliere regionale Cesetti e sottoscritta da tutto il gruppo Dem; il 5 settembre 2023 l’interrogazione parlamentare al Ministro della Cultura Sangiuliano da parte degli Onorevoli PD-AVS Verducci, Manzi, Ghirra, De Cristofaro, e altri.
Alle citate interrogazioni parlamentari e regionali non sono state date risposte nelle sedi preposte.
Successivamente, il 20 novembre 2023, il Consiglio Comunale di Fermo ha approvato all’unanimità di maggioranza e opposizione una mozione fortemente voluta dal Centro Studi e presentata dall’assessora alla cultura Micol Lanzidei, che impegna il Sindaco e l’Amministrazione Comunale ad intervenire attivamente presso il Ministero della Cultura, congiuntamente alla Regione Marche e al Centro Studi Joyce Lussu, per garantire la finalità pubblica di Casa Lussu.
Alla luce di questo concreto endorsement, il 23 novembre 2023 il Centro Studi ha scritto al Ministro della Cultura Sangiuliano per chiedere un appuntamento da parte di una delegazione del Centro Studi stesso, ma anche a questa richiesta non è seguito alcun riscontro.
Ma il Centro Studi Joyce Lussu e alcuni parlamentari italiani non hanno alcuna intenzione di desistere: il 13 maggio scorso una nuova interrogazione parlamentare è stata presentata dagli Onorevoli Irene Manzi (PD), Francesca Ghirra (AVS) e altri, cui in data 14 maggio 2023 è seguita la risposta immediata del sottosegretario Mazzi. In essa si afferma che il Ministero della Cultura si riserva di procedere ad accertamenti istruttori circa la fattibilità e sostenibilità dell’acquisto della villa di Joyce Lussu ai fini della realizzazione di una Casa museo e, nelle more delle valutazioni, qualora gli eredi di Joyce Lussu dovessero procedere ad atti propedeutici all’alienazione della dimora, al Ministero sarà consentito l’eventuale esercizio del diritto di prelazione.
Forte di questa prima, concreta apertura da parte del Ministero competente, il Centro Studi Joyce Lussu al momento sta riavviando i confronti con gli attori della “cordata pubblica” (Comune di Fermo e Regione Marche), allo scopo di giungere all’auspicata azione condivisa fra Ministero ed enti territoriali marchigiani, con cui dare attuazione alle disposizioni della risposta ministeriale.
Vero è che ad oggi non ci sono ancora certezze sul futuro della casa di San Tommaso, amata da Joyce e da tutte e tutti noi del Centro Studi, luogo caldo ed accogliente che per anni abbiamo vissuto vivendo Joyce e condividendo la sua esistenza fuori del comune; ma è indubbio il forte interessamento ai destini di questa abitazione da parte della collettività locale e nazionale.
Ne è stata dimostrazione l’incredibile affluenza di pubblico proveniente da tutta Italia e disposto a stare in coda per ore in occasione dell’apertura della dimora, avvenuta domenica 24 marzo 2024 in occasione delle giornate FAI di primavera.
Come Centro Studi riteniamo che ciò dimostri che il dibattito sull’utilizzo futuro della casa di San Tommaso è tutt’altro che chiuso, e per questo manteniamo alto il nostro impegno sulla vicenda, anche perché le nostre idee su come dare nuova vita alla dimora sono e sono sempre state molto chiare: noi riteniamo che la casa di Joyce sia uno spazio da salvaguardare e da mettere a disposizione di tutto il territorio.
Solo in tal modo quel luogo, che è stato così fortemente segnato dalla presenza di Joyce, non si ridurrà a luogo statico di conservazione di arredi, ma sarà un centro vivo di memoria attiva, ossia un luogo di studio, di incontro e di elaborazione, al servizio di un dibattito culturale molto approfondito in cui tutto quello che Joyce ha detto e tutto quello che Joyce ha fatto diventi una sorta di “lievito” con cui affrontare i temi più importanti della nostra contemporaneità.
Joyce Lussu, LA CASA E I COINQUILINI
Leandro Di Donato
Tra le pagine scritte, le interviste e le conversazioni con amici, frequentatori della sua casa o ospiti occasionali, Joyce Lussu ha messo a dimora riflessioni, osservazioni e suggestioni che hanno alimentato visioni, prese di posizioni e azioni. Questi innumerevoli semi hanno scavato, per vie a volte sotterranee, canali e connessioni che hanno unito, nel solo modo in cui può farlo un vitale lascito culturale, le sue parole al tempo presente e, credo, le uniranno anche al tempo futuro. Fra questi vi è un pensiero che, a svolgerlo come un gomitolo, ci può portare molto lontano e può aiutarci, come un filo d’Arianna, a trovare qualche nuovo varco tra intrecci di nodi e labirinti di prospettive. Scrive Joyce Lussu: ‹‹Fin da piccola i miei genitori mi avevano insegnato, sia a me, sia ai miei fratelli, che la nostra casa non era soltanto il pezzetto di territorio in cui vivevamo, ma l’intero pianeta era la nostra casa, e nel contempo la casa di tutti. Così, ho pensato che era bello ed intelligente conoscere la mia casa e i miei coinquilini››. La mia casa e i miei coinquilini, due parole, due mondi che legano e si legano, definiscono e dichiarano. La casa, il nostro pianeta e tutti i mondi che lo abitano e lo caratterizzano e i coinquilini, cioè gli altri esseri, umani e non umani che lo percorrono, lo segnano, lo aprono e lo chiudono in una fitta rete di sentieri, materiali e immateriali. Ci sono, in queste poche frasi i nuclei, oggi davvero incandescenti, dei temi che stanno configurando, in modi inediti, scenari presenti e futuri e il profilo, inquietante, che sta assumendo questo primo quarto di secolo nuovo. Si delinea un panorama che, ad uno sguardo superficiale potrebbe solo intimorire, spingere ad affidarsi a chi ha poteri e responsabilità e a cercare di scavarsi una buca, un rifugio, trincerandosi dietro ai “non tocca a me cambiare il mondo”, “io non posso farci niente”, “ci pensassero quelli che abbiamo eletto”, “se la vedano gli altri, non è un mio problema”. Ma i problemi, vecchi e nuovi, con cui dobbiamo confrontarci sono il frutto storico di scelte politiche, di esiti di conflitti, di scontri di interessi, di dinamiche di uso e abuso di risorse umane e naturali, non fenomeni ascrivibili al capriccio degli dei o alla volontà di enti soprannaturali. Cosa può fare ciascuno di noi e cosa possiamo fare insieme è, esattamente, la domanda, ineludibile, che ci chiama a prendere la parola e, conseguentemente, ad agire. Questo appello, che promana dalla configurazione odierna dei processi sociali, richiama un episodio – riportato da Joyce Lussu nella prima pagina del libro “L’acqua del 2000”, pubblicato nel 1977, per i tipi di Gabriele Mazzotta editore – quando una cortese signora, durante un viaggio in treno, le chiese “Lei cosa fa?”, Joyce rispose, lapidaria: “Faccio storia”. Qui vi è un primo punto, anzi il punto fondamentale, vera e propria pietra angolare, che informa di sé ogni lettura del mondo, ogni visione e ogni azione: noi siamo storia, noi facciamo storia, solo se ne siamo consapevoli protagonisti. Ed è proprio l’intreccio di nodi e di temi che caratterizza questo tempo, che chiede a gran voce quella necessità di fare storia prendendoci, insieme, cura della casa e dei nostri coinquilini, perché questo è esattamente il nostro compito e il nostro orizzonte storico. Scrive Joyce Lussu nel libro citato: ‹‹Oggi siamo nell’era atomica, i mezzi di comunicazione arrivano in ogni angolo della terra e oltre, e l’uso delle risorse, per la popolazione umana in rapido aumento, impone una razionalizzazione e una politica attenta e consapevole. Il rapporto dell’uomo con l’aria, l’acqua, l’humus, i minerali, le piante e tutti gli organismi viventi, richiede uno sforzo di conoscenza e di organizzazione nuovi, ma che non possono che radicarsi nell’accumulazione di esperienze del passato.” Vorrei sottolineare, come quest’ultima affermazione di Joyce Lussu, relativa alla necessità di ancorare al patrimonio storico dei saperi, l’elaborazione di nuovi assetti e nuove soluzioni, illumini, in controluce, questo tempo affannato e distratto. Un tempo segnato dallo scorrere di temi e problemi sull’asse inclinato di un eterno presente, che riesce solo a pestare l’acqua torbida dell’istante fine a se stesso nel mortaio di visioni senza profondità, e perciò, senza verità. La ricerca storica che Joyce Lussu ha affrontato, fuori da accademie e schemi, muoveva proprio da questo nesso verità-profondità che, a ben guardare, è l’altro modo di fare storia. Indagare metodi, scoprire filtri interpretativi, trovare e analizzare i legami tra poteri, tecnica, economia serve a capire, cito dallo stesso libro, come agire “per indirizzare le scelte verso la sopravvivenza e la convivenza, e non verso la mutilazione e la distruzione”. Potremmo dire che questo dilemma, questo incrocio di possibili direzioni ed esiti definisce esattamente la posta in gioco di questo tornante della storia. La diffusione delle diseguaglianze mai così profonde ed estese, e il sommarsi di vecchie e nuove povertà generano mutilazione di diritti, di opportunità e di dignità; dunque, in ultima analisi, mutilazione delle vite. Sull’altro versante, la somma dei disastri dovuti ai costi umani e ambientali prodotti dal modello di sviluppo, di reperimento, uso, accumulazione e distribuzione di risorse e profitti, cioè del modello capitalistico, basato sull’idea di uno sviluppo senza limiti che attinge ad un “giacimento” supposto infinito di materie prime e di beni, ha già prodotto molte distruzioni che, senza cambiamenti rapidi e profondi, aumenteranno in quantità e ampiezza. Quello che Joyce Lussu indicava, con preveggente lucidità di analisi nel lontanissimo 1977, è oggi, nonostante resistenze e negazionismi dovuti solo alla difesa, miope e pervicace, di interessi economici, il cerchio di fuoco delle scelte, ora davvero ineludibili, che abbiamo davanti. Dobbiamo trovare nuovi varchi per oltrepassare quel cerchio che brucia le case e le vite dei nostri coinquilini, per dirlo ancora con le parole di Joyce Lussu; fuoco alimentato dai legni dell’indifferenza e dell’ignavia dei rassegnati a non fare più storia. La storia, la nostra storia, deve trovare nuovi passaggi: per farlo occorrono nuove mappe, nuovi pensieri, nuovi paradigmi. Ma i pensieri nuovi non nascono nel vuoto, germogliano – come ammoniva Joyce Lussu- dalla terra della conoscenza e dal lavoro di donne e uomini che hanno passato nel crivello del pensiero critico le varie costruzioni culturali. Riprendendo alcuni dei germogli di Joyce Lussu, investendo nella temperie attuale il suo lascito, lievito per nuovi pani di conoscenza, appare chiaro che la cruna d’ago entro cui dobbiamo passare è quella di trovare una nuova configurazione del nesso sopravvivenza-coesistenza. La sopravvivenza della specie umana e del pianeta dipende, oggi più che mai, dal riconoscimento, vero e perciò coerente con tutte le conseguenze cogenti che ciò implica, del diritto all’altrui esistenza; esitenza titolare di pieni ed esigibili diritti di cittadinanza, che è la condizione in cui solo può esprimersi una vita non relegata alla mera sfera biologica. Da qui scaturisce la necessità di cercare forme nuove per usare in modi non distruttivi le risorse, e per distribuirle fra i coinquilini con modalità tali da promuovere processi di giustizia e pari opportunità; per favorire e sostenere, in definitiva, processi di pace. Il punto cruciale è riconoscere, al di là delle declamazioni ad uso solo mediatico, che la casa che abitiamo non è di nostra esclusiva proprietà. Appartiene a ciascuno e a tutti e, tutti, ne portiamo la responsabilità della sua tenuta e della sua trasmissibilità alle generazioni future. Questa assunzione di responsabilità collettiva, questa concezione dello spazio aperto a tutti perché è di tutti, permette a Joyce Lussu di indicarci una linea di pensiero e di azione che non è riconducibile ad una cartolina ambientale, ad una ecologia vista solo, o prevalentemente, come protezione, staccata dalle condizioni di vita delle persone, dalle dinamiche dei poteri e degli interessi. La casa di Joyce Lussu è una costruzione fatta con i materiali e le contraddizioni storiche degli assetti sociali, da mattoni impastati con passioni e diritti, incisa da violenze e ingiustizie. Questa visione, che non è mai stata utopica, romantica o banalmente “ecologista” è, oggi, una preziosa indicazione di riflessione per comprendere i tanti versanti che connotano quella che lei chiamava “sopravvivenza”. La seconda parola del nesso prima richiamato è coesistenza, cioè il riconoscimento degli altri che come noi, al pari di noi, abitano la stessa casa, coesistono con noi e insieme a noi. Joyce Lussu, nel passo prima citato, diceva che “è bello e intelligente” conoscere la casa e i coinquilini. Per conoscere gli altri, bisogna essere animati da curiosità, rispetto e porsi con una postura etica che ci permette di accogliere per essere accolti, offrendo e accettando le differenze come elementi costitutivi della comune condizione umana, e perciò, non solo preziosi ma indispensabili alla sua piena comprensione e condivisione. Oggi, invece, gli altri sono visti, troppo spesso, come un pericolo, un fastidio; presenze che interferiscono con il nostro piccolo mondo chiuso. Con Joyce Lussu, potremmo dire che sono dei coinquilini che abbiamo sfrattato dalla comune residenza, pur non avendone alcun titolo. Nei decenni passati, dalla conferenza di Yalta del 1945, alla caduta del Muro di Berlino del 1989, siamo stati abituati a scrivere e a leggere la co-esistenza, con il trattino, come l’espressione grafica dell’inevitabile, anzi agognato, equilibrio politico e militare di due mondi, due universi di valori e di idee, la NATO e il Patto di Varsavia. Il trattino esprimeva il confine, una sorta di contrapposizione trattenuta, tra diversi che si riconoscevano nel ruolo reciproco di nemici. Quel trattino, dal cielo della geopolitica, è sceso dentro le vite delle persone a segnare i diversi ordini delle esistenze: quelle piene e pienamente riconosciute come ambiti di diritti, opportunità e diritto alla felicità e quelle, variamente definite, in cui quello stesso riconoscimento varia, su una scala di pochi gradi, da poco a nulla. Quel trattino è molto di più di una espressione di diversità: è l’accettazione degli innumerevoli muri eretti attorno alla vita degli altri coinquilini come una realtà necessaria e perciò sentita come “naturale”. Dovremmo chiederci, necessaria per chi? E le risposte, tutte, chiarirebbero che non si tratta di sistemi naturali ma storici. Con Joyce Lussu possiamo dire che questo tempo ferito ha un bisogno estremo di rimuovere quel trattino, per legare le esistenze, le coesistenze finalmente senza trattino, e riconoscere a tutti la stessa dignità. Per farlo, dobbiamo decidere di muovere nella direzione della costruzione di una diversa possibilità di vivere e di accettare le altre vite. Come? Facendo leva sulla responsabilità personale di ognuno verso il futuro di tutti. Come fare per non ridurre questo ad una sterile dichiarazione di buone intenzioni? I modi possono essere tanti, e tante le strade, ma la matrice generativa di tutte le possibili risposte va rintracciata nello spirito “rivoluzionario”, cioè nella spinta ad andare oltre quello che sembra immutabile con la forza di una visione condivisa, e condivisa perché cocostruita, senza trattino, usando i valori scelti come coordinate e i limiti non come costrizione, ma come condizione feconda per inventare e realizzare un nuovo paradigma sociale, culturale, economico e politico. Un nuovo paradigma umano, cioè storico e quindi realizzabile e dipendente solo dalla volontà e dalle scelte di ognuno. In una parola dobbiamo fare storia. Difficile, certo, ma possibile, anzi indispensabile. Può sembrare astrazione o ingenuità, ma è determinazione. D’altra parte non abbiamo rifugi o vie di fuga confortevoli e nicchie da armare con filo spinato, per nuove residenze protette ed esclusive, riservate, ovviamente, a pochi fortunati. In questa traiettoria di pensiero e di azione, si può affiancare a Joyce Lussu un’altra donna straordinaria che ha scelto di fare storia, Lidia Menapace, partigiana, femminista, cattolica e militante politica. Nel sottolineare la forza della coerenza con i propri valori e la necessità di lottare per allargare lo spazio dei diritti e delle opportunità, Lidia Menapace citava Santa Teresa di Lisieux: “Noi non contiamo niente, ma dobbiamo operare come se tutto dipendesse da noi”. Joyce approverebbe, e direbbe: “Forza, facciamo storia per noi, per la nostra casa e per tutti i nostri coinquilini.”
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