Ventotene è un pezzetto di roccia vulcanica che affiora dal mare e non occupa due chilometri quadrati. Ha di fronte l’isolotto di Santo Stefano su cui sorge la struttura borbonica di un carcere, oggi in disuso e oggetto di un progetto di rifunzionalizzazione, costruito secondo la filosofia del “panopticon”: da una torre centrale è possibile controllare ogni movimento dei prigionieri, vederli senza essere visti.
Un carcere di fronte e un luogo di confino Ventotene stessa, nel piccolo arcipelago delle Isole Pontine. È uno di quei luoghi, tanti, in cui vennero mandati i dissidenti politici, per tredici anni, dal 1930 al 1943. Allontanandoli dalle loro attività e dai loro affetti, il regime pensava di salvaguardare lo Stato; li sviliva e umiliava senza accorgersi che stava inconsapevolmente creando un’occasione speciale di pensiero e di riscatto.
La cittadella confinaria di Ventotene conteneva un’imponente caserma e dodici padiglioni, di cui uno destinato alle donne. Le nomino perché nessuno lo fa mai: Romagna Domenica, Pippan Maria, Pintor Antonietta, Patander Argentina, Napione Emilia, Messina Rosa, Lizzari Wanda, Lizzari Fatma, Kemperle Apollonia, Honigman Paola, Ravera Camilla, Di Lorenzi Giovanna, Manea Ismene, Di Censo Elisabetta, Balli Ida, Carbone Maria Angela, Maria Zalar Campagnolo Amalia, Butinar Ludmilla, Buonacosa Emilia, Bronzo Emma Maria, Bietolini Anna, Bianciotto Lucia, Bei Adele, Florindi Laura, Baroncini Nella, Baroncini Maria, Ausenda Celestina, Accossato Maria Francesca, Martino Maria sono quelle che l’hanno abitata insieme a tante altre dissidenti anche provenienti da diverse zone dell’“impero”, oltre alle donne che, senza avere condanne, avevano chiesto di accompagnare i loro mariti al confino o di poterli visitare, come Ursula Hirschmann e Ada Rossi.
Le forze di pubblica sicurezza che presidiavano il luogo erano numerosissime e i confinati erano tenuti a rispettare precise regole: un percorso limitato in compagnia di un solo altro confinato, nessuna frequentazione di locali esterni, risposte immediate agli appelli, niente radio né riunioni, niente carta da scrivere, la censura sulla lettera settimanale che poteva essere inviata.
Proprio qui nacque, ad opera di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi, di Ada Rossi e Ursula Hirschmann, l’idea di Europa.
Queste donne e questi uomini non furono soltanto protagonisti del secolo scorso, ma furono i fondatori e le fondatrici di un movimento politico, il movimento per l’unità europea.
Oggi, in caduta libera come siamo, senza rendercene conto perché un impressionante apparato di cosmetici e anestetici la ammortizza, non siamo in grado di cogliere parole che riportino al senso di quella idea. La stessa parola ‘Europa’ si è perduta, i fondamenti della sua cultura, compassione e solidarietà, sono diventati reato e sulla pelle dei disperati un’intera classe politica esercita la sua spietatezza.
Quando Altiero Spinelli, dopo dieci anni di carcere, viene confinato prima a Ponza (1937-1939), poi a Ventotene (1939-1943), sventolavano bandiere con la croce uncinata su tutto il continente.
Ernesto Rossi, maggiore per età di Spinelli, economista legato a ‘Giustizia e Libertà’, era stato arrestato nel 1930 e, dopo dieci anni di carcere, lo avevano condannato al confino per altri quattro. Fu grazie alla sua corrispondenza con Luigi Einaudi che pervenne a Ventotene la letteratura federalista sconosciuta alla gran parte della cultura politica italiana.
Eugenio Colorni, il più giovane, filosofo di famiglia ebraica, socialista, viene rinchiuso in carcere dopo la promulgazione delle leggi razziali e poi confinato a Ventotene.
Nell’estate del ’41, mentre le truppe naziste, dopo avere occupato la Francia, muovevano all’attacco dell’Unione Sovietica, sulla piccola isola del Tirreno tre uomini e le loro compagne misero a punto un documento che rivela una meditazione tanto profonda quanto atroce era la discesa nella barbarie, il controcanto del disastro della democrazia.
Scrive Eugenio Colorni, destinato a morire nel ’44 per mano della criminale banda fascista Koch, nelle righe introduttive della Prefazione:
I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell’isola di Ventotene, negli anni 1941 e 1942. In quell’ambiente d’eccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina, attraverso un’informazione che con mille accorgimenti si cercava di rendere il più possibile completa, nella tristezza dell’inerzia forzata e nell’ansia della prossima liberazione, andava maturando in alcune menti un processo di ripensamento di tutti i problemi che avevano costituito il motivo stesso dell’azione compiuta e dell’atteggiamento preso nella lotta.
…
Fu così che si fece strada l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza degli stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes.
Nasce così l’idea di una libera Federazione Europea che rifugga da egemonie e abbia una solidità strutturale tale da non ridurla a una semplice società delle nazioni, ma, al contrario, preveda la definitiva abolizione dell’Europa divisa in stati nazionali e la forza economica guidata e controllata in modo che le persone non ne siano vittime.
Se non si attribuisce alcun valore alla libertà, cioè ad un tipo di società in cui gli individui non siano strumenti di forze che li trascendono, ma autonomi centri di vita, se non si attribuisce valore alla giustizia, cioè a un tipo di società in cui la libertà non sia riservata a piccole minoranze privilegiate, ma sia un bene effettivo, non solo formale, non vale la pena di occuparsi della salvezza della nostra civiltà. (Altiero Spinelli, Gli Stati Uniti d’Europa).
Il Manifesto è il frutto di un dibattito appassionato, non solo tra i tre autori che ne redigono il testo, ma anche con altri confinati, gli azionisti Dino Roberto ed Enrico Giussani, i repubblicani reduci dalla guerra di Spagna Arturo Buleghin e Milos Lokar, Ursula Hirschmann, ebrea berlinese antinazista, moglie di Colorni (dopo la morte di Colorni, sposerà Spinelli) e Ada Rossi militante antifascista, moglie di Ernesto Rossi.
Furono queste due donne, che avevano ottenuto il permesso di recarsi a trovare i mariti, a trafugare gli scritti dei confinati e a diffonderli in Italia: frammenti, frasi su cartine di sigarette, accuratamente nascoste, costituiscono il Manifesto. Ursula lo traduce anche in tedesco per renderlo accessibile alla resistenza antinazista e Ada lo batte a macchina e lo diffonde negli ambienti antifascisti e nelle università; verrà scoperta e inviata al confino a Melfi.
Spesso oggi si considerano questi padri e queste madri d’Europa come idealisti, utopisti, mentre in realtà continuarono per tutta la vita a fornire idee sul processo di integrazione e in loro si incarna un invito per tutti coloro che, per un innato senso di civiltà, non piegano la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
A queste forze è anche oggi affidata la salvezza della nostra civiltà, che si può attuare solo attraverso una sorta di rivoluzione copernicana nel presente. Alla logica dello stato nazionale, che cerca vantaggi per sé a danno degli altri (Prima gli italiani, padroni a casa nostra, Britain first…), si contrappone la cooperazione per la salvaguardia degli interessi generali. Humanity first è la prospettiva che porta a superare il punto di vista grettamente nazionale (quello che origina la segregazione di chi proviene da altri contesti), e apre al punto di vista degli altri nella prospettiva del destino comune dell’umanità. Si tratta infine, nel pensiero di questi primi federalisti europei, di ripensare il concetto di nazione.
La nazione è un gruppo sociale caratterizzato da una serie di elementi comuni (lingua, religione, storia, tradizioni, costumi, sangue) oppure è una comunità che condivide ideali e che comprende anche chi non vi è nato? La nazione implica un’appartenenza definita dalla purezza di sangue, dal ceppo genealogico, che porta all’aberrazione dello Stato monoetnico e alla pulizia etnica? oppure è comunanza di principi, partecipazione a una collettività che include tutti i residenti nel territorio, indipendentemente dal luogo di nascita, che decidono di vivere insieme nell’osservanza delle stesse leggi e dotati di eguali diritti e doveri? L’idea che lo Stato debba coincidere con una nazione definita sulla base della nascita porta alla società chiusa, intollerante delle diversità politiche, religiose, culturali, sociali e ostile verso le altre nazioni. L’elemento identitario della cittadinanza cosmopolitica è il patriottismo costituzionale di Habermas nei cui valori i cittadini si riconoscono indipendentemente dal luogo di origine. La cittadinanza va separata dall’origine etnica e legata alla residenza e aperta a tutti coloro che scelgono di vivere in un quel dato territorio.
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