Spesso ci fermiamo a ragionare sul trauma della Shoah nelle persone che l’hanno vissuta sulla pelle: pochissimi i testimoni ormai, ma l’orrore non è finito.
Questo libro mostra come tre generazioni di donne portino il peso della tragedia: Sara, nata a Lódz nel 1926 e sopravvissuta ad Auschwitz, Clara la figlia, nata a San Paolo nel 1949 e Lola, la nipote, nata a Recife nel 1984. Le loro voci si intrecciano nel libro che attraverso il diario di Sara, le sedute psicanalitiche di Clara e le note di Lola racconta la storia dell’orma impressa sulle loro vite.
L’infanzia radiosa e l’adolescenza trasognata e carica di attese e d’amore diventano poco a poco in Sara tremore e pena: l’invasione della Polonia, gli attacchi aerei sul Lódz, la fame e l’allontanamento dalla scuola fino all’ammassamento nel ghetto e alla deportazione. Il diario subisce una brusca interruzione dall’agosto del ’43 al gennaio del ’45:
25 gennaio 1945
Diario,
è da tanto che non scrivo. Non c’è molto da scrivere.
Ieri mia sorella Clara se n’è andata per sempre.
Ora sono sola. Sono sola. E sono spaventosamente libera. Mi sento libera di morire…
Sopravvissuta, Sara comincia una vita nella quale il sigillo della morte non si scioglie mai: racconta a Clara, la figlia questa volta, storie di esilio e di persecuzione e le trasmette in segreto il mistero del dolore, senza parlare di quanto ha vissuto. I suoi abiti neri e i numeri sul braccio sono indecifrabili per la figlia fino a quando la madre comincia a parlare, a raccontare di sé, dell’infanzia, delle sorelle, ma capendo al contempo che quel dolore non poteva tradursi in parole. E “si ritrovò faccia a faccia con i suoi spazi vuoti, con le sue lacune e con i suoi mostri”. Sara si uccide.
E Lola, che viene tenuta lontano dalle storie di famiglia, indaga sui tormenti della madre risalendo alle vicende della nonna e comincia a far luce sul deserto di una tragedia psichica:
Scrivo per cercare di capire cosa accadde a mia madre quando trovò il corpo di sua madre. Quando finalmente capì che Auschwitz era nella carne -ormai senza vita- di sua madre. E non nella sua carne. Quando decise di vivere, pur sapendo di avere un passato distruttivo e sconsolante.
…
Basta con l’eterna trasmissione della sofferenza. Basta parlare di Auschwitz.
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