Stregherie promette molto: iconografia, fatti e scandali delle sovversive della storia, “una storia vecchia e nuova di streghe, tra conoscenze antiche, cerimonie nascoste, sacralità ed erotismo per raccontare una storia di donna rimossa dalla cultura e dalla vita” , per citare solo una parte delle sintesi di presentazione. Da tanto tempo speravo in un’operazione di restituzione storica e culturale della figura della ‘strega’ ad ampio respiro, dopo il ben più modesto allestimento,(due o tre stanzette, senza effetti speciali, con esposizione di documenti, quadri ed apparati illustrativi di rigorosa attestazione storiografica) a cura dell’Archivio Storico Modenese, mi pare, di qualche anno fa, che apriva uno squarcio illuminante su inquisizione, tribunali, processi, sfondo sociale di quella che chiamiamo ‘caccia alle streghe’, databile dal XIV a metà del XVIII secolo. Da Bologna sono rimasta delusa, invece. Le stanze ad effetto sensoriale davvero minime: buio, con qualche luce mobile, voci dell’inquisitore e di Ursolina dicta la Rossa (una delle più famose ‘streghe’, documentata sui verbali del suo processo, apparsa nei primi saggi circolati in Italia sull’argomento), la quale è ‘recitata’ dall’attrice con voce violenta e disneyanamente cattiva, piuttosto che sfibrata dalla tortura. Commento di ragazzini in uscita: “Bello, mi è piaciuto, che togo!”. Che non corrisponde, credo all’intento primario – o assolutamente secondario? – di mostrare la terribile ingiustizia della tortura. Per tutte le sale, di sottofondo, ma in modo che non si capisce troppo bene, anche per i dialetti delle protagoniste, brani di difese disperate e confessioni, che ho faticosamente captato acusticamente e riconosciuto ‘veri’, che cioè vengono da verbali autentici che ho imparato a distinguere: forse la parte più vera e importante della mostra, ma buttata lì come un qualsiasi sfondo sonoro, inafferrabile per molti versi. L’enorme offerta di stampe databili, a parte pochissime, alla fine del XVIII, a tutto il XIX, fino agli inizi del XX secolo, a parte alcune opere di artisti più vicine al nostro tempo, mostrano uniformemente la mitizzazione infernalmente negativa della ‘strega’, quale fu costruita da movimenti culturali come il Romanticismo, la Scapigliatura, il Decadentismo, affascinati da un horror gotico, sul quale ridefinirono anche la storia passata e inventarono figure, ancora iconograficamente accettate oggi, di demoni, magie e stregherie varie. Nemmeno affini alle concezioni e immaginazioni degli stessi inquisitori che pure, nei vari manuali per la caccia e la tortura delle donne-streghe – dal Malleus maleficarum, a Strix, ecc. – si erano dati un gran daffare per costruire un immaginario demoniaco terrificante, capace di cancellare e sostituire quello popolar-femmineo della Signora del Buon Gioco, di Madonna Erodiade, Diana, ecc., testimoniato ancora in vari processi non solo del 1300. Nei minuscoli cartellini sotto le stampe ci sono spiegazioni più spesso eccitanti al gusto dell’orrido mistero, pur con qualche controaffermazione che smentisce l’impressione o l’attribuzione malefica, e in qualche caso rende conto dell’effettiva condizione sociale delle accusate o della loro attività di conoscitrici e guaritrici con le erbe, evidenziando l’innocenza delle perseguitate. Ma comunque sono messi in evidenza alcuni casi clamorosi di donne accusate e giustiziate per avvelenamenti o violenze, spesso accertati e non solo supposti, compreso quello di una killer nostra contemporanea (morta nel 1970), caso famosissimo di cronaca nera: Leonarda Cianciulli, la ‘saponificatrice’ di Correggio. Casi che con la stregoneria spesso non ebbero e non hanno avuto molto a che vedere. Ma che creano un bel po’ di confusione nello spettatore, in quanto, dopo le non troppo forti difese delle ‘brutte’ malefiche, si mostrano tra loro realissime conclamate confermate assassine. Cosa si porterà a casa nella testa il ragazzino delle medie, in visita alla mostra, già piuttosto abituato dalla fantasy attuale a Potenti del Male, magie infernali del quotidiano, eroi del lato positivo più feroci del lato oscuro, ecc.? Non voglio, infine, rimarcare altre mancanze, ma mettere in luce il momento per me più significativo, ma purtroppo meno vissuto dai visitatori che io ho incontrato: in una piccola scatoletta di cartone si è invitati a prendere un quadrettino di carta, 5 X 7 cm., su cui in piccolo piccolo è riportata la vicenda di una donna storicamente vissuta, accusata, torturata e spesso uccisa per stregoneria, (ogni pezzetto, una donna diversa) con la raccomandazione di portarsela dentro per un giorno almeno. Questa cosa, così semplice, mi ha davvero commosso, perché io da tanti anni mi porto dentro con rispetto quelle povere donne (ma alcune, davvero, grandi signore!, magistre, sapienti) di Val di Fiemme che furono torturate e bruciate come streghe a metà del 1500. E mi sembra, intanto, un modo per non seppellirle nella dimenticanza, o, peggio, nella perpetuata immaginazione misogina; in attesa di una grande ammissione di colpa e vergogna che mai, forse, verrà.
Riporto un mio breve articolo che uscì per Carte Sensibili nel febbraio del 2017, solo per accennare alla drammatica complessità del tema in questione.
Ho incontrato queste donne dei tanti processi intentati dall’Inquisizione all’inizio del ‘500 in Val di Fiemme, nei brani di verbali che Muraro ha pubblicato. Alcune forti e tenaci come figure leggendarie dei miti, alcune fragili e spaventate come capitate lì per caso, travolte da un’ondata di violenza cieca e stupida che moltiplica accuse e delatori quasi a ritmo infinito. Alcune poco più che fattucchiere a tempo perso, altre più o meno estranee, per quanto lo permetteva vivere gomito a gomito con tradizioni millenarie di ‘magia’. Alcune, poche, vere sciamane e capaci guaritrici, spesso levatrici. Già è il tempo che la figura positiva della Signora del Buon Gioco, che raduna i guaritori sciamani in conviti di canti e danze, nella luce di pallidi fuochi, che svela il futuro, dà le ricette delle medicine, si è oscurata, è diventata ‘brutta’, ‘nera’, fino a scomparire per lasciar posto al ‘diabolo’. Ma si ha l’impressione che per certe di loro sia ancora un riferimento importante. Che ci conduce direttamente alla figura della Grande Madre, che dal neolitico è arrivata fino a noi, vestendosi dei panni di ‘bianche signore’ che compaiono per lo più a pastorelle/i e semplici giovani persone. Le donne della Val di Fiemme, eccetto una incinta, furono tutte torturate a lungo e poi bruciate sul rogo. Alcune morirono in carcere.
Ho incontrato queste donne come se mi parlassero adesso, davanti agli occhi, perché i verbalizzatori a volte lasciano l’assurdo ripetitivo latino dei tribunali per riportare proprio le loro esatte parole. Così vive. E in alcuni casi, come questo che vi propongo, così stupefacenti. Leggete, se potete, questi verbali. Come fare una traversata del Mediterraneo sui barconi che poi affondano.
Martedì 25-2-1505
In un miscuglio di discorso diretto ed indiretto di chi teneva il verbale, Barbara, dopo avere a lungo negato di ‘segnare’(sottoporre a pratiche magiche di guarigione) dei bambini, pressata da varie testimonianze, infine “dixit”:
Quello che ho fatto, ho fatto per amor de Deo, et secondo che Dio è andato segnando per el mundo, cusì ancora ella (Barbara) ha voluto segnare in el nome del Padre, et Fiolo et Spiritu sancti, Amen. Et segnata a questo modo tolta una creatura sora una pala et calzata (cacciata, fatta entrare)in el furno e poi cavata fôra (un forno simbolicamente uterino, quindi, da cui il bimbo rinasce) in el nome del Padre, Fiolo et Spiritus sancti, Amen, de’ tali (alcuni) sono morti et tali guariti. Che volì che faza mi? Quel che ho fatto, ho fatto per bene. Nec aliud dicere voluit. Sic conductam ad torturam et ligata et levata dixit, quod relaxaretur, quod vult dicere veritatem; et relicta nichil dicere voluit. (E non disse altro. Allora fu portata alla tortura, legata e alzata (appesa per le braccia legate dietro la schiena, sollevata in alto con un peso ai piedi, strattonata –‘squasso’ – per incutere il massimo dolore). Chiese di essere messa giù, che avrebbe detto la verità. E messa giù, non volle dire nulla. Povera disperata tattica per avere un attimo di pausa, che si trova tantissime volte in tutti i verbali dei processi alle streghe.)
Di nuovo alzata e di nuovo messa giù:
nichil dicere voluit, nisi ut dixit, quod signavit pueros de mal de senega. (…) et interrogata, unde procedit istud malum Senega, dixit, quod in aqua reperiuntur vermiculi albi, tamquam filum, curvi, nominantur faschio, et quando ipse mulieres prengne obviant contra ipsum vermum capiunt istud malum et ipsam infermitatem, senegam dictam. Et sic e converso pueri a matribus capiunt et semper sunt debiles et non possunt crescere et sic exsiccant et moriuntur. Et istud receptum est contra istud malum senega, sicut dictum. Aliudt dicere noluit. (non volle dire niente, se non che aveva segnato dei bambini per il male della senega (probabilmente dal latino ‘senex’, per indicare un incresparsi della pelle simile a quello della vecchiaia).(…) Interrogata da cosa derivi questo male, rispose che nell’acqua si trovano dei vermicelli bianchi, come filo, ricurvi, chiamati faschio. Quando le donne gravide vanno contro (?) questo verme, prendono il male. Così a loro volta i bambini lo prendono dalle madri e sono sempre deboli, non crescono, si seccano e muoiono. E quella è la ricetta contro il male. Altro non volle dire.)
Bartolomea, moglie di Giuliano Del Papo, anch’essa travolta dalla stessa ondata inquisitoria della Marostega, rivela anche lei, sotto tortura, una ricetta per il mal de senega:
Se tu vol guarire il mal de la senega bisogna che tu vadi de nove vedoe (vedove) et domandare da cescaduna uno poco de farina, sia che farina che se voia (qualsiasi), et de quella farina far una forada (ciambella) a modo uno brazzadello, tanto largo che possa andare zo per la testa a una creatura (che ci possa passare la testa di un bambino), et coserlo sotto la cénera: et da poi tor quella creatura, o putto o putta, che ha mal de senega – non sa lor instesse (le madri stesse) che mal che la sia – et quelle femmine che vanno in compagnia (che partecipano al rito) non bisogna parlar uno a l’altra, et portar quella creatura fora, sora una crosara (crocevia)in nomine diaboli, appresso donde se trova che sia uno sambugo (sambuco), et tor quella creatura su in nel nome del diabolo, et metterla sotto o sora el sambugo in el nome del diabolo, et mettergli zo per la testa quella forada in el nome del diabolo, et picar (appendere) quella forada a quel sambugo in el nome del diabolo, et lassarla lì, et portar la creatura a casa. O vero muore o guarisce.
Bartolomea riporta un rito di cura che mantiene alcune affinità col rito della Marostega (la farina, la ciambella col foro, vagamente uterina, attraverso cui far passare il bambino), ma sembra però che ne sia rimasta solo una forma esteriore. Particolare anche l’ossessivo richiamarsi al ‘diabolo’, che era quello che ci si aspettava da lei, ma forse era anche quello che davvero lei credeva. Infatti il suo tentativo di difesa è che si è invischiata nella stregoneria solo perché era malata, quindi costretta a patti con ‘la Sporkita’, una interessante figura femminile. Che è il diavolo,però, come dice quando le chiedono chi sia, mantenendo poi questo nome e questo sesso. Invece la Marostega, continua per tutti i quaranta giorni di torture a sostenere che, se mai è stata nella compagnia delle streghe, c’è stata trascinata a forza; che continua a non confessare, attentissima a non farsi sfuggire troppo:
Che volì che diga? Ho io forse dicto massa? Hoio, sì… Tamen nichil aliud cum ea processum fuit. (Cosa volete che dica?Ho forse detto troppo? Ahi, sì… Tuttavia in nient’altro con lei si procedette.)
Pronta a ributtare l’assurdità delle domande in faccia agli accusatori, a portarli all’esasperazione:
Quello che ho dicto sia dicto. Sic prefatus dom. Vicarius ei proposuit, ut clare specificet utrum fuit in ipsa societate aut non, quod si fuit dicat quod sic, quod si autem non fuit dicat quod non fuit. (Quello che ho detto, ho detto. Allora il signor Vicario le ingiunse di specificare bene se in quella compagnia –di streghe – lei c’era stata oppure no: se c’è stata che dica di sì, se non c’è stata dica di no.)
Portata alla tortura, lei risponde:
Mal se dico de no, pezo se dico de sì.
Perché se confessa andrà al rogo, se non confessa continueranno a torturarla. L’unica speranza è resistere: segno, per le procedure processuali, di innocenza. Quel giorno nega ancora.
Sempre scurlando caput in non (sempre scuotendo la testa a dire no).
Ma il giorno dopo, venerdì 4 aprile, dopo trentasei giorni di torture, qualcosa deve lasciar passare, ma sempre ribadendo la costrizione:
Nichil aliud dicere voluit, nisi ut dixit: Sia dicto; et se mi farì dir per forza bisongna dir per forza. Io non so altro. El fogo blavo (il fuoco pallido che vedevano le streghe ai convegni) ho io ben visto tre volte, in più logi (posti).
E più tardi:
Mo’ ben se la più parte (la parte più forte) vinze, bisognerà pur dire.
Ma quando le chiedono da quanti anni era nella compagnia delle streghe, eccola che sbotta:
Sì, ho altro da far adesso a numerare li anni!
Muore in carcere il 13 aprile, senza aver confessato. Non possono dire che è una strega. Il figlio Costanzo chiede di seppellirla in terra consacrata. Dopo un bel po’ di rimpalli e discussioni, si decide che sì, perché ha invocato la Vergine morendo, però senza il suono delle campane.
Luciana Nora, di Carpi, ricercatrice etnografica, raccolse sul campo negli anni ’70 le ultime testimonianze di ‘guaritrici’ popolari attive nella ‘bassa’ modenese; ha incontrato una pratica per guarire ‘al mèl dal simiòt’ (il male dello scimmiotto, così chiamato perché rendeva rugosa e scimmiesca la faccia dei bambini colpiti, spesso neonati o nella primissima infanzia, male abbastanza presente nelle campagne e conosciuto comunemente dalla gente): il bambino veniva introdotto nel forno tiepido e buio, lasciato lì un po’ di tempo, poi estratto e ninnato. Spesso guariva. Il dr. Marco Vaccari, nel suo articolo “La strana cura per la malattia dello scimmiotto”, del 15-5-2015, presente tuttora nel sito Risonanza emotiva, parla di questa antica pratica di cura, di cui ha saputo, appunto da Luciana Nora. Innanzitutto ci viene spiegato di che malattia si tratta: atrepsia infantile, ipotrepsia o distrofia del lattante. Ne sono colpiti i bimbi piccolissimi (dai 3 ai 18 mesi); i sintomi sono la mancanza d’appetito, il calo di peso, la disidratazione, il pianto frequente, la secchezza della pelle che diventa rugosa. Quasi scomparso ai nostri giorni, era comune invece nella passata realtà contadina. Le cause erano certamente una carenza ed inadeguatezza del cibo insieme alla mancanza di cure e attenzione da parte della madre. La donna, nell’organizzazione del lavoro rurale, era pesantemente impegnata in ruoli importanti e faticosi, così che il tempo, l’attenzione particolare e la disponibilità alla cura dei figli neonati, praticamente abbandonati a se stessi nei cestoni-culle, erano davvero pochi e relegati solo alle pause del lavoro agricolo. Vaccari, poi, ci fa notare che, in tempi di frequenti gravidanze non volute, poteva aggiungersi un’ostilità insofferente più o meno inconscia verso il neonato, che portava a trascurarlo, se non –aggiungo io – a metterlo in pericolo di vita. E il neonato è incredibilmente sensibile, attento, ricettivo nel decifrare l’atteggiamento di cura che lo circonda. Le sue reazioni sono immediate e si manifestano nell’unico linguaggio a lui possibile, quello del corpo, attraverso i sintomi – nel caso in questione – che abbiamo visto. La pratica di guarigione è simbolica, una panificazione-concezione/gestazione del neonato, in cui tutti i passaggi sono simbolici, ma anche capaci di arrivare alla psiche del bimbo. Avviene così. Si prendono tre piccole porzioni di lievito (qualcosa quindi che fa crescere) e li si immerge nell’acqua: le due parti –maschile e femminile – della concezione. Il bimbo viene lavato con quest’acqua e massaggiato (carezzato?) nei punti vitali del corpo, rivestito senza essere asciugato: è a tutti gli effetti ‘impastato’ per la lievitatura. Le formule della guaritrice che accompagnano il rito sono poco più che scongiuri, non ci sono riferimenti a idee miracolistiche o di possessione diabolica. Quindi, per tre mattine consecutive (tre è un numero sacro, ma moltiplicato per se stesso è anche il numero dei mesi della gravidanza)il bimbo è sistemato sulla pala dove si mettono le pagnotte, per introdurlo nel forno tiepido e buio: un utero a tutti gli effetti. E quando dopo un certo tempo è tolto, si tratta di una vera rinascita. A lui e alla madre è data un’altra possibilità di vita e relazione. Il dr. Vaccari si chiede, alla fine dell’articolo, da dove possa venire un tale rito, che dimostra una tale conoscenza della psiche e del potere d’incidere che hanno certi simboli. Per sottolineare ancora di più questa domanda rimando a quell’innovativa eccezionale esperienza terapeutica, narrata dalla psicologa svizzera Marguerite Sechehaye in “Diario di una schizofrenica” nel 1950, con cui riuscì a guarire una giovane paziente, Renee, con una sua regressione ai primi anni traumatici di vita, facendoglieli rivivere simbolicamente in modo positivo e recuperandola quindi alla salute mentale. In un documentario televisivo che riprendeva proprio i riti carpigiani del ‘mel dal simiot’, si dichiarava apertamente la sapienza psicanalitica sottesa a quella pratica di guarigione.
Da dove viene questa conoscenza che accomuna le lontanissime nello spazio e nel tempo streghe della Val di Fiemme cinquecentesca con le guaritrici della bassa carpigiana degli anni ’70 e con le cure sperimentali della psicologa Sechehaye?
Bibliografia per chi fosse interessato:
Luisa Muraro, La Signora del gioco, La Tartaruga, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2006
Pinuccia Di gesaro, Streghe,Praxis 3, Bolzano, 1988
Carlo Ginzburg, Storia notturna,Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1995
Carlo Ginzburg,I benandanti, Einaudi, Torino 1966
Marija Gimbutas,Il linguaggio della Dea, Venexia, Roma 2008
Organizzato dal Piccolo Museo della Poesia, (direttore generale Massimo Salvotti), e dalla Biennale italiana di Poesia fra le arti, ha introdotto la figura della poeta, piacentina “per caso”, Daria Menicanti, la condirettrice Sabrina De Canio; quindi ha presentato una viva rassegna di ricordi culturali e d’amicizia con Daria il prof. Fabio Minazzi, Ordinario di Filosofia della Scienza all’Università degli Studi dell’Insubria e Direttore scientifico del Centro Nazionale Insubrico ‘C. Cattaneo e G. Preti’, che ha promosso la pubblicazione dell’opera poetica completa di Menicanti, Il concerto del grillo, nel 2017,per i tipi editoriali del Centro Internazionale Insubrico. Quindi è intervenuto Amedeo Anelli, poeta e direttore della rivista Kamen, che ha posto l’accento sulla necessità di indagare l’originalità e la complessità della poetica di Menicanti, misconosciuta dall’attuale critica nazionale. È seguito il caldo intervento del poeta e critica Maria Pia Quintavalla, che ha denunciato la diffusa assenza di poete in antologie, rassegne, convegni di poesia del precedente e di questo secolo. Si è poi soffermata su alcuni testi di Ultimo quarto di Daria per sottolineare alcuni passi della sua complessa poetica. Impossibilitata alla presenza, Silvia Cattoni, Docente di Letteratura Occidentale Contemporanea all’Università di Cordoba in Argentina, avrebbe parlato di come Menicanti viene attualmente scoperta in Sudamerica, tema che ha affrontato allora Sergio Colella, nell’ambito della presentazione del progetto editoriale Poesie trilingue. Pur nella brevità dello svolgimento, a cui non sono mancati brillanti momenti come l’intermezzo musicale di Monica Bertuzzi al violino e di Vieri Giovenzana al contrabbasso e un conviviale elegante coffee break, è emersa con chiarezza la necessità di ridare visibilità, studio, condivisione alla poesia di una delle più grandi poete del secolo scorso.
Io ringrazio di questo evento gli organizzatori e riprendo l’invito, già espresso in Casamatta, a intervenire su questo blog con riflessioni su singoli testi o sull’opera complessiva di Daria Menicanti, con lo scopo di invogliare i tanti che non la conoscono a leggerla e a scoprirne la grandezza.
Ancora, per chi fosse interessato, ricordo un mio intervento su Casamatta n.16 di giugno 2022, che troverete nell’archivio dedicato appunto a Casamatta, in calce a tutti gli interventi di questo numero.
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