Guernica. Disegno preparatorio.

Avrei voluto disporre dell’autorevolezza di Roberta De Monticelli e di Francesca Albanese per anch’io intitolarmi all’Emile Zola, “J’accuse”. Con questo riferimento, comunque, desidero consigliare di leggere il coraggioso e chiaro e onestissimo libro così intitolato: J’accuse, appunto; di Francesca Albanese con Christian Elia e con la bella postfazione di Roberta De Monticelli, edito da FuoriScena, RCS Media Group S.p.A., Milano, 2023. Sottotitolo: Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo – L’apartheid in Palestina e la Guerra.
Ero molto piccola ancora quando per la prima volta, in forma quasi clandestina – perché se ne diceva qualcosa, ma vagamente, con pudore e anche forse incapacità di crederci, non fosse stato per quella nuvola nera negli occhi delle mamme, che avevano visto la guerra, patito il fascismo, aiutato in famiglia qualche ebreo a raggiungere la Svizzera, e che alla parola tuttuna ‘campidiconcentramento’ diventavano serie serie, ci prendevano per mano o sfioravano i capelli e tacevano pensando, immaginando – in forma quasi clandestina, dicevo, vidi un documentario in superotto con le immagini –  poi ripetute e ripetute in seguito e divenute significative di un orrore mai prima visto, mai prima raggiunto – delle riprese girate dai soldati che nel ‘45 arrivarono ad Auschwitz. Mi si sono incise per sempre nel cervello, nitide precise esatte di significato. Da non molti anni avevo messo a fuoco cos’era in tutta la sua realtà la morte. Ma lì si andava ben oltre. Lì misi a fuoco una volta per sempre che il mondo e la vita potevano contenere un male così tremendo da non potere stare dentro ai pensieri, che l’essere umano non era affatto il meglio del creato, nonostante le mamme avessero già infilato i giusti dubbi coi racconti della guerra, e coi cenni spaventati alla bombatomica di Hiroshima; ma c’era tanta propaganda al progresso, dallo Sputnik alla modica disponibilità dei primi polli d’allevamento non-ruspante, alle case popolari. Oggi lo chiameremmo uno shock. Forse. Ma lì soprattutto compresi. E lì scelsi di impegnarmi per mai più quell’orrore e per il rifiuto d’ogni violenza. Non facile con il Sessantotto a pochi passi di anni da venire, con la Resistenza di mio padre a pochi passi indietro avvenuta, con un Cristo che dannava all’Inferno per il funerale civile i miei nonni, con un ideale di socialismo sempre più connivente con milioni di morti. Ma, anche negli errori, nei quasi tradimenti, non ho mai perduto quel ‘no’ profondo che mi vive dentro, al di sopra di nominazioni perimetranti o meno, come ‘shoah’, ‘terrorismo’, ‘foibe’, ‘tortura’, ‘olocausto’, ‘stalinismo’, ‘atomica’, ecc. Hanno per me un unico denominatore comune: la inaccettabile violenza contro le creature, e dico ‘creature’ oggi, non più solo ‘umanità’, perché il vero progresso civile ci sta facendo consapevoli dell’interconnessione tra tutti gli esistenti in questa nostra forma terrestre di vita.
Allora.

Lasciatemi dire che la terribile ripetizione dell’orrore sui ragazzi e la gente che il 7 ottobre era ad ascoltare musica è male assoluto, da niente giustificato, nemmeno dalle altrettanto orribili sopraffazioni patite dai Palestinesi; che chi l’ha attuato è corresponsabile del massacro di Gaza che ne è seguito, e che nessuna motivazione – ‘cosa potevano fare, ormai?’, ‘non c’era altro modo per far esplodere di fronte al mondo la condizione dei Palestinesi’, ecc. – può fare accettare quella carneficina. E insieme lasciatemi dire che l’annichilimento totale  di Gaza – trentamila (ma non è solo il numero che fa l’orrore) esseri umani di tutte le età, ma soprattutto di indifesi e inermi, luoghi di cura e riparo, campi di rifugio, case di gente che lì ci aveva tutta la vita – da parte dell’esercito di Netanyahu; e la contemporanea, spesso taciuta, ignorata, quotidiana violenza su abitanti e contadini palestinesi della Cisgiordania, sui loro ulivi segati, sui loro campi cementati, da parte di ‘coloni’ armati dall’esercito israeliano e ad esso associati, stanno ripetendo ugualmente l’orrore di una violenza contro il creato che non ha altra nominazione, altro colore, altro giudizio che: inaccettabile. Voglio poterlo gridare senza essere immediatamente definita ‘filo-‘ o ‘anti-‘ di qua e di là.
Quelli che approfittano della tragedia per tornare alle scritte contro gli ebrei sui muri o nelle piazze, si manifestino per quello che sono: razzisti manipolati, ideologizzati, che nelle difficoltà storico-sociali, si lasciano  scagliare contro un qualche nemico – ebreo o strega o immigrato o vaccinato o novellino di un contesto, o donna, o pelorosso o qualsivoglia carattere che faccia gruppo da colpire – a cui addossare la colpa del malessere, su cui sfogare paure e rabbie, così  da  distogliersi da una protesta diversamente diretta, più mirata studiata, certamente più difficile, se non pericolosa, che disturberebbe ben più veri responsabili dei problemi presenti.
Quelli che, poi, se rifiuti di identificare gli ebrei con il governo/i governi di Israele, ti accusano di essere dalla parte di chi massacra Gaza, non si rendono conto di giocare stupidamente con l’espediente retorico – e quindi, come tutta la retorica, gioco esteriore, spesso imbroglione, di parole – antico come gli antichi greci e romani, per il quale se non ti adegui alla ragione che ti viene proposta, sei nemico, sei comunque dell’altra fazione, non esistendo alternative. Invece il dilemma può avere tre, quattro, molteplici corni.  La realtà, e tanto più la storia con cui pretendiamo di leggerla e codificarla, è complessa, quasi mai univoca nelle sue letture e prospettive. Il Sudafrica post-apartheid insegna. Il Ruanda post-guerra genocida tutsi e hutu insegna.
Ci sono invece quelli che identificano Shoah e Israele, per cui criticare la politica dell’uno è rinnegare la tragedia dell’altra; e magari non si accorgono come certe motivazioni di ancestrale diritto proprietario, di rivendicazione divina, echeggiano lugubremente discorsi e argomentazioni di un passato uncinato, dall’altra parte della Shoah. Ma già qui cadiamo nella bestemmia: se osi accostare, anche solo per superficiali somiglianze, certe scelte e azioni e argomentazioni degli attuali dirigenti israeliani a quelle di chi portava alla cinta la scritta Gott mit uns, immediatamente diventi un Eichmann. Sembra che voci altissime come quella delle ebree Etty Hillesum e Carla Simons, che sapevano così bene guardare dentro la loro situazione d’orrore da superare l’orrore, l’odio, la violenza, da farsi ancora oggi e domani guide per le nostre scelte etiche, non riescano ad arrivare agli orecchi degli attuali detentori del potere in Israele. Be’, vero è che quelle-lì, specificamente, erano poi solo delle donne… Le donne, si sa, rompono particolarmente le scatole: basti pensare a quell’Arendt là, a quanto s’è intromessa dove non era pertinenza sua!, anche se poi ha regalato al mondo un concetto etico di massima importanza, qual è la banalità del male.     
Ci sono quelli che invece litigano per poter estendere la definizione di Shoah ad altre tragedie di stermini e genocidi e non si rendono conto di sottrarre alla più grande –finora– tragedia dell’umanità il diritto al suo nome proprio e unico, nome che deve così restare: principalmente per attaccargli il suffisso maipiù, per dargli la funzione di un tabù universale, un monito-confine da non oltrepassare. Cos’è? Non abbiamo una lingua capace di denunciare un orrore di proporzioni diluviali se non con quella parola? Cos’è? Dire Shoah è una medaglia al merito dell’indicibile che si vuole condividere perché solo così risalti una memoria tragica? Cos’è? Ci facciamo la guerra tra disgraziati per il primo premio dell’orrore? Cos’è? Non siamo capaci di piangere sull’orrore se non stimolati da un nome ‘famoso’?  
Ci sono anche quelli, tanti nei talkshow opinionisti, che definiscono la superiorità d’Israele rispetto agli altri stati confinanti, in nome di una democrazia che si oppone ad assolutismi-dittature più o meno religiosi. Se è indubbiamente vero che Iran, Egitto, Turchia e compagnia bella dei dintorni  e non solo, sono da tempo mondialmente accusati per intollerabili violenze e sopraffazioni e discriminazioni e molte altre –zioni, è altrettanto vero che –almeno finora – per dire ‘democrazia’, anche ai minimi termini (pensiamo a noi!), non basti un parlamento eletto, occorre almeno qualche frase, più o meno formale, magari dentro una roba denominata ‘costituzione’, in cui si parli di libertà, giustizia, diritti di cittadinanza, uguaglianza per tutti ( e non diversamente per l’una o l’altra categoria di abitanti). Che poi non siano principi quasi mai rispettati nei nostri bei paesi europei, chi lo nega? Ma come ci ricorda De Monticelli, se un principio è scritto, intanto c’è, ci puoi fare riferimento, puoi lavorare perché venga rispettato, riconosciuto.
Ci sono quelli, infine, che, magari con espressioni addolorate da pessimisti costretti, ci ricordano che la guerra c’è sempre stata, la violenza pure, da che uomo è uomo – cfr. Caino e Abele – e che non potremo mai eliminarle. Con una battutaccia potrei rispondere che anche la setticemia c’è sempre stata e faceva morire chi l’aveva; finché non s’è imparato a riconoscerla e a trattarla per tempo. Ci si muore ancora, ma molto meno. Seriamente. Vero è che la pulsione all’aggressività ce l’abbiamo nel DNA, probabilmente a difesa; probabilmente dovremo lavorarci ancora tanto, proprio per toglierci l’abitudine ad usarla per l’offesa, così come dovremo lavorare ancora tanto per far entrare nel cervello dei maschi il rispetto del diverso femminile. Cosa però ci dovrebbe convincere a non lavorarci? La nobel Montalcini – to’!, ebrea! – ci rammentava sempre che il nostro cervello è identico a quello del sapiens cavernicolo e che la civilizzazione degli umani non è nel DNA, ma nelle scelte faticosamente messe a punto e quindi compiute e poi tramandate di generazione in generazione.
Migliorare si può. Si deve.   

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