È una sorta di truffautiana chambre verte l’opera in versi di Elsa De’ Giorgi (1914-1997) che Elio Pecora, suo amico fedele e amorevole curatore degli scritti, ha pubblicato grazie a Maurizio Gregorini, scrittore ed editore de “il Simbolo” in Roma. Racconto lirico, poema con voce narrante strutturato in tre capitoli pubblicati in momenti diversi ma che si rincorrono in modo quasi ossessivo, L’eternità nel gelo dell’alba (2024) è un costante dialogo dell’autrice con i propri morti, dal marito agli amici più cari di una vita, gli intellettuali più disfunzionali al potere. Non prima, però, di aver celebrato il proprio cuore messo a nudo attraverso il “Calvario” degli amori perduti, dal coniuge inghiottito nel nulla allo “scoglio” Calvino rivelatosi poi cipresso tombale, fino all’amante scelto per toccare il fondo o inseguire la gioventù. In questo “recitativo narrante” sospeso, come osserva Pasolini, tra manierismo e barocco, tra metafore bibliche e cristologiche, Elsa trova la sua eternità di donna che può farsi solo testimone di una Poesia stuprata dalla violenza, la seconda sezione che ha un prologo perugino nato durante la commemorazione di Sandro Penna nel 1977, a cui segue il dolente ricordo delle altre perdite nei terribili anni Settanta. Ecco allora scorrere l’amatissimo Carlo Levi accanto a Linuccia Saba, l’esperienza del Salò pasoliniano in cui Elsa, attrice, riconosce non solo il martirio dei corpi esercitato dai potenti, ma il disamore dell’amico regista, “adorato fratello”, per una gioventù trasformata dalla civiltà industriale. Amico che nell’agosto precedente la sua fine le confessa che “Il disprezzo per il mondo mi tortura / come una volta mi torturava l’amore” e sul volto ha quel sorriso implacabile, arido, che fa pensare a quello di Pavese nel 1950 o a quello, “gelidamente furente”, del marito Sandrino. A quest’ultimo, “eroe della Resistenza” ucciso dalla “mafia italo-americana”, la De’ Giorgi dedica le sue parole più forti e sentite, ribadendo la sua convinzione che Sandrino non si è impiccato (spezzando tra l’altro il bastone delle tende cui era appeso), ma che è morto come l’anarchico Pinelli ed altri “suicidati”. Quella di Elsa è una poesia narrativa di grido e pena che non ha punti di riferimento, ma che riesce a salire alta nell’ultima sezione Corpus Mysticum, ripubblicazione isolata e con disegni di quanto già edito, ma con il titolo Dicevo di te, Pier Paolo.
Il poemetto, uno dei ritratti più belli e strazianti mai scritti su Pasolini, ripercorre morte e funerale cercando un nuovo senso a tanta funesta fine, cogliendolo non tra lo squallore delle baracche di Ostia ma accanto all’assoluta solennità del mare. E dopo? “Dopo, tutto s’è distrutto. / Come sempre. / Le cose hanno un tempo incontrollato / un attimo solo fa la loro verità.” Quella verità che Elsa De’ Giorgi ha sempre cercato, anche in un poema illuminato da una dolorosa intelligenza del mondo.     

Elsa de Giorgi tra Welles e Pasolini. Foto Dondero dal set de LA RICOTTA

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