L’avevamo già letta nella postfazione al libro J’accuse di Francesca Albanese (con Christian Elia), uscito alla fine del 2023 per Fuori Scena editore. Ora, dopo un anno e più di guerra e sterminio, la parola di Roberta De Monticelli torna chiara e profonda dalle pagine di questo libro. È la parola di una filosofa che ha forte la consapevolezza che la filosofia non è il mestiere di chi non sa mettere i piedi a terra, non è l’altra faccia, quella più inutile e modesta, della real politik, ma è lo strumento ineludibile per la comprensione di ciò che accade.
Non basta leggere quanto scrivono i giornali o gli esperti di politica, non bastano le dichiarazioni dei capi di governo e non bastano neppure le più approfondite ricerche. Quello che accade in Israele e in Palestina non è riducibile alle vicende di un frammento di terra circoscritto, piuttosto diventa “‘nodo’ della storia mondiale, ma anche del pensiero umano e soprattutto del pensiero di questo nostro presente cieco a se stesso, come sempre è il presente quando le civiltà paiono precipitare nel sonnambulismo che precede lo schianto”.
Per farci capire perché proprio la Palestina è un ‘nodo del pensiero’, l’autrice parte da un viaggio, in Palestina e in Israele, compiuto nell’inverno tra il 2022 e il 2023, prima della tragedia del 7 ottobre 2023. Il viaggio la porta in prossimità delle radici del bene e del male e ne scrive ‘a mani nude’, forte del pensiero di Simone Weil: “il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male”, questione che fornisce all’etica il suo mestiere.
La terra in cui il viaggio si svolge è per noi occidentali la terra del mito originario, della genesi della legge, come parola dell’‘invisibile’, ed è insieme il luogo in cui la tragedia si tocca con mano e la difficile operazione di districare il bene dal male diventa necessaria per consentire la ricerca integrale della verità, che è il solo modo per la restituzione della giustizia.
“Mai come in questo viaggio”, racconta De Monticelli, “mi sono sentita prossima alle radici del bene e del male, in noi e fuori di noi. Solo più tardi mi sono imbattuta in una frase che ho sentito come l’inizio di una spiegazione: ‘Il significato profondo della nonviolenza è quello di fondare l’infinita apertura dell’anima’. L’ho trovata in un saggio di Aldo Capitini pubblicato nel 1949”.
Il nome di Capitini, il suo pensiero, diventano fondamento. Più volte i nostri lettori possono incapparvi anche qui su CartaVetro.
A Nablus, nel cuore della tragedia, l’autrice va alla ricerca di quel frammento di bene, “delicatissimo, sfuggente e inconfondibile”. Nei pressi di Nablus si trovano il monte Garizim e il pozzo di Giacobbe, quello dell’incontro e della quieta conversazione tra Gesù e la Samaritana, narrato nel Vangelo di Giovanni. Lì c’è/c’era Bait al Karama, un centro di accoglienza, incontri, iniziative culturali e sostegno soprattutto per le donne, ma, appena sopra, sulla cima del monte, ci sono gli insediamenti israeliani, il ‘Monte delle Benedizioni’, con una scuola rabbinica che si pone all’estremità delle molte visioni del sionismo, e interpreta la promessa biblica come diretta chiamata alla diaspora ebraica perché ritorni in Israele e interamente lo occupi.
Lì la contraddizione si tocca con mano, ma se si vuole andare nelle pieghe di questa difficile diatriba, è possibile, sulla scorta del pensiero di Jeanne Hersch, percorrere la strada, complessa, ma unica a consentire respiro, del riconoscimento che “qualcosa è dovuto all’essere umano, per il solo fatto che è un essere umano… il riconoscimento di una dignità che egli rivendica perché aspira consapevolmente a un futuro, e perché la sua vita trova in questo un senso di cui è disposto a pagare il prezzo”.
Qui si aprono pagine che riflettono il pensiero di molti maestri, dalla Bibbia dei patriarchi agli scrittori del Novecento, ai filosofi a cui De Monticelli riconosce un primato di pensiero, Husserl e Max Scheler, al Mosè su cui riflettono Mann e Freud, sostando poi sulla matrice del diritto e su quel Giustiniano del canto VI del Paradiso in cui Dante vede l’essenza stessa del diritto come bilanciamento ideale dei torti e delle ragioni di ciascuno.
All’autrice che compie il suo viaggio viene in mente di nuovo la Samaritana, Fotina, la “donna che bevve la luce”, incontrata al pozzo, luogo nuziale dei patriarchi, nell’ora del sole allo zenit.         

E vede nel quadro di Artemisia Gentileschi, Cristo e la samaritana al pozzo, a conclusione del primo capitolo, una sorta di simbolo per una conversazione vera, come regno dell’attenzione assoluta che può essere un paradigma di incontro: “… il pozzo quasi non si vede, fa da tavolo verso il centro del quale entrambi si protendono”.
Un tavolo è anche nel cuore del secondo capitolo del libro, quello attorno al quale siedono, nell’icona Trinità (Ospitalità di Abramo) di Andrej Rublëv, tre uomini misteriosi ai quali il nomade Abramo offre ospitalità.

Abramo sarà padre di una moltitudine di nazioni e i suoi figli, Ismaele avuto da Agar e Isacco avuto da Sara, rimandano alle tre religioni del Libro: Islam ed Ebraismo Cristianesimo. “Louis Massignon mi era venuto incontro con la sua audace rilettura della trinità angelica al convito di Abramo. Trinità cristiana, certo, ma forse anche universale e universalistica, se l’ospitalità di Abramo poteva leggersi come la grazia di una preghiera che, prima di ogni religio e di ogni legge, fa posto qui e ora al convito di tre religioni e leggi e popoli, nell’ora fuori dal tempo di ogni convito, l’ora presente e conviviale del pensiero puro”.
Il terzo e ultimo capitolo è quello del ritorno a casa, del viaggio che riporta a quanto visto e sentito. Ma più ancora è una sorta di viaggio della coscienza l’accorgersi di quel monumento alla rimozione che è il silenzio su tutta la complessità della questione, ‘palestinese’ in questo caso. Nessuna comprensione degli eventi, nessuna conoscenza delle dinamiche che intercorrono su quelle terre. Solo qualche mese prima del 7 ottobre qualcosa pareva muoversi nell’intento di rompere il silenzio: il 30 dicembre del 2022 la Corte penale internazionale dell’Aja aveva riconosciuto la propria giurisdizione sui Territori palestinesi occupati, la prima commemorazione della Nakba il 15 maggio 2023 al palazzo dell’ONU, contestata da parte israeliana in modo piuttosto violento, il dibattito sull’impossibilità di democrazia per gli ebrei in Israele finché i palestinesi vivono in regime di apartheid…
Alla fine tuttavia c’è un’evidenza che una piccola sequenza di quattro mappe, Disappearing Palestine, preparate da associazioni per i diritti umani in Palestina, mostra con efficacia: la Palestina nel 1946, nel 1947, nel 1949/67 e nel 2013. Un modo per rendere visibile la cancellazione progressiva di questa entità geografica e culturale dallo spazio e dalla coscienza, a fronte della condizione diffusa di approssimazione e rimozione.
Accanto alla presenza di tante realtà che lavorano alla conciliazione, al lascito di intellettuali come Mahmoud Darwish, alla voce di resistenti come Munther Amira che dal carcere, Dal cimitero dei vivi, continua la sua azione non violenta, vi sono tentativi di aprire dialogo e ascolto, come la grande conferenza di riconciliazione e pace, It’s Time, che si è tenuta a Tel Aviv lo scorso luglio, o la Jerusalem Declaration on Antisemitism, sottoscritta da professori di tutto il mondo e che si è levata “alta e limpida” proprio da Gerusalemme.

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