Boris Ryžij nasce l’9 settembre 1974 a Čeljabinsk, città della Siberia occidentale, da un’agiata famiglia dell’intelligencija russa. Il trasferimento del padre per il suo prestigioso incarico di geofisico conduce la famiglia a spostarsi. Il ragazzo incontra la realtà inquieta, povera, promiscua di un rione operaio che diverrà il paesaggio di riferimento esistenziale e poetico del poeta. Personalità versatile, geniale già nella sua infanzia e preadolescenza, ricca di interessi tra cui la biologia, l’aereo modellismo, il pugilato, di cui diverrà campione regionale nella categoria dei pesi piuma. Conosce a scuola quella che diverrà sua moglie, Irina, nel 1991, anno in cui comincia a scrivere. E in quell’anno la famiglia si sposta di nuovo causando un trauma di separazione non solo con l’ambiente amicale ma anche verso i luoghi a lui cari. La sua ipersensibilità non solo si acuisce drammaticamente ma genera una destabilizzazione con la fine geopolitica dell’Unione Sovietica, dentro cui esplode il ruolo della letteratura come valore assoluto, universale, della tradizione russa, a ogni livello e classe. L’amicizia con Iosif Brodskij, con Oleg Dòzmorov, Kees Verheul segnano già la presenza forte stimata della sua poesia che tesse su una prosaicizzazione utilizzando un lessico colloquiale, volgare, popolare, con toponomi, antroponimi, reali riferimenti che concretamente indicano spazio e tempo rendendo tematicamente dominante l’epoca sovietica degli anni trenta – settanta, non ultima la valorizzazione dell’ingenuità, della cantabilità. La sua dipendenza cronica da alcol accompagnata dall’assunzione di sostanze per combattere l’insonnia, lo porta a un quotidiano sempre più sconnesso fino al suicidio.
L’opera merita tutta l’attenzione. Grazie a Laura Salmon che restituisce un approfondimento saggistico necessario.
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