Non ricordo se la parola Ferrari è comparsa alla mia coscienza prima come cognome di mia madre o come marca di una macchina da corsa. Sta di fatto che un po’ di sangue Ferrari nelle mie vene scorre davvero, e i primi giochi della mia infanzia senza giocattoli riguardavano automobiline di creta che modellavo con la terra e poi asciugavo al sole. E pur senza dipingerle, per me erano rosse. Ero piccolo, non ancora scolarizzato.
A quel bambino che dalle sponde del Secchia era appena arrivato nella periferia della città dove la strada che tagliava prati erbosi e gialli di ranuncoli era ancora polverosa, con pochissime case ai lati, pareva buono anche il sapore dell’argilla che umidiccia si seccava sulle punte delle dita fin sotto le unghie e casualmente arrivava a lambire le labbra e infilarsi nella bocca. Perché le mani di un bimbo ancora non distinguono con precisione il confine tra il proprio corpo e la natura dei campi, l’acqua limpida dei fossi o l’erba fresca della primavera. E il sapore della terra è indimenticabile. Che sorpresa ritrovarlo da adulto quando la mia dottoressa omeopatica mi prescriveva l’argilla per rimediare a diverse passeggere insanità.
Strano cominciare con queste stravaganti note biografiche il racconto della visione di un film che nella ricchezza del programma era per me il più atteso dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Un po’ perché è stato girato nella mia città e da modenese l’ho poi osservato con pignola curiosità. Un altro po’ perché ero e resto un tifoso della Ferrari, anche se da anni non mi regala un solo motivo di soddisfazione. Bloccato accanto a mio padre non avevo potuto curiosare nemmeno una volta su quei set che l’anno scorso avevano travestito alcuni luoghi del centro con le architetture, gli abiti e le automobili di quando avevo sei o sette anni. Non che all’epoca fossi sempre a spasso per la città, ma a quel tempo il centro storico era davvero il fulcro della vita e lo attraversavo soprattutto sui filobus che mio padre guidava con la divisa e il cappello che gli cancellavano quell’aria da improvvisato muratore che a tempo perso costruiva la casa in cui avrebbe abitato e infine posato gli ultimi sguardi della sua vita.
Così mi siedo nella sala Darsena del Palazzo del Cinema con l’emozione di chi attende che il buio illumini una desiderata fantasia. Non so niente, non ho letto niente, nessuna anticipazione. Enzo Ferrari lo conosco di fama ma di lui so pochissimo: so che ha perso un figlio di nome Dino perché una delle sue rosse creature porta quel nome. E la visione è una sorpresa dietro l’altra. Scopro che il mito è un signore che dopo una parentesi da pilota diventa un costruttore di automobili e che l’officina di Maranello non ha sempre navigato in buone acque. Il personaggio è ufficialmente monogamo ma di famiglie ne ha due. Una con la moglie, madre dello scomparso Dino, l’altra con Lina, madre di un bimbo di nome Piero. Il film inizia in bianco e nero con immagini di gare automobilistiche d’epoca che ci introducono nella giovinezza del protagonista, che prima di diventare costruttore, si sperimenta come pilota. Siamo alla fine degli anni ’20 del secolo scorso. Ma presto il colore torna a fotografare il presente cinematografico e Modena si materializza in un anno cruciale: il 1957.
Enzo Ferrari sta affrontando un momento di grande difficoltà perché la fabbrica rischia la bancarotta e il suo matrimonio, dopo la perdita del figlio Dino, morto di malattia l’anno precedente, sta vivendo una crisi profonda, aggravata dalla scoperta della moglie che una relazione extraconiugale del marito, nel 1945, l’ha reso padre di un altro figlio.
Nel suo resistere alle avversità sembra aggrapparsi a un pilota dietro l’altro alla ricerca di nuovi successi che salvaguardino la fama faticosamente raggiunta. Ma la sequela di incidenti e di piloti immolati sull’altare della velocità è impressionante. Tuttavia Ferrari, sembra quasi considerarla un tributo scontato. Insomma resto un po’ spaesato di fronte a tanto possibile cinismo. Le macchine, le corse, le vittorie prima di tutto. Perché l’azienda a Maranello necessita di finanziamenti che ne mantengano l’autonomia, e lui è diviso tra la moglie che detiene i cordoni della borsa e la madre del suo piccolo Piero. Il film si concentra su questo “triangolo” e ne fa un po’ il centro della drammaturgia, dove d’ora in poi, corse, macchine, piloti, diventano semplicemente il contesto storico sul quale si dipana l’avventura umana e professionale del Drake. Ma è in questo contesto che Modena emerge in tutta la sua bellezza grazie a una macchina da presa che da una circolare veduta aerea, passa nel corso del racconto a tuffarsi in Piazza Grande, a indugiare per il tempo di un pit-stop sull’Accademia, accarezzare Largo Garibaldi, Corso Canalgrande, le strade strette del centro, introdursi nei teatri e nei palazzi e sfiorare i suoi dintorni collinari. Altre location provengono da lontano, l’Abruzzo, la Lombardia. Le prove in autodromo per forza di cose dovevano essere girate altrove. L’odierno Parco Ferrari ha cancellato tutto e ai bordi della pista ricostruita nel film figurano colline che a Modena non ci sono. Le colline iniziano esattamente a Maranello, dove però un circuito allora non c’era. Ma sono particolari che solo un modenese può contestare e non tolgono nulla alla storia e al suo risultato spettacolare. Molto efficaci e sorprendenti le immagini dei bolidi che sfrecciano sulle strade della Mille Miglia e grazie agli effetti digitali risultano particolarmente drammatiche le sequenze degli incidenti. Da rimanere senza fiato.
Attori al meglio. Adam Driver ci offre un ritratto nervoso e implacabile di un uomo determinato, costretto alla durezza da un mondo spietato e da eventi tragici che ne segnano irreparabilmente l’esistenza. Penelope Cruz impersona una moglie perennemente imbronciata, distante, diffidente, forse rancorosa, con quel dolore intramontabile per la maternità perduta, ma col denaro che al marito serve per conservare il suo sogno rombante. Shailene Woodley è Lina Lardi, madre di Piero, a mio parere il personaggio che più sembra modenese, con la sua aria umile e riservata di donna semplice. Devota, si accontenta del tempo che le viene dedicato, felice del figlio che cresce e che riceve affetto e regali da quel padre spesso lontano.
Sono davvero sprovveduto. Questa doppia vita non la sospettavo. In effetti a me era sempre bastato vedere le Ferrari, quando le incontravo sulle strade di quel po’ di mondo che ho girato. Orgoglioso di quei pezzi di modenesità parcheggiati un po’ ovunque, perché ovunque c’è un qualche ricco che può permettersele.
Ricordo che da bambini io e mio fratello quando vedevamo una Ferrari ferma in qualche posto, correvamo a sbirciarne il cruscotto, attraverso il vetro dello sportello, che spesso faceva da specchio, per leggere le cifre relative alla velocità massima indicata. Era difficoltoso, ma non mollavamo la presa fino a quando soddisfatti, cifre esagerate: 180, 200, 240, ci facevano sognare chilometri orari che nemmeno la slitta di babbo Natale e meno che mai la cinquecento famigliare di nostro padre, che non aveva mai superato gli ottanta. Chissà com’è andare ai 200 all’ora?
Bruscamente le immagini degli incidenti scuotono la mia fascinazione. Della fine di Castellotti accaduta proprio all’autodromo di Modena ho un ricordo vero e la ricostruzione cinematografica è proprio come me l’ero immaginata e come mi era stata raccontata, con la macchina che vola e sbatte contro la muraglia che circonda la pista. L’incidente di Bandini a Montecarlo invece l’ho visto alla televisione. Quando potevo seguivo sempre i Gran Premi e quello di Montecarlo è sempre stato tra i più affascinanti per nella brevità del suo perimetro. Avevo rimosso invece quanto successe alla Mille Miglia del 1957, dove le Ferrari in gara erano quattro, affidate ai piloti Piero Taruffi, Wolfgang von Trips, Peter Collins e Alfonso de Portago. A Brescia taglia il traguardo al primo posto la Ferrari di Piero Taruffi, seguita da quella di Von Trips. De Portago invece, a pochi chilometri di distanza, è vittima col suo navigatore di un terribile incidente che coinvolge mortalmente anche nove spettatori. Esco dalla proiezione piuttosto scosso.
Che dire? Penso che i modenesi andranno a vedere il film incuranti di qualsiasi “recensione”. E ognuno ci andrà col proprio vissuto e personali aspettative, probabilmente con qualche lettura o nozione in più della mia dichiarata ignoranza. Cinematograficamente il film è avvincente, frenetico nel montaggio. Sembra che Michael Mann abbia voluto correre alla velocità delle Ferrari, riuscendo a concentrare in ben 130 minuti il suo adattamento cinematografico tratto dal romanzo Enzo Ferrari: the man, the cars, the races, the machine, scritto da Brock Yates nel 1991.
Le inquadrature si concentrano sui protagonisti e quindi i piani e i campi sono generalmente stretti e brevi, e lasciano poco spazio alle comparse. Troppo pochi i modenesi riconoscibili. Penso che molti figuranti resteranno delusi. La città invece compare ma resta sempre difficile la contemplazione. Si fa appena in tempo a vedere che subito la sequenza prosegue fulminea come ansiosa di giungere al traguardo.
Se proprio volessi fare un appunto lo rivolgerei agli scenografi, che evidentemente non hanno studiato abbastanza. Fateci caso: ci sono due scene in cui si mangia a tavola. Ebbene, manca la tovaglia! Non siamo mica gli americani (Vasco Rossi docet). A Modena, nel 1957, ma anche oggi, si apparecchia con la tovaglia. A noi modenesi ce l’hanno insegnato fin da bambini. Per il resto tutto ok. Fortunati voi che lo vedrete doppiato perché nella versione originale (alla Mostra) i modenesi che parlano inglese non si possono sentire.
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