Verso la fine del terzo secolo d.C. inizia a manifestarsi ‒ soprattutto in Egitto, ma anche altrove: in Siria e Palestina ‒ un esodo via via sempre più consistente e dalle caratteristiche inedite. Si tratta di asceti che abbandonano la vita sociale per ritirarsi nei deserti.[1] A seguito dell’editto di Tessalonica, promulgato nel 380 dall’imperatore Teodosio, non solo il cristianesimo diviene religione di stato e il cesaropapismo (già iniziato con Costantino) si consolida ulteriormente al pari del rapporto sempre più stretto tra politica e clero; ma le persecuzioni/pene che un tempo colpivano i cristiani, iniziano a venir rivolte contro i pagani. Circa da allora fanno la loro comparsa nuove figure di martyres ‒ testimoni ‒ che, non riuscendo più a riconoscersi in una comunità ecclesiale disposta al compromesso con il potere, lasceranno le città e i commerci mondani per ritirarsi appunto in luoghi desertici e solitari. Dunque, nota sinteticamente ma efficacemente Giuseppe Morotti, essi:
Nel momento in cui la Chiesa sedeva sul trono accanto a «Babilonia» compresero che la soluzione era la fuga nel deserto, lontano dalle nuove gerarchie e dalle nuove cattedrali. Ritrovare quel Dio che amava vivere sotto la tenda e rifiutava il tempio, ritrovare lo spirito dell’esodo, quello del Battista e soprattutto quello di Gesù.[2]
In Egitto nacquero così centri/luoghi monastici, nei deserti di Nitria, di Kellia e di Scete, presso cui si recavano sia uomini che donne, la maggior parte dei quali conduceva una vita semi-anacoretica, in quanto essi trascorrevano gran parte del tempo in preghiera/contemplazione ‒ o anche solo in silenzio meditativo ‒ appartati entro una cella, per ritrovarsi una volta in settimana (la domenica) al fine di partecipare alla celebrazione eucaristica e a un convivio che era insieme riunione fraterna e banchetto (agape). Tali monaci erano dunque degli eremiti; non a caso il vocabolo che li designa deriva dal greco eremia, ovvero solitudine e deserto. Nella Bibbia, peraltro, il deserto è dimensione simbolica e privilegiata: all’interno del deserto il Signore parla a Mosè, nel deserto della Giudea predica/opera Giovanni il Battista, e infine Cristo si ritira spesso nel deserto a pregare. È altrettanto significativo che nell’Antico Testamento detto spazio rappresenti pure un ambito maledetto (Lv. 16,21-22) e, nel Nuovo, è lì che Gesù viene tentato dal demonio. Duplice appare allora il significato spirituale del deserto: luogo propizio all’incontro benefico con Dio ma anche occasione/opportunità per misurarsi con tutto quanto viene avvertito come malefico (sofferenze interiori, paure, smarrimenti, ansie, conflitti, brame, lusinghe vane e chi più ne più ha ne metta) simboleggiato dal diavolo che tenta il monaco.
Coloro i quali vennero chiamati padri (e madri) del deserto utilizzarono una tale palestra per i loro esercizi ascetici,[3] cercando di accogliere la luce divina, consapevoli tuttavia che ciò comportava sperimentare in sé l’ombra (per dirla con Jung) che essi stessi proiettavano sulla propria anima. Ciò mediante un ascetismo ‒ all’insegna della povertà, castità e obbedienza ai propri maestri spirituali ‒ fatto di privazioni come il digiuno, la vita in solitudine, il trascorrere lunghi periodi entro una cella o una grotta inospitale o anche solo il sopportare di buon grado un contesto climatico-ambientale non certo di facile gestione.
Sintetizzando alquanto, potremmo dire che le giornate di questi uomini e donne erano scandite dall’ora et labora cari pure alla successiva tradizione benedettina e monastica in generale. Il lavoro (ad es. fabbricazione di utensili fatti con fibre vegetali intrecciate, poi venduti/barattati nei villaggi vicini per procurarsi cibo o quanto altro era necessario al proprio sostentamento) serviva anche a tener lontana la temuta accidia/inedia o, in altri termini, il tedioso e melanconico scoraggiamento (depressivo?) che poteva indurre all’abbandono della vita eremitica. La preghiera spesso consisteva nella ripetizione indefessa di un versetto neo o veterotestamentario, in una disposizione d’animo contemplativo-meditativa (melete) che verrà in auge presso i mistici della Chiesa cristiana ortodossa, tramite la cosiddetta preghiera del cuore.[4] I padri del deserto inoltre prediligevano la quiete: il rimanere semplicemente silenti e tranquilli nel luogo prescelto per la loro pratica ascetica. Il silenzio e l’assenza di pensieri permetteva loro di svuotarsi per accogliere Dio in un muto colloquio mistico. Vi erano altresì dei monaci che rimanevano sempre reclusi nelle loro celle, ricevendo il cibo quotidiano da un confratello e l’eucaristia da un sacerdote: la domenica. In ogni caso tutti i padri e le madri del deserto praticavano l’umiltà, la rinuncia all’inessenziale, la presa di distanza da qualunque forma di egocentrismo o filautia.
Una testimonianza ‒ sia pure reinterpretata attraverso una rielaborazione letteraria postuma ‒ di come pensavano, vivevano e meditavano questi uomini e donne nel deserto tra il IV e il V secolo, è data dai così chiamati: Apoftegmi o Insegnamenti o Detti dei padri del deserto. Si tratta delle “parole” (rhemata) con cui gli anziani rispondevano a interrogativi posti loro dai più o meno giovani discepoli. Al lettore esse: “per la loro brevità e incisività, si manifestano come dotate di un’intrinseca autorità carismatica, quasi oracolare, che suscita l’obbedienza da parte di chi ascolta”, e ben oltre l’estrema pluralità/eterogeneità dei temi affrontati: “la loro caratteristica comune ed essenziale non è paradossalmente di fornire risposte precise e chiare, quanto piuttosto di tenere aperte le domande (…) e progressivamente acquisire la capacità di un discernimento personale”.[5]
Una cosa è assodata: i padri del deserto non erano né volevano essere dei teorici e nemmeno dei teologi (nella maggioranza dei casi, comunque, la loro condizione era laicale), abbracciando semmai l’apofatismo.[6] Lo confermano queste due testimonianze, tanto brevi quanto icastiche, che riassumono in maniera esemplare l’essenza dell’insegnamento ascetico di tali mistici. Nel primo apoftegma troviamo scritto: “L’abate Pastor diceva: «Quali che siano le tue pene, la vittoria su di esse sta nel silenzio»”.[7]
È un invito a far tacere ogni pretesa, richiesta o volontà egoica che appare al contempo vana velleità. Medicina per ogni sofferenza (in particolar modo psichica e pneumatica) è un silenzio non solo relativo all’espressione orale ma pure a quella mentale. Niente parole e pensieri, quindi, ma un ‒ implicito ‒ abbandono fiducioso a Dio, mediante un’accettazione totale di tutto quanto possa accadere e una salutare presa di distanza da brame/desideri d’ogni tipo. Dal secondo detto, invece, apprendiamo quanto segue: “Un anziano disse: «La xenìteia abbracciata per Dio è buona se accompagnata dal silenzio, poiché con la libertà di parola non vi è più xenìteia»”.[8]
La xenìteia rappresenta il distacco dalle faccende mondane, da effettuarsi secondo i padri tramite un esilio volontario nel deserto che estrania i monaci non per abbandonare il mondo e gli uomini ma per meglio abitarlo e per meglio amarli in modo non viziato dall’egocentrismo e dall’attaccamento. La questione prettamente mistica, dunque, è di farsi stranieri a se stessi, di far morire l’egoità e l’uomo vecchio affinché possa nascere quello nuovo. Così è da intendersi la mors mystica, ossia lo svuotarsi di sé, il morire a sé stessi per rinascere spiritualmente. È quanto prevede Gesù, che dice a Nicodemo: “In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3-8).[9] Un tale distacco prevede senz’altro il silenzio. Non già la mera astensione dai discorsi o il limitarsi a non sprecare invano le parole. Qui silere è in primo luogo cessare ogni ruminazione interiore, significa mirare a una pace non solamente psicofisica ma spirituale: ad una hesychia quale profondissima quiete data dall’affidarsi totalmente a Dio, ottemperando all’imperativo cristico: “sia fatta la tua volontà”.[10]
Spesso paradossali nella forma e nel contenuto, gli ammonimenti/incitamenti dei padri del deserto somigliano talvolta a certe espressioni eccentriche e all’apparenza contradditorie degli antichi maestri zen, con cui questi ultimi intendevano risvegliare i discepoli e farli consapevoli di come una autentica comprensione delle parole del loro insegnamento stava giusto nell’invito a superarle, a non concettualizzare, a non limitarsi a teorizzazioni/formulazioni astratte o meramente dottrinali. Vedi il detto seguente: “Un fratello interrogò un anziano: «È bene andare a trovare gli anziani, o è meglio rimanere in cella?». Gli rispose: «Regola dei padri antichi era visitare gli anziani, i quali giustamente ordinavano di rimanere in cella»”.[11]
Quasi a dire: non c’è una norma/normativa prestabilita, una modalità unica di comportarsi da parte del monaco per predisporsi all’incontro col divino. Lo stesso eremitismo d’altronde non è fine a se stesso, né ci si allontana dalla comunità per una scelta individualistica, semmai allo scopo di poter meglio esercitare la carità nei confronti del prossimo. Così come l’ascesi e le rinunce di vario tipo testimoniate dai padri del deserto non implicano necessariamente il contemptus mundi (il disprezzo del mondo) e/o la svalutazione della dimensione corporale: della fisicità. Avendo presente quanto la Bibbia riporta sull’apprezzamento del creatore nei confronti del creato ‒ uomo compreso ‒, non avevano certo motivo di metterlo in dubbio.[12] Anche se va detto che, nel medioevo, prese piede in molti religiosi una concezione pessimistica della vita tesa a considerare con grande svilimento ogni ambito mondano/materiale, previlegiando una spiritualità disincarnata.
Tornando ai detti, è forse questo breve apoftegma, in cui si riporta un’affermazione singolare dell’abate (poi proclamato santo) Poemen, a chiarire ciò che più premeva ai padri o, meglio in cosa consisteva davvero il loro anacoretismo:
Non c’è più deserto, ormai.[13] Va’ dunque in un luogo popoloso, nel mezzo della folla, restaci e conduci te stesso come un uomo che non esiste. Avrai così il sovrano riposo.[14]
Ciò che va sottolineato, qui, è giusto il modo di porsi ‒ nei confronti dell’esistenza, degli altri e delle cose ‒ ad essere significativo. Suprema quiete/beatitudine si ottiene infatti, per il mistico Poemen, non tanto in questo o quel luogo, bensì comportandosi senza dare alcuna importanza alla propria vita, disdegnando con santa impassibilità l’io e le sue istanze e purificandolo col silenzio.
Termino, da ultimo, facendo mia una considerazione di Bernard Mc Ginn intorno a questa fase d’avvio del monachesimo in senso stretto, fondamentale per lo sviluppo successivo del misticismo cristiano.
Il fattore più determinante per il retroterra greco della mistica occidentale non fu rappresentato dai conflitti del secondo secolo, e neppure dalla impressionante teologia della mistica di Origene nel terzo, bensì dalla nascita e dal trionfo del monachesimo nel quarto secolo. (…) Fu grazie all’istituzione monastica che le teorie mistiche di Origene si diffusero nei secoli successivi, come pure quelle di Agostino e degli altri mistici latini dell’antichità. Questi sistemi spirituali, fossero stati creati o meno per un contesto specificamente monastico, ben presto divennero monastici.[15]
[1] Il periodo di massima vastità/vivacità del fenomeno si situa nel IV e nel V secolo. Nel VI esso iniziò una lenta ma inarrestabile decadenza, culminata nel VII, a causa dell’invasione musulmana dell’Egitto.
[2] G. Morotti, Per una nuova spiritualità. Una spiritualità comunionale, interreligiosa e cosmica, Edizioni La Parola, Roma 2019, p.87.
[3] Ascesi deriva dal greco antico askesis, che significava esercizio, allenamento, in ispecie atletico.
[4] È una formula che, con qualche variazione, ripete quanto implorato dal cieco Bartimeo: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13).
[5] Citaz. tratta dall’Introduzione, a cura di Luigi d’Ayala Valva, a: I padri del deserto. Detti. Collezione sistematica, Ed. Qiqajon, Magnano (BI) 2013, p. 6.
[6] Concezione detta anche teologia negativa, secondo la quale Dio è inconoscibile e di esso si può dire solo quello che non è.
[7] Citaz. tratta da: Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Bompiani, Milano 2000, p. 47.
[8] Ivi, p. 48.
[9] Ho reso questo passo in modo lievemente diverso dalla traduzione CEI, ed. 2008, poiché ritengo che l’avverbio greco anothen qui possa essere meglio tradotto con: “di nuovo”, piuttosto che: “dall’alto”.
[10] Cfr. Mt 6,10 – Mt 7,21 – Mt, 26,42 – Lc 22,42 – Gv 5,30 – Gv 6,38 – Gv 9,31.
[11] Citaz. tratta da: Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Bompiani, op. cit., pp. 75-76.
[12] “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31).
[13] Tale constatazione deriva dal fatto che, nel V secolo, le incursioni berbere costrinsero Poemen ed altri monaci ad abbandonare il deserto di Scete.
[14] Citaz. tratta da: Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Bompiani, op. cit., p.157.
[15] B. McGinn, Storia della mistica cristiana in Occidente, Vol I, trad. di M. Rizzi, p. 176.
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